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Le novità della Legge n. 99/2009 e del Decreto Legge n. 135/2009 per il diritto IP

1. Il diritto industriale è cambiato e sta ancora cambiando. È dal 1992, con l’attuazione della Direttiva n. 89/104/C.E.E. in materia di marchi d’impresa – in seguito alla quale al marchio è stata finalmente riconosciuta protezione non più solo come segno distintivo, ma come strumento di comunicazione «a tutto tondo», quale esso è nella realtà economica odierna, tutelandolo contro tutte le forme di sfruttamento parassitario, anche non confusorie – che una serie di interventi del nostro legislatore sta aggiungendo sempre nuovi tasselli al mosaico della disciplina di quelle che una volta si chiamavano le privative di diritto industriale e che oggi, mutuando questa terminologia dal mondo giuridico anglosassone, sono detti diritti di proprietà intellettuale, intendendosi come tali marchi e segni distintivi in genere, brevetti, segreti aziendali, design e diritti d’autore. L’attuazione dell’Accordo TRIPs nel 1996, quella del Protocollo di Madrid nel 1999, la riforma della tutela del design nel 2001, l’istituzione delle Sezioni Specializzate nel 2003, il varo del Codice della Proprietà Industriale nel 2005, ed poi i varî interventi su diritto d’autore e società dell’informazione, sempre derivanti dal diritto comunitario sono solo le tappe principali di un’evoluzione ancora in corso: non sempre con un disegno coerente, talvolta con ripensamenti e passi indietro, ma certamente leggibile nel suo complesso come il tentativo di adeguare sempre di più il diritto industriale a ciò che i suoi istituti rappresentano realmente nel «mondo della vita».

L’ultimo intervento è di questi ultimi mesi, e in parte addirittura di questi ultimi giorni, ed è caratterizzato da luci ed ombre, forse con una prevalenza di queste ultime. Alla fine di luglio, dopo un iter parlamentare lunghissimo, che ha avuto inizio nell’estate 2008 ed ha comportato due letture alla camera dei Deputati e due al Senato, è finalmente stata approvata la legge 23 luglio 2009, n. 99, che comprende, agli artt. 15-19 anche un nucleo di norme dedicate alla proprietà industriale, derivate dal «pacchetto anticontraffazione» elaborato da un Gruppo di Lavoro, di cui anch’io ho fatto parte, insediato dall’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione pochi mesi prima della sua soppressione. La legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio 2009 ed è quindi entrata in vigore il successivo 15 agosto, ma ha avuto una «coda» successiva: una delle sue disposizioni più controverse, quella sulle sanzioni penali per l’uso di marchi italiani su prodotti realizzati all’estero, è stata abrogata dopo poco più di un mese, dall’art. 16 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee) e sostituita da una nuova disciplina, non meno controversa e tecnicamente carente, comprendente anche l’introduzione della denominazione d’origine sui generis «100% Italiano».

In realtà il testo approvato è molto diverso da quello originario approntato dall’Alto Commissario, e non si può dire che sia cambiato in meglio. Fondamentale, anche se in un testo meno preciso di quello inizialmente proposto, è la delega per la revisione del Codice della Proprietà Industriale, che il Governo ha un anno di tempo per esercitare.

Come è noto, la revisione del Codice era stata prevista già al momento del suo varo: l’art. 2 della legge n. 306/2004 stabiliva infatti che «entro un anno dall’entrata in vigore dei decreti legislativi» emanati in base alla delega per la predisposizione del Codice «il governo può adottare, previo parere delle competenti commissioni parlamentari, disposizioni correttive o integrative dei decreti legislativi medesimi». L’idea era cioè che il nuovo Codice avesse un anno di «rodaggio», per verificare se erano necessari mutamenti o adattamenti. Ed in effetti una Commissione di esperti – della quale, anche in questo caso, facevo parte anch’io – era stata insediata già nel luglio 2005 e prima della fine dell’anno aveva predisposto un ampio articolato che non si limitava alla correzione degli errori materiali contenuti nel Codice ed al recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice (ed in particolare della priorità interna e della nuova disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari), ma aveva operato un approfondito ripensamento delle norme del Codice, nella prospettiva di rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, considerata elemento chiave per la competitività dell’«azienda Italia», in particolare attraverso una definizione sempre più precisa della contraffazione come comprensiva di ogni forma di parassitismo e l’adeguamento e il coordinamento dei diversi strumenti giuridici – civili, penali ed amministrativi – per contrastarla. Tuttavia, nonostante la tempestiva conclusione dei lavori ad opera della Commissione, il provvedimento si arenava nel corso dei passaggi agli uffici legislativi dei vari Ministeri competenti e il termine previsto per l’esercizio della delega scadeva il 19 marzo 2006 senza essere rinnovato. Le uniche norme predisposte dalla Commissione ad entrare effettivamente in vigore erano così quelle riconducibili all’attuazione della Direttiva n. 48/2004/C.E., meglio nota come «Direttiva Enforcement», perché è dedicata agli strumenti processuali attraverso i quali è possibile tutelare i diritti della proprietà intellettuale; queste misure, varate col d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, hanno introdotto misure cautelari più efficaci e incisive per bloccare la contraffazione sul nascere, maggiori possibilità di procurarsi la prova degli illeciti e risarcimenti del danno più significativi e più facili da ottenere, con l’importante novità della sanzione della reversione degli utili del contraffattore.

La nuova delega, ancorché meno specifica di quella ipotizzata dal progetto dell’Alto Commissario (che indicava espressamente tra i criteri da seguire quello di «rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, in particolare contro il parassitismo, anche sul piano processuale, inserendo anche una norma espressa relativa ai presupposti per la protezione dei segni distintivi non registrati ed alla disciplina ad essi applicabile»), prevede comunque che l’intervento del legislatore delegato potrà riguardare non soltanto le disposizioni di carattere sostanziale, ma anche quelle processuali, il che dovrebbe scongiurare i rischi di pronunce d’incostituzionalità analoghe a quelle che si sono abbattute sul Codice proprio per questa ragione. Tra gli altri criteri, degni di nota sono quelli della «controriforma» della disciplina delle invenzioni dei dipendenti delle Università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, con l’attribuzione alle istituzioni di appartenenza del diritto al brevetto.

Un coordinamento sarà necessario anche rispetto al Regolamento di attuazione del Codice, attualmente in corso di rielaborazione dopo che il testo predisposto era stato bocciato lo scorso anno dal Consiglio di Stato. E’ dunque auspicabile che nel procedimento di elaborazione normativa venga coinvolto il comitato normativo istituito dal nuovo Direttore Generale dell’U.I.B.M. e della Lotta alla Contraffazione Avv. Loredana Gulino in seno al tavolo di confronto con le imprese ed i soggetti privati.

