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I confini tra associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato alla luce della sentenza della Corte di Cassazione n. 9264/2007

L’associazione in partecipazione, disciplinata come noto dagli articoli artt. 2549 2554 c.c., è un contratto per mezzo del quale “l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto” che può consistere, ovviamente, anche in una prestazione di lavoro.

La definizione sulla carta dell’istituto dell’associazione in partecipazione non parrebbe foriera di particolari problemi legati alla sua interpretazione, ma diversamente deve dirsi per ciò che riguarda il confine sostanziale che la divide dal rapporto di lavoro subordinato, confine a tutt’oggi per nulla definito o definibile con certezza.

In diverse occasioni la Suprema Corte è intervenuta nel tentativo di dirimere la querelle e di segnare un punto a favore della certezza, nel difficile compito di fornire un principio definitivo sull’argomento.

È stato affermato più volte che la distinzione fra contratto di associazione in partecipazione, che prevede l’apporto di una prestazione lavorativa da parte dell’associato, ed il contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, e la conseguente riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti, esige una indagine del giudice di merito, volta a cogliere la prevalenza, il cui accertamento, quando adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità: “… mentre il primo implica l’obbligo di rendiconto periodo dell’associante in relazione al potere dell’associato di controllo sulla gestione economica dell’impresa, e l’esistenza per quest’ultimo di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo convolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive ed istruzioni al cointeressato, altra alla salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato”. (Cass. Civ., sez. lav., 12 gennaio 2000).

Proprio in relazione alla decisione in commento, la Suprema Corte, chiamata ad intervenire nuovamente in materia, ha confermato i principi generali che la stessa aveva dettato in precedenza, senza tralasciare importanti riferimenti in relazione agli elementi che il giudice di merito deve considerare per collocare nella giusta luce i casi concreti che si presentano.

Di particolare rilevanza, infatti, è la censura che la Suprema Corte muove nei confronti della Corte d’Appello territoriale che, a suo dire, nel ritenere costituito tra le parti in causa un rapporto di lavoro subordinato ha trascurato nella sua indagine gli aspetti caratterizzanti il contratto di associazione in partecipazione, giudicando decisivi solo gli elementi propri della subordinazione, ma che comunque non possono essere ritenuti a priori estranei anche alla struttura dell’istituto dell’associazione.

La Suprema Corte prende spunto da questa considerazione per ricordare ancora una volta la prevalenza che il rapporto sostanziale deve avere nell’ambito dell’indagine rispetto al "nomen iuris” che le parti hanno assegnato al rapporto contrattuale che le vincola.

Può accadere che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, “sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione” (Corte di Cassazione n. 9264/2007). Il Giudice di merito, dunque, investito del compito di fornire l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve riconoscere prevalenza al comportamento sostanziale che le parti hanno tenuto nell’attuazione del rapporto stesso, e non considerare, esclusivamente o come punto di partenza dell’indagine, la denominazione utilizzata al momento della conclusione del contratto.

La qualificazione del rapporto adottata in sede di conclusione del contratto, dunque, deve essere considerata alla stregua di uno dei tanti elementi valutabili dal giudice di merito, che deve servirsene allo scopo di comprendere prima o definire poi l’esatta volontà delle parti, e naturalmente con essa il vero rapporto che hanno voluto instaurare.

La Corte ha avuto anche modo di affermare che, tuttavia, il “nome iuris”, adottato al momento della conclusione del contratto, pur non essendo decisivo, non è irrilevante e pertanto, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e documentalmente provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, “l’accertamento del giudice di merito deve essere molto rigoroso (potendo anche un associato essere assoggettato a direttive ed istruzioni nonché ad una attività di coordinamento latamente organizzativa) e non trascurare nell’indagine aspetti sicuramente riferibili all’uno o all’altro tipo di rapporto, quali, per un verso, l’assunzione di un rischio economico e l’approvazione di rendiconti e, per altro verso, l’effettiva e provata soggezione al potere disciplinare del datore di lavoro” (in tal senso Cass. 7 ottobre 2004 n. 20002).

È proprio partendo da questa considerazione che la Corte prende spunto per operare una precisazione che nelle stesse intenzioni dei giudici di legittimità vorrebbe diventare un’asserzione di principio di portata generale, applicabile in ogni caso si sia chiamati ad accertare se una prestazione sia effettuata in presenza, o meno, di un vincolo di subordinazione (ad esempio, in presenza di rapporti lavorativi di soci d’opera, di soci di cooperativa, e più in generale anche di contratti di lavoro autonomo in cui la prestazione lavorativa abbia tratti per molti profili assimilabili a quelli del lavoro subordinato).

Il principio di diritto che la Suprema Corte propone è il seguente: “Il riferimento al nomen iuris dato dalle parti al negozio, risulta di maggiore utilità rispetto alle altre in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse. La valutazione del documento negoziale, tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali astrattamente configurabili, non può, dunque, non assumere una incidenza decisoria anche allorquando tra dette figure vi sia quella del rapporto di lavoro subordinato”.

