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Marchi, modelli, testate, domain names: un anno di giurisprudenza (settembre 2006-settembre 2007)

[Articolo tratto dalla newsletter IP LAW GALLI La sintesi di un articolo del Prof. Cesare Galli in corso di pubblicazione su AIDA. Come ogni anno, la Rivista AIDA ha affidato al Prof. Cesare Galli il compito di esaminare e commentare sinteticamente le principali decisioni nazionali e comunitarie in materia di segni distintivi, in relazione ai loro riflessi sull’industria culturale. L’articolo del Prof. Galli è in corso di pubblicazione nel volume 2007 della Rivista, di prossima uscita, con il titolo Segni distintivi e industria culturale. Ne riportiamo intanto qui di seguito un’ampia sintesi].

SOMMARIO:

1. La protezione di marchi e nomi dotati di notorietà e i rapporti tra marchio e nome.

2. La «scriminante» dell’art. 21 C.P.I. e il «giusto motivo» dell’art. 20, comma 1°, lett. c. Applicazioni in materia di segni distintivi dello sport.

3. Problemi di appartenenza di segni distintivi usati in comune da soggetti diversi: il caso dei nomi delle bands musicali.

4. Segni distintivi e parodia: il rilievo della percezione e del pubblico.

5. Industrial design e segni distintivi.

6. La giurisprudenza comunitaria e i suoi riflessi sul settore qui considerato:

a) Marchi di forma e marchi «senza forma». Il mutamento nel tempo dell’attitudine del pubblico verso una forma.

7. (segue) b) marchi identici per prodotti identici e interferenza con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio; non uso e «motivi legittimi».

8. Marchi, titoli di opere dell’ingegno e testate giornalistiche.

9. I problemi posti da Internet.

1. Il Tribunale di Milano, con decreto del 9 marzo 2007, emesso inaudita altera parte e successivamente confermato con ordinanza del 27 aprile 2007, ha tutelato un marchio molto celebre nel settore dei luxury goods, contro l’utilizzazione di un segno simile ad esso su di un calendario erotico come pseudonimo da un’attrice pornografica. Il provvedimento si pone nella scia di precedenti pronunce del medesimo Tribunale (1), che hanno ritenuto che qualsiasi uso nell’attività economica di un segno eguale o simile a un altrui marchio rinomato, che sia idoneo a determinare un pericolo di confusione oppure un approfittamento della rinomanza del marchio (o un pregiudizio per questa rinomanza) costituisce contraffazione, anche se quest’uso non viene effettuato in funzione distintiva. Nel caso di specie, va segnalato che il Tribunale ha ritenuto responsabili della contraffazione tutti i soggetti implicati nella pubblicazione e nella distribuzione del calendario contraffattorio, compreso lo stampatore di esso e gli sponsors.

Sempre su questo argomento, va segnalato a livello internazionale il documento relativo alle Limitations to Trademark Right approvato dal Comitato Esecutivo AIPPI riunitosi a Singapore nell’ottobre 2007. Il documento, elaborato in seno al Gruppo di lavoro internazionale sulla Question Q 195 di cui era Chairman il Prof. Cesare Galli, e preceduto da un ampio dibattito tra i Gruppi nazionali (con la presentazione di 41 Rapporti nazionali, tra cui naturalmente anche quello del Gruppo Italiano (2)), raccomanda che venga consentito l’uso nell’attività economica del nome di una persona anche quando questo nome sia eguale o simile ad un altrui marchio registrato, purché si tratti del nome vero e non di uno pseudonimo e lo stesso non sia utilizzato come denominazione sociale, e comunque a condizione che tale uso non determini confusione/associazione col marchio, non tragga indebitamente vantaggio dalla reputazione di esso e non rechi alla stessa pregiudizio, anche sotto forma di dilution: così rendendo evidente che è ormai universalmente diffusa la consapevolezza del fatto che il marchio opera come strumento fondamentale della comunicazione d’impresa, valorizzato e tutelato non soltanto contro il pericolo di confusione, ma anche contro ogni altra forma di agganciamento parassitario, e che è in questa prospettiva (e non più soltanto in quella della sua tradizionale funzione di origine) che va quindi ricercato un punto di equilibrio tra gli interessi del titolare e quelli del mercato (3).