2. Oltre a rinnovare la delega per la revisione del Codice, la legge n. 99/2009 ha già introdotto direttamente una serie di innovazioni, in gran parte sempre derivanti dal progetto dell’Alto Commissario. Sul piano civilistico, particolarmente significativa appare l’introduzione della cosiddetta «priorità interna», ossia della possibilità di rivendicare la priorità di una domanda di brevetto italiano anche in una successiva domanda di brevetto egualmente depositata nel nostro Paese. Già originariamente previsto nell’art. 4 del Codice dedicato alla priorità, dal quale era stato però rimosso su suggerimento del Consiglio di Stato solo per ragioni di carattere sistematico, essendo evidente che la «priorità interna» non ha nulla a che vedere con il generale istituto della rivendicazione di priorità disciplinato da tale norma, e va invece inquadrato come un istituto speciale applicabile unicamente alle invenzioni ed ai modelli di utilità e cioè alle creazioni intellettuali a contenuto tecnologico. Con la nuova norma l’istituto della priorità interna viene collocato più correttamente nell’art. 47 del Codice, di cui costituisce il comma 4°, con l’espressa avvertenza che la domanda successiva deve avere riguardo ad elementi già contenuti nella domanda di cui si rivendica la priorità. In tal modo viene aperta anche nel nostro Paese un’importante possibilità, già riconosciuta nei principali ordinamenti stranieri, mettendo quindi anche sotto questo profilo il sistema brevettuale italiano in condizione di competere ad armi pari a livello internazionale.

Egualmente significativa è l’abrogazione dell’art. 3 del D.M. 3 ottobre 2007, ossia della norma, molto criticata, che specificava che «la decadenza del diritto di proprietà industriale» comminata nelle ipotesi di «ritardo del pagamento della quinta annualità per il brevetto per invenzione industriale (e) del secondo quinquennio per il brevetto per modello di utilità e per la registrazione di disegno o modello» e di «mancata o tardiva presentazione dell’istanza di proroga di cui all’art. 238 del decreto legislativo n. 30/2005, riferita al secondo quinquennio dei disegni e modelli» operasse «dalla data del deposito della relativa domanda», ossia retroattivamente, mentre il principio generale in materia di decadenza dei diritti di proprietà industriale – e vale anzi a distinguere questo istituto dalla nullità – è quello per cui la decadenza produce i suoi effetti dal momento in cui si verifica la situazione che vi ha dato causa. E dunque l’abrogazione di questa disposizione implica la riaffermazione di tale principio generale.

Ancora più importanti sul piano pratico sono le modifiche apportate agli artt. 120, 122 e 134 del Codice. Il nuovo testo dell’art. 120 contempla la facoltà per il giudice di disporre la sospensione della causa di nullità o di contraffazione promosse sulla base di titoli non ancora concessi sino a quando l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi abbia provveduto sulla domanda stessa di concessione. Benché infatti già anteriormente la norma prevedeva che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi esaminasse la domanda di concessione implicata nella causa con precedenza rispetto alle domande presentate in data anteriore, la causa poteva comunque giungere in decisione prima che l’U.I.B.M. avesse provveduto. L’art. 122 precisa ora che a dover essere trasmessi all’U.I.B.M. sono gli atti introduttivi e le sentenze dei soli giudizi relativi ai «titoli» di proprietà industriale, ossia per i diritti che sorgono con un atto amministrativo di registrazione o di brevettazione, escludendo espressamente quest’onere per i diritti rimanenti, rispetto ai quali tale trasmissione sarebbe del tutto inutile. Infine all’art. 134 del Codice è stata riformulata disposizione sulla competenza delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale per tener conto comma della sentenza della Corte Costituzionale n. 170/2007, che ha giudicato illegittima l’applicazione alle cause industrialistiche del cosiddetto rito societario, che proprio in questi giorni è stato definitivamente cancellato.

Anche se apparentemente minori, queste modifiche processuali sono in realtà della massima importanza Prevedendo un regime transitorio che rende applicabili le norme processuali modificate anche ai processi in corso, è stato sventato il rischio di una possibile declaratoria d’incostituzionalità di tali disposizioni – che avrebbe avuto conseguenze gravissime, in particolare per le cause instaurate davanti alle Sezioni Specializzate per ragioni di connessione impropria e per i giudizi in grado di appello, rischiando di riportarli in primo grado per consentire l’intervento del Pubblico Ministero –, in quanto adottate nel Codice pur in assenza di una delega all’adozione di innovazioni processuali, come in effetti la Corte Costituzionale ha in effetti già ritenuto, con la sua sentenza n. 112 del 14/24 aprile 2008, in relazione alla disposizione dell’art. 235 C.P.I.. Proprio in relazione a questa pronuncia, sempre in via di regime transitorio la legge n. 99/2009 ha riscritto la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, prevedendo che «Le controversie in grado d’appello nelle materie di cui all’articolo 134 iniziate dopo l’entrata in vigore del presente codice, restano devolute alla cognizione delle sezioni specializzate di cui al decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, anche se il giudizio di primo grado o il giudizio arbitrale sono iniziati o si sono svolti secondo le norme precedentemente in vigore, a meno che non sia già intervenuta nell’ambito di essi una pronuncia sulla competenza» (art. 245, comma 2 C.P.I., mentre al comma 3° una rergola analoga è stabilita per i reclami e i giudizi di merito a seguito dei provvedimenti cautelari cominciati prima dell’istituzione delle Sezioni specializzate). Ciò significa che in queste cause d’appello non dovrà essere dichiarata l’incompetenza del Giudice adito e che quindi tali cause non dovranno essere reinstaurate davanti ai Giudici che sarebbero stati competenti secondo le ordinarie regole di competenza, con rilevanti vantaggi in termini di risparmi di costi e di economia processuale. Vi è solo da notare l’errore materiale consistente nell’uso del maschile «essi» in luogo del femminile «esse» alla fine della norma: è infatti evidente che, perché la prescrizione abbia un senso, la già intervenuta pronuncia sulla competenza che lascia le cause in appello alla competenza dei Giudici determinati in base alle norme ordinarie, anziché affidarle alle Sezioni Specializzate, dev’essere intervenuta appunto nelle «controversie in grado d’appello», e non certo nei corrispondenti giudizi di primo grado.