Con riferimento al caso considerato dalla sentenza in esame, ed alla luce del principio generale di diritto appena enunciato, la Suprema Corte non poteva far altro che ritenere fondati i motivi di doglianza presentati dalla società parte del procediento, che nel ricorso lamentava come la Corte territoriale non avesse tenuto conto della presenza di un contratto regolarmente stipulato tra le parti “nel quale è stato chiaramente precisato che le parti intendevano porre in essere un rapporto di associazione in partecipazione, disciplinandolo come tale, sia pure al limitato fine di verificare se, nella concreta attuazione del rapporto, la regolamentazione prevista nel negozio ha trovato una reale corrispondenza”.

La Corte non si limita a tale assunto, ma precisa che le difficoltà di individuare tali differenze emergono anche sotto altri versanti.

L’obbligo dell’associato di effettuare l’apporto promesso trova, per opinione condivisa, il suo fondamento nella causa stessa del contratto e non sono richieste a tale fine forme di alcun genere, ritenendosi sufficiente la prova dell’apporto nell’impresa dell’associato e la dimostrazione specifica della partecipazione agli utili.

Ugualmente, la Corte ricorda che gli elementi più significativi ai fini della qualificazione del contratto di associazione in partecipazione sono l’assunzione da parte dell’associato di un rischio economico, oltre alla non necessaria corrispondenza tra apporto lavorativo e corrispettivo pattuito, nonché un controllo sulla gestione dell’impresa spettante all’associante.

Anche sulla scorta di quanto affermato in ultimo, la Corte si propone l’intento di fissare un’ulteriore principio di diritto,secondo il quale “nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari; e per quanto attiene alle seconde in ragione del rischio proprio della causale associativa del rapporto contrattuale in un corrispettivo volto a prevedere, oltre alla cointeressenza negli utili, anche una quota fissa (da riconoscersi in ogni caso all’associato), di entità non compensativa della prestazione lavorativa e, comunque, non adeguata rispetto ai criteri parametrici di cui all’art. 36 della Costituzione”.

Per dirla con le stesse parole che utilizza la Corte, il principio enunciato rappresenta un rilevante criterio differenziale tra le due figure contrattuali, “nella misura in cui rimarca una diversa omogeneità di interessi tra associato e lavoratore subordinato, in ragione di un distinto e meno diretto coinvolgimento nelle fortune dell’impresa del secondo rispetto al primo, in considerazione principalmente delle sue ricadute in termini economici”.

L’associazione in partecipazione, disciplinata come noto dagli articoli artt. 2549 2554 c.c., è un contratto per mezzo del quale “l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto” che può consistere, ovviamente, anche in una prestazione di lavoro.

La definizione sulla carta dell’istituto dell’associazione in partecipazione non parrebbe foriera di particolari problemi legati alla sua interpretazione, ma diversamente deve dirsi per ciò che riguarda il confine sostanziale che la divide dal rapporto di lavoro subordinato, confine a tutt’oggi per nulla definito o definibile con certezza.

In diverse occasioni la Suprema Corte è intervenuta nel tentativo di dirimere la querelle e di segnare un punto a favore della certezza, nel difficile compito di fornire un principio definitivo sull’argomento.

È stato affermato più volte che la distinzione fra contratto di associazione in partecipazione, che prevede l’apporto di una prestazione lavorativa da parte dell’associato, ed il contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell’impresa, e la conseguente riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti, esige una indagine del giudice di merito, volta a cogliere la prevalenza, il cui accertamento, quando adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità: “… mentre il primo implica l’obbligo di rendiconto periodo dell’associante in relazione al potere dell’associato di controllo sulla gestione economica dell’impresa, e l’esistenza per quest’ultimo di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo convolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive ed istruzioni al cointeressato, altra alla salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato”. (Cass. Civ., sez. lav., 12 gennaio 2000).

Proprio in relazione alla decisione in commento, la Suprema Corte, chiamata ad intervenire nuovamente in materia, ha confermato i principi generali che la stessa aveva dettato in precedenza, senza tralasciare importanti riferimenti in relazione agli elementi che il giudice di merito deve considerare per collocare nella giusta luce i casi concreti che si presentano.

Di particolare rilevanza, infatti, è la censura che la Suprema Corte muove nei confronti della Corte d’Appello territoriale che, a suo dire, nel ritenere costituito tra le parti in causa un rapporto di lavoro subordinato ha trascurato nella sua indagine gli aspetti caratterizzanti il contratto di associazione in partecipazione, giudicando decisivi solo gli elementi propri della subordinazione, ma che comunque non possono essere ritenuti a priori estranei anche alla struttura dell’istituto dell’associazione.

La Suprema Corte prende spunto da questa considerazione per ricordare ancora una volta la prevalenza che il rapporto sostanziale deve avere nell’ambito dell’indagine rispetto al "nomen iuris” che le parti hanno assegnato al rapporto contrattuale che le vincola.