Di un caso di uso non autorizzato del nome (famoso) di un atleta e di altri segni a lui univocamente riferibili su prodotti di abbigliamento (e sulle relative etichette, dove veniva anche vantata la realizzazione dei prodotti in collaborazione con l’atleta) si è occupato invece il Tribunale di Torino, che ha inibito in via cautelare l’uso del nome, ritenendo che esso configurasse una violazione dell’art. 7 c.c. (4). Sia pure solo in un obiter dictum (perché nel caso di specie il Tribunale ha respinto la tesi della difesa che pretendeva che un’autorizzazione all’uso del nome fosse stata in effetti rilasciata dall’atleta), l’ordinanza ha anche considerato sempre revocabile l’eventuale consenso prestato all’uso del nome da parte del titolare di esso, e lo stesso ha fatto, in un caso analogo (ma relativo all’uso commerciale di un ritratto), il Tribunale di Bari (5); questa conclusione appare peraltro discutibile, dal momento che tale consenso, proprio perché non realizza una cessione del diritto (indisponibile) al nome, ma inerisce esclusivamente all’esercizio di esso – come il provvedimento sottolinea –, appare senz’altro negoziabile. Proprio il Codice della Proprietà Industriale, all’art. 8, comma 3° (e prima di esso la legge marchi, all’art. 21, comma 3°), anzi, prevede espressamente la possibilità che il titolare di un nome famoso consenta la registrazione di tale nome come marchio ad opera di terzi: registrazione che, una volta effettuata, ha durata potenzialmente perpetua, essendo rinnovabile indefinitamente (6). E’ invece degno di nota che entrambe le pronunce in discussione abbiano valorizzato, sotto il profilo dell’irreparabilità del danno, i «pregiudizi derivanti dall’annacquamento e dall’inflazione della … immagine», ovvero «per l’annacquamento dell’immagine e per la perdita di valore commerciale della medesima», derivanti dall’uso non autorizzato del nome e del ritratto: il che appare coerente con la logica che presiede anche al riconoscimento del diritto sui generis del titolare dei segni famosi ad impedirne la registrazione (e l’uso) senza autorizzazione come marchio, previsto appunto dall’art. 8, comma 3° C.P.I., disposizione che forse avrebbe potuto essere invocata anche nei casi qui considerati, o almeno nel primo di essi (7).

Appunto un’ipotesi di autorizzazione di un personaggio dello spettacolo a registrare il suo nome come marchio ha formato oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione, che peraltro si è limitata, per i profili che qui interessano, a considerare insindacabile in sede di giudizio di legittimità l’accertamento in fatto compiuto dal Giudice d’appello circa il contenuto del contratto, in particolare là dove questo ha valorizzato la circostanza che il marchio fosse costituito dal solo prenome per concludere che il diritto a compenso fosse «contrattualmente dovuto solo a fronte di prestazioni della show girl ‘in una qualsiasi forma di spettacolo’ idonea a rendere evidente che quest’ultima prediligeva le scarpe della sua licenziataria» (8): conclusione che, al di là del caso di specie, appare a sua volta coerente con l’idea che solo la riconoscibilità del collegamento tra personaggio famoso e marchio renda applicabile la disciplina che riserva al primo, ovvero subordina al suo consenso, la registrazione del suo nome (o di altro segno notorio).