3. Assai più discutibile è la riscrittura della disposizione transitoria in materia di diritto d’autore sulle opere dell’industrial design (art. 239 C.P.I.). La nuova norma, infatti, «corregge il tiro» solo in parte, poiché ammette espressamente alla protezione di diritto d’autore anche le opere create prima del 19 aprile 2001 (data dell’entrata in vigore della norma che ha introdotto per la prima volta in Italia la protezione di diritto d’autore del design dotato di valore artistico), ma accorda al contempo la facoltà di continuare a copiare tali opere a tutti gli imitatori che possano dimostrare di aver iniziato la loro attività egualmente prima di tale data. La norma prevede peraltro che l’attività degli imitatori possa proseguire solo «nei limiti del preuso», ossia senza eccedere i livelli (verosimilmente, anche quantitativi) che essa aveva prima del 19 aprile 2001: e ritengo che si possa sostenere che sia l’imitatore a dover provare sia il preuso, che è il fondamento del suo diritto di continuare a copiare, sia questo livello quantitativo anteriore, che ne costituisce la misura.

Anche la nuova norma, peraltro, deve ritenersi sub iudice. Con un’ordinanza del 12 marzo/30 aprile 2009, infatti, il Tribunale di Milano ha rivolto alla Corte di Giustizia C.E. una richiesta d’interpretazione pregiudiziale della Direttiva n. 98/71/C.E. proprio relativamente al regime transitorio della protezione di diritto d’autore del design e implicitamente dunque anche sulla compatibilità con essa di una norma come questa. L’ordinanza, ampiamente motivata, è stata resa in una causa in cui si controverteva della contraffazione di un caposaldo del design italiano in materia di apparati per l’illuminazione – la lampada «Arco» di Flos, creata dai fratelli Castiglioni negli anni ’60 –, e nella quale era intervenuta appunto Assoluce, l’Associazione italiana dell’industria dell’illuminazione, da me assistita, al dichiarato scopo di raggiungere questo risultato, e cioè, al di là del caso di specie, di ottenere una pronuncia chiara e impegnativa da parte dei Giudici comunitari, che superasse le incertezze manifestatesi in materia nella nostra giurisprudenza e prima ancora nella nostra legislazione.

Nell’ordinamento italiano il regime transitorio della protezione di diritto d’autore delle opere di design è infatti mutato già tre volte dall’introduzione di questa protezione, operata dal d.lgs. n. 95/2001, in attuazione appunto della Direttiva n. 98/71/C.E.. Già nel 2001, a pochi giorni dall’entrata in vigore delle nuove norme, il legislatore introduceva nel medesimo d.lgs. n. 95/2001 un art. 25-bis, che riconosceva implicitamente protezione anche alle opere dell’industrial design create anteriormente all’introduzione della tutela d’autore, facendo peraltro salvi per un periodo di dieci anni, ricorrendo certe condizioni, i diritti di chi avesse già intrapreso la produzione e commercializzazione di prodotti copia dell’originale anteriormente a tale introduzione. Questa norma si accompagnava alla limitazione a soli venticinque anni da quello della morte dell’autore della durata della protezione d’autore riservata a queste opere, in aperto contrasto con le prescrizioni del diritto comunitario che imponevano per questa protezione la durata di settant’anni, in effetti prevista anche dal nostro ordinamento per tutte le altre categorie di opere: ed entrambe le norme davano quindi origine ad una procedura d’infrazione promossa dalla Commissione C.E. contro l’Italia, su segnalazione di INDICAM.

A seguito della pressione europea, l’allineamento della durata della protezione del design a quella delle altre opere del diritto d’autore veniva finalmente previsto dal decreto legge 15 febbraio 2007, n. 10 poi convertito nella legge 6 aprile 2007, n. 46. Sennonché la nuova legge interveniva anche sull’art. 239 C.P.I., ossia sulla norma transitoria nella quale era stato trasfuso l’art. 25-bis del d.lg. n. 95/2001: e nel nuovo testo introdotto appunto nel 2007 si stabiliva che «La protezione accordata ai disegni e modelli industriali ai sensi dell’articolo 2, primo comma, numero 10, della legge 22 aprile 1941, n. 633, non opera in relazione ai prodotti realizzati in conformità ai disegni o modelli che, anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 95, erano oppure erano divenuti di pubblico dominio».

Come abbiamo visto, questa disposizione è stata ora sostituita da una nuova norma che ammette espressamente alla protezione le opere anteriori al 2001, ma esclude che questa protezione possa essere fatta valere nei confronti degli imitatori che erano già attivi prima del 2001 (ossia quando queste opere non erano protette nel nostro ordinamento) ed ai quali viene consentito di proseguire quest’attività «nei limiti del preuso». Il nostro legislatore non ha dunque saputo cogliere lo spunto della pronuncia milanese per porre direttamente rimedio alla situazione, sostituendo la norma che ha dato origine alla rimessione alla Corte europea con una disposizione pienamente conforme alla Direttiva: non resta dunque che attendere la pronuncia dei Giudici comunitari, che metta finalmente la parola «fine» a questa vicenda, restituendo al nostro design la protezione che gli è dovuta.

4. La legge n. 99/2009 è intervenuta anche sull’apparato sanzionatorio penale e amministrativo della contraffazione, anche se in modo meno felice. Mentre infatti il testo iniziale del disegno di legge riprendeva quasi alla lettera le disposizioni, coerenti e coordinate, previste dal «pacchetto anticontraffazione» dell’Alto Commissario, la prima lettura al Senato le ha largamente stravolte.

Ad essere stato conservato, almeno in parte, è essenzialmente l’aumento delle sanzioni, che vanno ora da sei mesi a tre anni di reclusione per i segni distintivi e da un anno a quattro anni per brevetti e modelli (una disparità di trattamento, questa, difficilmente comprensibile), con un’aggravante specifica che porta la pena minima a due anni e la massima a sei quando la contraffazione è commessa su ingenti quantità o con modalità di tipo continuativo e organizzato) (artt. 473, 474 e 474-ter C.P.). E’ stata inoltre introdotta (art. 517-quater C.P.) un’analoga sanzione per la contraffazione di denominazioni d’origine di prodotti agroalimentari. Tuttavia in alcune delle norme sulla contraffazione (ma non in tutte, il che pone un altro problema di disparità di trattamento di situazioni omogenee e quindi di potenziale violazione del principio costituzionale di eguaglianza) è stata introdotta una condizione di punibilità consistente nella circostanza che l’autore della condotta «pote(sse) conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale», il che rischia di limitarne non poco l’applicazione, non essendo chiaro se la disposizione in parola sarà interpretata nel senso di richiedere una conoscibilità ipotetica (sempre esistente, dal momento in cui il titolo diviene accessibile al pubblico), ovvero una concreta possibilità di conoscenza, da valutare caso per caso e quasi sempre opinabile. Parimenti non è chiaro se i «titoli» cui la norma fa riferimento siano soltanto i brevetti e le registrazioni già concessi, o anche quelli allo stato di domanda (ma pubblicati: il che spiegherebbe l’inciso sulla possibilità di conoscenza e rafforzerebbe quindi la prima delle due interpretazioni di esso proposte sopra), come riteneva la giurisprudenza formatasi sulla corrispondente norma previgente e come parrebbe logico ritenere anche adesso.