Può accadere che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, “sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione” (Corte di Cassazione n. 9264/2007). Il Giudice di merito, dunque, investito del compito di fornire l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve riconoscere prevalenza al comportamento sostanziale che le parti hanno tenuto nell’attuazione del rapporto stesso, e non considerare, esclusivamente o come punto di partenza dell’indagine, la denominazione utilizzata al momento della conclusione del contratto.

La qualificazione del rapporto adottata in sede di conclusione del contratto, dunque, deve essere considerata alla stregua di uno dei tanti elementi valutabili dal giudice di merito, che deve servirsene allo scopo di comprendere prima o definire poi l’esatta volontà delle parti, e naturalmente con essa il vero rapporto che hanno voluto instaurare.

La Corte ha avuto anche modo di affermare che, tuttavia, il “nome iuris”, adottato al momento della conclusione del contratto, pur non essendo decisivo, non è irrilevante e pertanto, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e documentalmente provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, “l’accertamento del giudice di merito deve essere molto rigoroso (potendo anche un associato essere assoggettato a direttive ed istruzioni nonché ad una attività di coordinamento latamente organizzativa) e non trascurare nell’indagine aspetti sicuramente riferibili all’uno o all’altro tipo di rapporto, quali, per un verso, l’assunzione di un rischio economico e l’approvazione di rendiconti e, per altro verso, l’effettiva e provata soggezione al potere disciplinare del datore di lavoro” (in tal senso Cass. 7 ottobre 2004 n. 20002).

È proprio partendo da questa considerazione che la Corte prende spunto per operare una precisazione che nelle stesse intenzioni dei giudici di legittimità vorrebbe diventare un’asserzione di principio di portata generale, applicabile in ogni caso si sia chiamati ad accertare se una prestazione sia effettuata in presenza, o meno, di un vincolo di subordinazione (ad esempio, in presenza di rapporti lavorativi di soci d’opera, di soci di cooperativa, e più in generale anche di contratti di lavoro autonomo in cui la prestazione lavorativa abbia tratti per molti profili assimilabili a quelli del lavoro subordinato).

Il principio di diritto che la Suprema Corte propone è il seguente: “Il riferimento al nomen iuris dato dalle parti al negozio, risulta di maggiore utilità rispetto alle altre in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse. La valutazione del documento negoziale, tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali astrattamente configurabili, non può, dunque, non assumere una incidenza decisoria anche allorquando tra dette figure vi sia quella del rapporto di lavoro subordinato”.

Con riferimento al caso considerato dalla sentenza in esame, ed alla luce del principio generale di diritto appena enunciato, la Suprema Corte non poteva far altro che ritenere fondati i motivi di doglianza presentati dalla società parte del procediento, che nel ricorso lamentava come la Corte territoriale non avesse tenuto conto della presenza di un contratto regolarmente stipulato tra le parti “nel quale è stato chiaramente precisato che le parti intendevano porre in essere un rapporto di associazione in partecipazione, disciplinandolo come tale, sia pure al limitato fine di verificare se, nella concreta attuazione del rapporto, la regolamentazione prevista nel negozio ha trovato una reale corrispondenza”.

La Corte non si limita a tale assunto, ma precisa che le difficoltà di individuare tali differenze emergono anche sotto altri versanti.

L’obbligo dell’associato di effettuare l’apporto promesso trova, per opinione condivisa, il suo fondamento nella causa stessa del contratto e non sono richieste a tale fine forme di alcun genere, ritenendosi sufficiente la prova dell’apporto nell’impresa dell’associato e la dimostrazione specifica della partecipazione agli utili.

Ugualmente, la Corte ricorda che gli elementi più significativi ai fini della qualificazione del contratto di associazione in partecipazione sono l’assunzione da parte dell’associato di un rischio economico, oltre alla non necessaria corrispondenza tra apporto lavorativo e corrispettivo pattuito, nonché un controllo sulla gestione dell’impresa spettante all’associante.

Anche sulla scorta di quanto affermato in ultimo, la Corte si propone l’intento di fissare un’ulteriore principio di diritto,secondo il quale “nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari; e per quanto attiene alle seconde in ragione del rischio proprio della causale associativa del rapporto contrattuale in un corrispettivo volto a prevedere, oltre alla cointeressenza negli utili, anche una quota fissa (da riconoscersi in ogni caso all’associato), di entità non compensativa della prestazione lavorativa e, comunque, non adeguata rispetto ai criteri parametrici di cui all’art. 36 della Costituzione”.

Per dirla con le stesse parole che utilizza la Corte, il principio enunciato rappresenta un rilevante criterio differenziale tra le due figure contrattuali, “nella misura in cui rimarca una diversa omogeneità di interessi tra associato e lavoratore subordinato, in ragione di un distinto e meno diretto coinvolgimento nelle fortune dell’impresa del secondo rispetto al primo, in considerazione principalmente delle sue ricadute in termini economici”.