Presenta invece interesse essenzialmente sul piano storico un’altra sentenza della Corte di Cassazione, che, applicando ancora la legge marchi nel testo anteriore alla riforma del 1992 ad una fattispecie molto risalente nel tempo, ha ribadito la sua interpretazione più «liberale», che riteneva possibile l’uso all’interno di una denominazione sociale-ditta di un patronimico oggetto di un marchio altrui, a condizione però che esso non comportasse un concreto rischio di confusione sul mercato (9). Rispetto a quello oggi in vigore, questo limite è più ampio e più ristretto al contempo: più ampio, perché oggi assume rilievo non solo il pericolo di confusione ma anche l’agganciamento (e quindi l’indebito vantaggio ricavato dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del marchio o il pregiudizio arrecato agli stessi), e più ristretto perché questa regola può consentire non solo l’uso del patronimico come segno distintivo diverso dal marchio, ma anche lo stesso uso all’interno di un marchio, essendo venuta meno (per effetto del varo del Codice della Proprietà Industriale, che ha recepito sotto questo profilo l’indicazione espressa venuta dalla giurisprudenza comunitaria (10)), la disposizione che subordinava la liceità dell’uso nell’attività economica del proprio nome configgente col marchio altrui (e degli altri usi leciti del marchio altrui già contemplati nell’art. 1-bis, comma 1° l.m. e ora nell’art. 21, comma 1° C.P.I.) non solo alla conformità di tale uso alla correttezza professionale, ma anche al fatto che l’uso avvenisse «non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva».

2. In materia di segni distintivi dello sport, un’importante pronuncia del Tribunale di Venezia (11), che aveva ritenuto il marchio del C.I.O. costituito dalla parola «Olympic» valido e contraffatto dall’uso di tale segno su capi di abbigliamento sportivo, ha offerto lo spunto per un’ampia analisi relativa alla disciplina applicabile ai segni distintivi olimpici, che si conclude con l’auspicio di una lettura ampia della norma dell’art. 21 C.P.I. sugli usi leciti del marchio altrui, «idonea a delinearne in termini congrui la portata precettiva – soprattutto in casi simili» (12). Non sembra tuttavia che quest’ultimo rilievo colga nel segno: l’applicazione della norma in questione è infatti condizionata alla conformità del comportamento del terzo «agli usi consueti di lealtà in campo commerciale e industriale», conformità che – secondo la lettura che ne è stata data anche dalla nostra Corte di legittimità (13), ed è stata poi confermata dalla Corte di Giustizia C.E. (14), in sede d’interpretazione pregiudiziale dell’art. 6 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. – consente l’applicazione di questa scriminante soltanto quando l’uso non realizza alcun tipo di sfruttamento parassitario dell’altrui segno; e questo sfruttamento tipicamente si realizza ogni qual volta il segno che si pretende descrittivo sia tale proprio in relazione al significato per il quale il legislatore ha accordato tutela al marchio (15). Ciò era in effetti quanto avveniva anche nel caso deciso dalla sentenza veneziana, che ha appunto ritenuto che la parola «Olympic» usata sui capi di abbigliamento sportivo del cui carattere contraffattorio si discuteva continuasse ad essere evocativa dello spirito e dei valori olimpici di cui il C.I.O. è custode, e dunque di un «messaggio» che il Comitato Olimpico ha diritto di sfruttare anche in campo commerciale.

Piuttosto, uno spazio di liceità per usi di segni eguali o simili al marchio altrui che pure determinino un agganciamento a tale marchio può essere recuperato in relazione alle prescrizioni dell’art. 5.2 della Direttiva, che richiedono che il vantaggio ricavato dal terzo da questo agganciamento sia «indebito» e che l’uso, alternativamente, vantaggioso (per il terzo) o pregiudizievole (per la capacità distintiva o la rinomanza del marchio), venga effettuato «senza giusto motivo»: la formulazione «aperta» di questa norma sembra suggerire che il Giudice debba compiere una comparazione tra gli interessi del titolare del marchio e le esigenze del mercato, almeno nelle ipotesi (che non sembrano peraltro ricorrere nel caso di specie) in cui «un riferimento a tali segni sia il presupposto per un’effettiva concorrenza nel mercato di cui trattasi», secondo l’indicazione che la Corte di Giustizia C.E. ha dato in relazione ad una fattispecie diversa (l’interpretazione pregiudiziale della Direttiva in materia di pubblicità comparativa) (16), ma in relazione a un problema analogo (la valutazione della natura, indebita o meno, del vantaggio che l’autore della pubblicità trae dalla notorietà connessa a un marchio, alla denominazione commerciale o altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti, che è uno dei presupposti di legittimità dell’uso di tali segni nella comparazione pubblicitaria).