Sul piano processuale, è stata prevista bensì la confisca delle merci contraffattorie, ma non è stata introdotta la previsione di un incidente probatorio sui generis, che avrebbe consentito la distruzione anticipata di esse, abbattendo i costi di conservazione e riducendo il rischio che tali merci tornino surrettiziamente in circolazione. Sul piano delle indagini, si è persa l’occasione di introdurre la possibilità di fare ricorso a sequestro ritardato e consegna controllata, misure dimostratesi molto efficaci nel contrasto ad altre fattispecie criminose come il traffico di droga e di cui quindi il progetto dell’Alto Commissario (e il testo iniziale del disegno di legge) prevedeva l’estensione anche ai reati di contraffazione. Al riguardo tutto resta dunque sostanzialmente come prima, ed in pratica è possibile avvalersi di più penetranti strumenti d’indagine solo nei casi in cui ci si trova in presenza di vere e proprie organizzazioni criminali che gestiscono l’industria dei falsi e vengano quindi contestati i reati di cui agli artt. 416 e ss. Codice Penale. In ogni caso il titolare del diritto violato ha la possibilità di collaborare con i Giudici nel corso delle indagini e spesso i migliori risultati si ottengono servendosi insieme di procedimenti civili (specialmente descrizione e sequestro) e penali (per colpire le ramificazioni e gli eventuali aspetti di organizzazione criminosa del fenomeno).

Sul piano amministrativo, certamente da accogliere con favore, ed in effetti prevista già nell’originario «pacchetto anticontraffazione», è invece la modifica dell’art. 1, comma 7, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), con la determinazione di un minimo di 100 Euro della sanzione per l’acquirente consapevole di merci contraffattorie (ridotta nel massimo a 7.000 Euro, in luogo degli attuali 10.000), che porta questa sanzione ad un livello socialmente accettabile e quindi concretamente irrogabile in particolare ad opera dei vigili urbani; dalla norma è stato espunto anche l’inciso iniziale «Salvo che il fatto costituisca reato», in modo da rendere chiaro che questa sanzione amministrativa sostituisce l’eventuale sanzione penale (per ricettazione o incauto acquisto), il che egualmente ne dovrebbe rendere più agevole l’applicazione da parte delle autorità amministrative.

5. Al contrario, estremamente negativa – e infatti, come si è già accennato, subito riscritta, anche se in modo non meno infelice – è stata l’ennesima modifica dell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con l’introduzione di una norma con la quale viene vietata in ogni caso l’apposizione di marchi «di aziende italiane» su prodotti realizzati all’estero, a meno che non sia indicata l’effettiva provenienza geografica di essi con «caratteri evidenti» o con «altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera». Non solo infatti questa norma ostacola ingiustificatamente un fenomeno – quello del decentramento e dell’integrazione produttiva a livello internazionale – che riveste un’evidente valenza filoconcorrenziale, riducendo i costi e favorendo in ultima analisi proprio i consumatori, ma viene introdotta un’assurda disparità di trattamento tra i prodotti fatti realizzare all’estero da imprese italiane e da imprese straniere, anche comunitarie, che appare costituzionalmente illegittima, anche al di là della più che dubbia compatibilità di essa con la disciplina europea. Il risultato che, con un tipico fenomeno di eterogenesi dei fini, si rischiava d’incentivare era così quello del trasferimento a società collegate straniere dei più importanti marchi italiani, nell’ambito di una gestione di gruppo del loro portafoglio di titoli di proprietà industriale; e poiché ovviamente questa possibilità non è concretamente praticabile per le imprese minori, queste si sono trovate in una situazione doppiamente deteriore, nei confronti delle imprese straniere e di quelle del nostro Paese costituite in forma di gruppo multinazionale.

Di questa nuova norma il nuovo Direttore Generale dell’U.I.B.M. e della Lotta alla Contraffazione Avv. Loredana Gulino ha lodevolmente cercato di mitigare gli effetti più perniciosi, con una circolare interpretativa alla cui stesura anche il Prof. Avv. Cesare Galli ha contribuito, destinata anche all’Agenzia delle Dogane, che ne esclude correttamente l’applicazione in tutti i casi in cui l’apposizione del marchio fosse avvenuta prima della sua entrata in vigore.

La levata di scudi delle associazioni di categoria, e i commenti negativi degli esperti, hanno portato a una frettolosa «marcia indietro» e all’abrogazione della norma, operata, come si ricordava, dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, ma non completa. L’art. 16 di tale decreto ha infatti bensì eliminato la sanzione penale, sostituendola però con una sanzione amministrativa molto elevata (da 10.000 a 250.000 Euro) e sempre accompagnata dalla confisca della merce; è inoltre rimasta la segnalata disparità di trattamento, giacché, anche se la norma non parla più di «marchi di imprese italiane», ma di «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana», in concreto comunque anche con la nuova norma ad essere sanzionata non è la difformità tra qualsiasi provenienza geografica apparente e reale dei prodotti, ma unicamente l’ipotesi in cui l’origine apparente sia italiana, con la conseguenza che, ad esempio, un marchio che sia usato in modo da indurre il consumatore a ritenere che provengano dalla Francia prodotti in realtà realizzati altrove non darà luogo ad alcun profilo di illiceità, pur essendo come è ovvio la situazione del tutto equivalente. E questa disparità di trattamento è evidentemente sindacabile sia sotto il profilo della violazione del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), per cui la legge non può disciplinare in modo difforme fattispecie del tutto corrispondenti, pena l’introduzione di una ingiustificata discriminazione; sia sotto quello di una violazione dell’art. 28 (30) Trattato C.E., che sancisce il divieto dell’imposizione di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative.

La tecnica legislativa non consente neppure di comprendere che cosa esattamente sia sanzionato, ossia se basti la semplice apposizione di un marchio dal «suono italiano» (o comunque che sia notoriamente italiano) o se occorra anche il compimento di condotte ulteriori, idonee appunto a far credere al consumatore che non solo il marchio sia italiano, ma anche la merce contraddistinta provenga dall’Italia: il che parrebbe logico, se la nuova norma venisse interpretata in coerenza con l’orientamento consolidato della giurisprudenza penale, che ha sempre escluso che, di per sé, il marchio informi il pubblico sulla provenienza geografica. Analogamente, non è chiaro che cosa si debba intendere per «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario»: se infatti la norma dovesse essere interpretata nel senso di sanzionare già la semplice immissione in Italia di prodotti non conformi alla prescrizione, ancorché destinati a mercati diversi da quello italiano, dove essa ovviamente non opera, il risultato sarebbe quello di indurre le nostre imprese a spostare fuori dell’Italia la loro logistica, penalizzando anche sotto questo versante l’Azienda Italia. Il fatto poi che l’applicazione della norma sia affidata ad autorità amministrative, di regola prive di un’adeguata formazione al riguardo, rende particolarmente importante l’adozione di una circolare interpretativa che chiarisca questi dubbi, e prima ancora l’adeguamento della norma in sede di conversione del decreto legge.