[Articolo tratto dalla newsletter IP LAW GALLI La sintesi di un articolo del Prof. Cesare Galli in corso di pubblicazione su AIDA. Come ogni anno, la Rivista AIDA ha affidato al Prof. Cesare Galli il compito di esaminare e commentare sinteticamente le principali decisioni nazionali e comunitarie in materia di segni distintivi, in relazione ai loro riflessi sull’industria culturale. L’articolo del Prof. Galli è in corso di pubblicazione nel volume 2007 della Rivista, di prossima uscita, con il titolo Segni distintivi e industria culturale. Ne riportiamo intanto qui di seguito un’ampia sintesi].

SOMMARIO:

1. La protezione di marchi e nomi dotati di notorietà e i rapporti tra marchio e nome.

2. La «scriminante» dell’art. 21 C.P.I. e il «giusto motivo» dell’art. 20, comma 1°, lett. c. Applicazioni in materia di segni distintivi dello sport.

3. Problemi di appartenenza di segni distintivi usati in comune da soggetti diversi: il caso dei nomi delle bands musicali.

4. Segni distintivi e parodia: il rilievo della percezione e del pubblico.

5. Industrial design e segni distintivi.

6. La giurisprudenza comunitaria e i suoi riflessi sul settore qui considerato:

a) Marchi di forma e marchi «senza forma». Il mutamento nel tempo dell’attitudine del pubblico verso una forma.

7. (segue) b) marchi identici per prodotti identici e interferenza con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio; non uso e «motivi legittimi».

8. Marchi, titoli di opere dell’ingegno e testate giornalistiche.

9. I problemi posti da Internet.

1. Il Tribunale di Milano, con decreto del 9 marzo 2007, emesso inaudita altera parte e successivamente confermato con ordinanza del 27 aprile 2007, ha tutelato un marchio molto celebre nel settore dei luxury goods, contro l’utilizzazione di un segno simile ad esso su di un calendario erotico come pseudonimo da un’attrice pornografica. Il provvedimento si pone nella scia di precedenti pronunce del medesimo Tribunale (1), che hanno ritenuto che qualsiasi uso nell’attività economica di un segno eguale o simile a un altrui marchio rinomato, che sia idoneo a determinare un pericolo di confusione oppure un approfittamento della rinomanza del marchio (o un pregiudizio per questa rinomanza) costituisce contraffazione, anche se quest’uso non viene effettuato in funzione distintiva. Nel caso di specie, va segnalato che il Tribunale ha ritenuto responsabili della contraffazione tutti i soggetti implicati nella pubblicazione e nella distribuzione del calendario contraffattorio, compreso lo stampatore di esso e gli sponsors.

Sempre su questo argomento, va segnalato a livello internazionale il documento relativo alle Limitations to Trademark Right approvato dal Comitato Esecutivo AIPPI riunitosi a Singapore nell’ottobre 2007. Il documento, elaborato in seno al Gruppo di lavoro internazionale sulla Question Q 195 di cui era Chairman il Prof. Cesare Galli, e preceduto da un ampio dibattito tra i Gruppi nazionali (con la presentazione di 41 Rapporti nazionali, tra cui naturalmente anche quello del Gruppo Italiano (2)), raccomanda che venga consentito l’uso nell’attività economica del nome di una persona anche quando questo nome sia eguale o simile ad un altrui marchio registrato, purché si tratti del nome vero e non di uno pseudonimo e lo stesso non sia utilizzato come denominazione sociale, e comunque a condizione che tale uso non determini confusione/associazione col marchio, non tragga indebitamente vantaggio dalla reputazione di esso e non rechi alla stessa pregiudizio, anche sotto forma di dilution: così rendendo evidente che è ormai universalmente diffusa la consapevolezza del fatto che il marchio opera come strumento fondamentale della comunicazione d’impresa, valorizzato e tutelato non soltanto contro il pericolo di confusione, ma anche contro ogni altra forma di agganciamento parassitario, e che è in questa prospettiva (e non più soltanto in quella della sua tradizionale funzione di origine) che va quindi ricercato un punto di equilibrio tra gli interessi del titolare e quelli del mercato (3).