Considerazioni analoghe valgono anche per l’altra novità introdotta dal d.l. n. 135/2009, ossia la previsione di sanzioni (questa volta penali, quelle previste dall’art. 517 c.p., incongruamente aumentate di un terzo) per l’utilizzo di «un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione» in relazione a prodotti che non siano stati effettivamente «realizzati interamente in Italia», dovendosi intendere per tali quelli per i quali «il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». Anche in questo caso, al di là dei problemi di compatibilità col diritto comunitario, la norma appare estremamente imprecisa e di difficile applicazione: posto che espressioni come «Made in Italy» possono essere utilizzate anche per prodotti che in Italia hanno soltanto «subito l’ultima trasformazione sostanziale», com’è prescritto dal Codice Doganale Comunitario, sembra logico pensare che i «segni» e le «figure» che comunicano un’origine italiana al 100% non possano essere semplicemente il tricolore o la riproduzione dello Stivale, se non sono accompagnati da espressioni verbali come «100%» o «tutto», ma la norma si presta evidentemente anche ad interpretazioni di segno diverso. Non è del resto chiaro neppure come sia possibile accertare che in Italia siano effettivamente avvenuti il «disegno» e la «progettazione», specie quando questi abbiano coinvolto designers stranieri, come frequentemente accade anche per imprese e per prodotti-simbolo del Made in Italy.

E dunque anche la disposizione sul «100% Made in Italy» rischia di ingenerare illusioni, e dare origine ad un contenzioso a non finire, più che conseguire i risultati sperati, che potevano essere raggiunti molto più facilmente attraverso il ricorso a marchi collettivi, previsti tra l’altro sia dall’ordinamento interno, sia da quello comunitario.

6. Di un’ultima novità che interessa il diritto industriale, anche se ovviamente non esso solo, si deve dare conto. Il 4 luglio scorso è entrata in vigore una nuova riforma del processo civile, peraltro applicabile ai soli procedimenti che hanno avuto inizio a partire da questa data e non a quelli in corso. Lo scopo delle nuove norme, come di quasi tutti gli interventi legislativi sul diritto processuale effettuati nell’ultimo decennio, è quello di abbreviare la durata dei giudizi di merito, ancora molto più elevata della media europea. Tali riforme toccano quindi solo marginalmente il settore della proprietà industriale e intellettuale, che in Italia è basato principalmente sul ricorso ai procedimenti cautelari, estremamente efficienti e rapidi e spesso idonei ad evitare il ricorso al susseguente giudizio di merito, attraverso transazioni raggiunte appunto sulla scorta dell’esito della fase d’urgenza.

Tra le nuove norme una diretta rilevanza per i giudizi di diritto industriale assume però l’art. 195 c.p.c., relativo alla consulenza tecnica d’ufficio. La nuova norma viene infatti a dare sanzione normativa ad una prassi già adottata in vari Tribunali, ossia quella di richiedere al C.T.U. di apprestare una sorta di «progetto» di Relazione, da sottoporre ai consulenti di parte registrandone i commenti e rispondendo ad essi nella Relazione finale: ciò allo scopo di evitare che il contraddittorio tecnico si prolunghi in una successiva fase di supplemento disposto dal Giudice appunto per rispondere alle obiezioni mosse dalle parti alla consulenza. Proprio alla luce dell’esperienza formatasi in relazione a questa prassi, è però legittimo dubitare dell’effettiva validità di questo metodo, almeno in materia brevettuale: di regola, infatti, la Relazione finale conferma quella preliminare e la replica alle osservazioni dei consulenti di parte diventa, più che un’occasione di approfondimento e di ripensamento, una sorta di «giustificazione» del C.T.U., che finisce inevitabilmente per difendere il proprio operato.

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Dunque, l’evoluzione del nostro diritto della proprietà intellettuale continua: con passi avanti e passi indietro, che spesso, come si vede anche da quest’ultimo intervento normativo, sono frutto più della casualità che di un organico disegno riformatore, per il quale probabilmente occorrerebbe che tutti i soggetti coinvolti, avvocatura, consulenti IP ed imprese cercassero di coordinarsi in una sorta di «parlamentino», per presentare in modo il più possibile unitario e rappresentativo al mondo politico le istanze di chi nel mondo delle attività produttive quotidianamente vive ed opera.

1. Il diritto industriale è cambiato e sta ancora cambiando. È dal 1992, con l’attuazione della Direttiva n. 89/104/C.E.E. in materia di marchi d’impresa – in seguito alla quale al marchio è stata finalmente riconosciuta protezione non più solo come segno distintivo, ma come strumento di comunicazione «a tutto tondo», quale esso è nella realtà economica odierna, tutelandolo contro tutte le forme di sfruttamento parassitario, anche non confusorie – che una serie di interventi del nostro legislatore sta aggiungendo sempre nuovi tasselli al mosaico della disciplina di quelle che una volta si chiamavano le privative di diritto industriale e che oggi, mutuando questa terminologia dal mondo giuridico anglosassone, sono detti diritti di proprietà intellettuale, intendendosi come tali marchi e segni distintivi in genere, brevetti, segreti aziendali, design e diritti d’autore. L’attuazione dell’Accordo TRIPs nel 1996, quella del Protocollo di Madrid nel 1999, la riforma della tutela del design nel 2001, l’istituzione delle Sezioni Specializzate nel 2003, il varo del Codice della Proprietà Industriale nel 2005, ed poi i varî interventi su diritto d’autore e società dell’informazione, sempre derivanti dal diritto comunitario sono solo le tappe principali di un’evoluzione ancora in corso: non sempre con un disegno coerente, talvolta con ripensamenti e passi indietro, ma certamente leggibile nel suo complesso come il tentativo di adeguare sempre di più il diritto industriale a ciò che i suoi istituti rappresentano realmente nel «mondo della vita».