Di un caso di uso non autorizzato del nome (famoso) di un atleta e di altri segni a lui univocamente riferibili su prodotti di abbigliamento (e sulle relative etichette, dove veniva anche vantata la realizzazione dei prodotti in collaborazione con l’atleta) si è occupato invece il Tribunale di Torino, che ha inibito in via cautelare l’uso del nome, ritenendo che esso configurasse una violazione dell’art. 7 c.c. (4). Sia pure solo in un obiter dictum (perché nel caso di specie il Tribunale ha respinto la tesi della difesa che pretendeva che un’autorizzazione all’uso del nome fosse stata in effetti rilasciata dall’atleta), l’ordinanza ha anche considerato sempre revocabile l’eventuale consenso prestato all’uso del nome da parte del titolare di esso, e lo stesso ha fatto, in un caso analogo (ma relativo all’uso commerciale di un ritratto), il Tribunale di Bari (5); questa conclusione appare peraltro discutibile, dal momento che tale consenso, proprio perché non realizza una cessione del diritto (indisponibile) al nome, ma inerisce esclusivamente all’esercizio di esso – come il provvedimento sottolinea –, appare senz’altro negoziabile. Proprio il Codice della Proprietà Industriale, all’art. 8, comma 3° (e prima di esso la legge marchi, all’art. 21, comma 3°), anzi, prevede espressamente la possibilità che il titolare di un nome famoso consenta la registrazione di tale nome come marchio ad opera di terzi: registrazione che, una volta effettuata, ha durata potenzialmente perpetua, essendo rinnovabile indefinitamente (6). E’ invece degno di nota che entrambe le pronunce in discussione abbiano valorizzato, sotto il profilo dell’irreparabilità del danno, i «pregiudizi derivanti dall’annacquamento e dall’inflazione della … immagine», ovvero «per l’annacquamento dell’immagine e per la perdita di valore commerciale della medesima», derivanti dall’uso non autorizzato del nome e del ritratto: il che appare coerente con la logica che presiede anche al riconoscimento del diritto sui generis del titolare dei segni famosi ad impedirne la registrazione (e l’uso) senza autorizzazione come marchio, previsto appunto dall’art. 8, comma 3° C.P.I., disposizione che forse avrebbe potuto essere invocata anche nei casi qui considerati, o almeno nel primo di essi (7).

Appunto un’ipotesi di autorizzazione di un personaggio dello spettacolo a registrare il suo nome come marchio ha formato oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione, che peraltro si è limitata, per i profili che qui interessano, a considerare insindacabile in sede di giudizio di legittimità l’accertamento in fatto compiuto dal Giudice d’appello circa il contenuto del contratto, in particolare là dove questo ha valorizzato la circostanza che il marchio fosse costituito dal solo prenome per concludere che il diritto a compenso fosse «contrattualmente dovuto solo a fronte di prestazioni della show girl ‘in una qualsiasi forma di spettacolo’ idonea a rendere evidente che quest’ultima prediligeva le scarpe della sua licenziataria» (8): conclusione che, al di là del caso di specie, appare a sua volta coerente con l’idea che solo la riconoscibilità del collegamento tra personaggio famoso e marchio renda applicabile la disciplina che riserva al primo, ovvero subordina al suo consenso, la registrazione del suo nome (o di altro segno notorio).