L’ultimo intervento è di questi ultimi mesi, e in parte addirittura di questi ultimi giorni, ed è caratterizzato da luci ed ombre, forse con una prevalenza di queste ultime. Alla fine di luglio, dopo un iter parlamentare lunghissimo, che ha avuto inizio nell’estate 2008 ed ha comportato due letture alla camera dei Deputati e due al Senato, è finalmente stata approvata la legge 23 luglio 2009, n. 99, che comprende, agli artt. 15-19 anche un nucleo di norme dedicate alla proprietà industriale, derivate dal «pacchetto anticontraffazione» elaborato da un Gruppo di Lavoro, di cui anch’io ho fatto parte, insediato dall’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione pochi mesi prima della sua soppressione. La legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio 2009 ed è quindi entrata in vigore il successivo 15 agosto, ma ha avuto una «coda» successiva: una delle sue disposizioni più controverse, quella sulle sanzioni penali per l’uso di marchi italiani su prodotti realizzati all’estero, è stata abrogata dopo poco più di un mese, dall’art. 16 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee) e sostituita da una nuova disciplina, non meno controversa e tecnicamente carente, comprendente anche l’introduzione della denominazione d’origine sui generis «100% Italiano».

In realtà il testo approvato è molto diverso da quello originario approntato dall’Alto Commissario, e non si può dire che sia cambiato in meglio. Fondamentale, anche se in un testo meno preciso di quello inizialmente proposto, è la delega per la revisione del Codice della Proprietà Industriale, che il Governo ha un anno di tempo per esercitare.

Come è noto, la revisione del Codice era stata prevista già al momento del suo varo: l’art. 2 della legge n. 306/2004 stabiliva infatti che «entro un anno dall’entrata in vigore dei decreti legislativi» emanati in base alla delega per la predisposizione del Codice «il governo può adottare, previo parere delle competenti commissioni parlamentari, disposizioni correttive o integrative dei decreti legislativi medesimi». L’idea era cioè che il nuovo Codice avesse un anno di «rodaggio», per verificare se erano necessari mutamenti o adattamenti. Ed in effetti una Commissione di esperti – della quale, anche in questo caso, facevo parte anch’io – era stata insediata già nel luglio 2005 e prima della fine dell’anno aveva predisposto un ampio articolato che non si limitava alla correzione degli errori materiali contenuti nel Codice ed al recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice (ed in particolare della priorità interna e della nuova disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari), ma aveva operato un approfondito ripensamento delle norme del Codice, nella prospettiva di rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, considerata elemento chiave per la competitività dell’«azienda Italia», in particolare attraverso una definizione sempre più precisa della contraffazione come comprensiva di ogni forma di parassitismo e l’adeguamento e il coordinamento dei diversi strumenti giuridici – civili, penali ed amministrativi – per contrastarla. Tuttavia, nonostante la tempestiva conclusione dei lavori ad opera della Commissione, il provvedimento si arenava nel corso dei passaggi agli uffici legislativi dei vari Ministeri competenti e il termine previsto per l’esercizio della delega scadeva il 19 marzo 2006 senza essere rinnovato. Le uniche norme predisposte dalla Commissione ad entrare effettivamente in vigore erano così quelle riconducibili all’attuazione della Direttiva n. 48/2004/C.E., meglio nota come «Direttiva Enforcement», perché è dedicata agli strumenti processuali attraverso i quali è possibile tutelare i diritti della proprietà intellettuale; queste misure, varate col d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, hanno introdotto misure cautelari più efficaci e incisive per bloccare la contraffazione sul nascere, maggiori possibilità di procurarsi la prova degli illeciti e risarcimenti del danno più significativi e più facili da ottenere, con l’importante novità della sanzione della reversione degli utili del contraffattore.

La nuova delega, ancorché meno specifica di quella ipotizzata dal progetto dell’Alto Commissario (che indicava espressamente tra i criteri da seguire quello di «rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, in particolare contro il parassitismo, anche sul piano processuale, inserendo anche una norma espressa relativa ai presupposti per la protezione dei segni distintivi non registrati ed alla disciplina ad essi applicabile»), prevede comunque che l’intervento del legislatore delegato potrà riguardare non soltanto le disposizioni di carattere sostanziale, ma anche quelle processuali, il che dovrebbe scongiurare i rischi di pronunce d’incostituzionalità analoghe a quelle che si sono abbattute sul Codice proprio per questa ragione. Tra gli altri criteri, degni di nota sono quelli della «controriforma» della disciplina delle invenzioni dei dipendenti delle Università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, con l’attribuzione alle istituzioni di appartenenza del diritto al brevetto.

Un coordinamento sarà necessario anche rispetto al Regolamento di attuazione del Codice, attualmente in corso di rielaborazione dopo che il testo predisposto era stato bocciato lo scorso anno dal Consiglio di Stato. E’ dunque auspicabile che nel procedimento di elaborazione normativa venga coinvolto il comitato normativo istituito dal nuovo Direttore Generale dell’U.I.B.M. e della Lotta alla Contraffazione Avv. Loredana Gulino in seno al tavolo di confronto con le imprese ed i soggetti privati.

2. Oltre a rinnovare la delega per la revisione del Codice, la legge n. 99/2009 ha già introdotto direttamente una serie di innovazioni, in gran parte sempre derivanti dal progetto dell’Alto Commissario. Sul piano civilistico, particolarmente significativa appare l’introduzione della cosiddetta «priorità interna», ossia della possibilità di rivendicare la priorità di una domanda di brevetto italiano anche in una successiva domanda di brevetto egualmente depositata nel nostro Paese. Già originariamente previsto nell’art. 4 del Codice dedicato alla priorità, dal quale era stato però rimosso su suggerimento del Consiglio di Stato solo per ragioni di carattere sistematico, essendo evidente che la «priorità interna» non ha nulla a che vedere con il generale istituto della rivendicazione di priorità disciplinato da tale norma, e va invece inquadrato come un istituto speciale applicabile unicamente alle invenzioni ed ai modelli di utilità e cioè alle creazioni intellettuali a contenuto tecnologico. Con la nuova norma l’istituto della priorità interna viene collocato più correttamente nell’art. 47 del Codice, di cui costituisce il comma 4°, con l’espressa avvertenza che la domanda successiva deve avere riguardo ad elementi già contenuti nella domanda di cui si rivendica la priorità. In tal modo viene aperta anche nel nostro Paese un’importante possibilità, già riconosciuta nei principali ordinamenti stranieri, mettendo quindi anche sotto questo profilo il sistema brevettuale italiano in condizione di competere ad armi pari a livello internazionale.

Egualmente significativa è l’abrogazione dell’art. 3 del D.M. 3 ottobre 2007, ossia della norma, molto criticata, che specificava che «la decadenza del diritto di proprietà industriale» comminata nelle ipotesi di «ritardo del pagamento della quinta annualità per il brevetto per invenzione industriale (e) del secondo quinquennio per il brevetto per modello di utilità e per la registrazione di disegno o modello» e di «mancata o tardiva presentazione dell’istanza di proroga di cui all’art. 238 del decreto legislativo n. 30/2005, riferita al secondo quinquennio dei disegni e modelli» operasse «dalla data del deposito della relativa domanda», ossia retroattivamente, mentre il principio generale in materia di decadenza dei diritti di proprietà industriale – e vale anzi a distinguere questo istituto dalla nullità – è quello per cui la decadenza produce i suoi effetti dal momento in cui si verifica la situazione che vi ha dato causa. E dunque l’abrogazione di questa disposizione implica la riaffermazione di tale principio generale.

Ancora più importanti sul piano pratico sono le modifiche apportate agli artt. 120, 122 e 134 del Codice. Il nuovo testo dell’art. 120 contempla la facoltà per il giudice di disporre la sospensione della causa di nullità o di contraffazione promosse sulla base di titoli non ancora concessi sino a quando l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi abbia provveduto sulla domanda stessa di concessione. Benché infatti già anteriormente la norma prevedeva che l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi esaminasse la domanda di concessione implicata nella causa con precedenza rispetto alle domande presentate in data anteriore, la causa poteva comunque giungere in decisione prima che l’U.I.B.M. avesse provveduto. L’art. 122 precisa ora che a dover essere trasmessi all’U.I.B.M. sono gli atti introduttivi e le sentenze dei soli giudizi relativi ai «titoli» di proprietà industriale, ossia per i diritti che sorgono con un atto amministrativo di registrazione o di brevettazione, escludendo espressamente quest’onere per i diritti rimanenti, rispetto ai quali tale trasmissione sarebbe del tutto inutile. Infine all’art. 134 del Codice è stata riformulata disposizione sulla competenza delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale per tener conto comma della sentenza della Corte Costituzionale n. 170/2007, che ha giudicato illegittima l’applicazione alle cause industrialistiche del cosiddetto rito societario, che proprio in questi giorni è stato definitivamente cancellato.

Anche se apparentemente minori, queste modifiche processuali sono in realtà della massima importanza Prevedendo un regime transitorio che rende applicabili le norme processuali modificate anche ai processi in corso, è stato sventato il rischio di una possibile declaratoria d’incostituzionalità di tali disposizioni – che avrebbe avuto conseguenze gravissime, in particolare per le cause instaurate davanti alle Sezioni Specializzate per ragioni di connessione impropria e per i giudizi in grado di appello, rischiando di riportarli in primo grado per consentire l’intervento del Pubblico Ministero –, in quanto adottate nel Codice pur in assenza di una delega all’adozione di innovazioni processuali, come in effetti la Corte Costituzionale ha in effetti già ritenuto, con la sua sentenza n. 112 del 14/24 aprile 2008, in relazione alla disposizione dell’art. 235 C.P.I.. Proprio in relazione a questa pronuncia, sempre in via di regime transitorio la legge n. 99/2009 ha riscritto la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, prevedendo che «Le controversie in grado d’appello nelle materie di cui all’articolo 134 iniziate dopo l’entrata in vigore del presente codice, restano devolute alla cognizione delle sezioni specializzate di cui al decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, anche se il giudizio di primo grado o il giudizio arbitrale sono iniziati o si sono svolti secondo le norme precedentemente in vigore, a meno che non sia già intervenuta nell’ambito di essi una pronuncia sulla competenza» (art. 245, comma 2 C.P.I., mentre al comma 3° una rergola analoga è stabilita per i reclami e i giudizi di merito a seguito dei provvedimenti cautelari cominciati prima dell’istituzione delle Sezioni specializzate). Ciò significa che in queste cause d’appello non dovrà essere dichiarata l’incompetenza del Giudice adito e che quindi tali cause non dovranno essere reinstaurate davanti ai Giudici che sarebbero stati competenti secondo le ordinarie regole di competenza, con rilevanti vantaggi in termini di risparmi di costi e di economia processuale. Vi è solo da notare l’errore materiale consistente nell’uso del maschile «essi» in luogo del femminile «esse» alla fine della norma: è infatti evidente che, perché la prescrizione abbia un senso, la già intervenuta pronuncia sulla competenza che lascia le cause in appello alla competenza dei Giudici determinati in base alle norme ordinarie, anziché affidarle alle Sezioni Specializzate, dev’essere intervenuta appunto nelle «controversie in grado d’appello», e non certo nei corrispondenti giudizi di primo grado.

3. Assai più discutibile è la riscrittura della disposizione transitoria in materia di diritto d’autore sulle opere dell’industrial design (art. 239 C.P.I.). La nuova norma, infatti, «corregge il tiro» solo in parte, poiché ammette espressamente alla protezione di diritto d’autore anche le opere create prima del 19 aprile 2001 (data dell’entrata in vigore della norma che ha introdotto per la prima volta in Italia la protezione di diritto d’autore del design dotato di valore artistico), ma accorda al contempo la facoltà di continuare a copiare tali opere a tutti gli imitatori che possano dimostrare di aver iniziato la loro attività egualmente prima di tale data. La norma prevede peraltro che l’attività degli imitatori possa proseguire solo «nei limiti del preuso», ossia senza eccedere i livelli (verosimilmente, anche quantitativi) che essa aveva prima del 19 aprile 2001: e ritengo che si possa sostenere che sia l’imitatore a dover provare sia il preuso, che è il fondamento del suo diritto di continuare a copiare, sia questo livello quantitativo anteriore, che ne costituisce la misura.

Anche la nuova norma, peraltro, deve ritenersi sub iudice. Con un’ordinanza del 12 marzo/30 aprile 2009, infatti, il Tribunale di Milano ha rivolto alla Corte di Giustizia C.E. una richiesta d’interpretazione pregiudiziale della Direttiva n. 98/71/C.E. proprio relativamente al regime transitorio della protezione di diritto d’autore del design e implicitamente dunque anche sulla compatibilità con essa di una norma come questa. L’ordinanza, ampiamente motivata, è stata resa in una causa in cui si controverteva della contraffazione di un caposaldo del design italiano in materia di apparati per l’illuminazione – la lampada «Arco» di Flos, creata dai fratelli Castiglioni negli anni ’60 –, e nella quale era intervenuta appunto Assoluce, l’Associazione italiana dell’industria dell’illuminazione, da me assistita, al dichiarato scopo di raggiungere questo risultato, e cioè, al di là del caso di specie, di ottenere una pronuncia chiara e impegnativa da parte dei Giudici comunitari, che superasse le incertezze manifestatesi in materia nella nostra giurisprudenza e prima ancora nella nostra legislazione.