Presenta invece interesse essenzialmente sul piano storico un’altra sentenza della Corte di Cassazione, che, applicando ancora la legge marchi nel testo anteriore alla riforma del 1992 ad una fattispecie molto risalente nel tempo, ha ribadito la sua interpretazione più «liberale», che riteneva possibile l’uso all’interno di una denominazione sociale-ditta di un patronimico oggetto di un marchio altrui, a condizione però che esso non comportasse un concreto rischio di confusione sul mercato (9). Rispetto a quello oggi in vigore, questo limite è più ampio e più ristretto al contempo: più ampio, perché oggi assume rilievo non solo il pericolo di confusione ma anche l’agganciamento (e quindi l’indebito vantaggio ricavato dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del marchio o il pregiudizio arrecato agli stessi), e più ristretto perché questa regola può consentire non solo l’uso del patronimico come segno distintivo diverso dal marchio, ma anche lo stesso uso all’interno di un marchio, essendo venuta meno (per effetto del varo del Codice della Proprietà Industriale, che ha recepito sotto questo profilo l’indicazione espressa venuta dalla giurisprudenza comunitaria (10)), la disposizione che subordinava la liceità dell’uso nell’attività economica del proprio nome configgente col marchio altrui (e degli altri usi leciti del marchio altrui già contemplati nell’art. 1-bis, comma 1° l.m. e ora nell’art. 21, comma 1° C.P.I.) non solo alla conformità di tale uso alla correttezza professionale, ma anche al fatto che l’uso avvenisse «non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva».

2. In materia di segni distintivi dello sport, un’importante pronuncia del Tribunale di Venezia (11), che aveva ritenuto il marchio del C.I.O. costituito dalla parola «Olympic» valido e contraffatto dall’uso di tale segno su capi di abbigliamento sportivo, ha offerto lo spunto per un’ampia analisi relativa alla disciplina applicabile ai segni distintivi olimpici, che si conclude con l’auspicio di una lettura ampia della norma dell’art. 21 C.P.I. sugli usi leciti del marchio altrui, «idonea a delinearne in termini congrui la portata precettiva – soprattutto in casi simili» (12). Non sembra tuttavia che quest’ultimo rilievo colga nel segno: l’applicazione della norma in questione è infatti condizionata alla conformità del comportamento del terzo «agli usi consueti di lealtà in campo commerciale e industriale», conformità che – secondo la lettura che ne è stata data anche dalla nostra Corte di legittimità (13), ed è stata poi confermata dalla Corte di Giustizia C.E. (14), in sede d’interpretazione pregiudiziale dell’art. 6 della Direttiva n. 89/104/C.E.E. – consente l’applicazione di questa scriminante soltanto quando l’uso non realizza alcun tipo di sfruttamento parassitario dell’altrui segno; e questo sfruttamento tipicamente si realizza ogni qual volta il segno che si pretende descrittivo sia tale proprio in relazione al significato per il quale il legislatore ha accordato tutela al marchio (15). Ciò era in effetti quanto avveniva anche nel caso deciso dalla sentenza veneziana, che ha appunto ritenuto che la parola «Olympic» usata sui capi di abbigliamento sportivo del cui carattere contraffattorio si discuteva continuasse ad essere evocativa dello spirito e dei valori olimpici di cui il C.I.O. è custode, e dunque di un «messaggio» che il Comitato Olimpico ha diritto di sfruttare anche in campo commerciale.

Piuttosto, uno spazio di liceità per usi di segni eguali o simili al marchio altrui che pure determinino un agganciamento a tale marchio può essere recuperato in relazione alle prescrizioni dell’art. 5.2 della Direttiva, che richiedono che il vantaggio ricavato dal terzo da questo agganciamento sia «indebito» e che l’uso, alternativamente, vantaggioso (per il terzo) o pregiudizievole (per la capacità distintiva o la rinomanza del marchio), venga effettuato «senza giusto motivo»: la formulazione «aperta» di questa norma sembra suggerire che il Giudice debba compiere una comparazione tra gli interessi del titolare del marchio e le esigenze del mercato, almeno nelle ipotesi (che non sembrano peraltro ricorrere nel caso di specie) in cui «un riferimento a tali segni sia il presupposto per un’effettiva concorrenza nel mercato di cui trattasi», secondo l’indicazione che la Corte di Giustizia C.E. ha dato in relazione ad una fattispecie diversa (l’interpretazione pregiudiziale della Direttiva in materia di pubblicità comparativa) (16), ma in relazione a un problema analogo (la valutazione della natura, indebita o meno, del vantaggio che l’autore della pubblicità trae dalla notorietà connessa a un marchio, alla denominazione commerciale o altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti, che è uno dei presupposti di legittimità dell’uso di tali segni nella comparazione pubblicitaria).