Nell’ordinamento italiano il regime transitorio della protezione di diritto d’autore delle opere di design è infatti mutato già tre volte dall’introduzione di questa protezione, operata dal d.lgs. n. 95/2001, in attuazione appunto della Direttiva n. 98/71/C.E.. Già nel 2001, a pochi giorni dall’entrata in vigore delle nuove norme, il legislatore introduceva nel medesimo d.lgs. n. 95/2001 un art. 25-bis, che riconosceva implicitamente protezione anche alle opere dell’industrial design create anteriormente all’introduzione della tutela d’autore, facendo peraltro salvi per un periodo di dieci anni, ricorrendo certe condizioni, i diritti di chi avesse già intrapreso la produzione e commercializzazione di prodotti copia dell’originale anteriormente a tale introduzione. Questa norma si accompagnava alla limitazione a soli venticinque anni da quello della morte dell’autore della durata della protezione d’autore riservata a queste opere, in aperto contrasto con le prescrizioni del diritto comunitario che imponevano per questa protezione la durata di settant’anni, in effetti prevista anche dal nostro ordinamento per tutte le altre categorie di opere: ed entrambe le norme davano quindi origine ad una procedura d’infrazione promossa dalla Commissione C.E. contro l’Italia, su segnalazione di INDICAM.

A seguito della pressione europea, l’allineamento della durata della protezione del design a quella delle altre opere del diritto d’autore veniva finalmente previsto dal decreto legge 15 febbraio 2007, n. 10 poi convertito nella legge 6 aprile 2007, n. 46. Sennonché la nuova legge interveniva anche sull’art. 239 C.P.I., ossia sulla norma transitoria nella quale era stato trasfuso l’art. 25-bis del d.lg. n. 95/2001: e nel nuovo testo introdotto appunto nel 2007 si stabiliva che «La protezione accordata ai disegni e modelli industriali ai sensi dell’articolo 2, primo comma, numero 10, della legge 22 aprile 1941, n. 633, non opera in relazione ai prodotti realizzati in conformità ai disegni o modelli che, anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 95, erano oppure erano divenuti di pubblico dominio».

Come abbiamo visto, questa disposizione è stata ora sostituita da una nuova norma che ammette espressamente alla protezione le opere anteriori al 2001, ma esclude che questa protezione possa essere fatta valere nei confronti degli imitatori che erano già attivi prima del 2001 (ossia quando queste opere non erano protette nel nostro ordinamento) ed ai quali viene consentito di proseguire quest’attività «nei limiti del preuso». Il nostro legislatore non ha dunque saputo cogliere lo spunto della pronuncia milanese per porre direttamente rimedio alla situazione, sostituendo la norma che ha dato origine alla rimessione alla Corte europea con una disposizione pienamente conforme alla Direttiva: non resta dunque che attendere la pronuncia dei Giudici comunitari, che metta finalmente la parola «fine» a questa vicenda, restituendo al nostro design la protezione che gli è dovuta.

4. La legge n. 99/2009 è intervenuta anche sull’apparato sanzionatorio penale e amministrativo della contraffazione, anche se in modo meno felice. Mentre infatti il testo iniziale del disegno di legge riprendeva quasi alla lettera le disposizioni, coerenti e coordinate, previste dal «pacchetto anticontraffazione» dell’Alto Commissario, la prima lettura al Senato le ha largamente stravolte.

Ad essere stato conservato, almeno in parte, è essenzialmente l’aumento delle sanzioni, che vanno ora da sei mesi a tre anni di reclusione per i segni distintivi e da un anno a quattro anni per brevetti e modelli (una disparità di trattamento, questa, difficilmente comprensibile), con un’aggravante specifica che porta la pena minima a due anni e la massima a sei quando la contraffazione è commessa su ingenti quantità o con modalità di tipo continuativo e organizzato) (artt. 473, 474 e 474-ter C.P.). E’ stata inoltre introdotta (art. 517-quater C.P.) un’analoga sanzione per la contraffazione di denominazioni d’origine di prodotti agroalimentari. Tuttavia in alcune delle norme sulla contraffazione (ma non in tutte, il che pone un altro problema di disparità di trattamento di situazioni omogenee e quindi di potenziale violazione del principio costituzionale di eguaglianza) è stata introdotta una condizione di punibilità consistente nella circostanza che l’autore della condotta «pote(sse) conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale», il che rischia di limitarne non poco l’applicazione, non essendo chiaro se la disposizione in parola sarà interpretata nel senso di richiedere una conoscibilità ipotetica (sempre esistente, dal momento in cui il titolo diviene accessibile al pubblico), ovvero una concreta possibilità di conoscenza, da valutare caso per caso e quasi sempre opinabile. Parimenti non è chiaro se i «titoli» cui la norma fa riferimento siano soltanto i brevetti e le registrazioni già concessi, o anche quelli allo stato di domanda (ma pubblicati: il che spiegherebbe l’inciso sulla possibilità di conoscenza e rafforzerebbe quindi la prima delle due interpretazioni di esso proposte sopra), come riteneva la giurisprudenza formatasi sulla corrispondente norma previgente e come parrebbe logico ritenere anche adesso.

Sul piano processuale, è stata prevista bensì la confisca delle merci contraffattorie, ma non è stata introdotta la previsione di un incidente probatorio sui generis, che avrebbe consentito la distruzione anticipata di esse, abbattendo i costi di conservazione e riducendo il rischio che tali merci tornino surrettiziamente in circolazione. Sul piano delle indagini, si è persa l’occasione di introdurre la possibilità di fare ricorso a sequestro ritardato e consegna controllata, misure dimostratesi molto efficaci nel contrasto ad altre fattispecie criminose come il traffico di droga e di cui quindi il progetto dell’Alto Commissario (e il testo iniziale del disegno di legge) prevedeva l’estensione anche ai reati di contraffazione. Al riguardo tutto resta dunque sostanzialmente come prima, ed in pratica è possibile avvalersi di più penetranti strumenti d’indagine solo nei casi in cui ci si trova in presenza di vere e proprie organizzazioni criminali che gestiscono l’industria dei falsi e vengano quindi contestati i reati di cui agli artt. 416 e ss. Codice Penale. In ogni caso il titolare del diritto violato ha la possibilità di collaborare con i Giudici nel corso delle indagini e spesso i migliori risultati si ottengono servendosi insieme di procedimenti civili (specialmente descrizione e sequestro) e penali (per colpire le ramificazioni e gli eventuali aspetti di organizzazione criminosa del fenomeno).

Sul piano amministrativo, certamente da accogliere con favore, ed in effetti prevista già nell’originario «pacchetto anticontraffazione», è invece la modifica dell’art. 1, comma 7, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), con la determinazione di un minimo di 100 Euro della sanzione per l’acquirente consapevole di merci contraffattorie (ridotta nel massimo a 7.000 Euro, in luogo degli attuali 10.000), che porta questa sanzione ad un livello socialmente accettabile e quindi concretamente irrogabile in particolare ad opera dei vigili urbani; dalla norma è stato espunto anche l’inciso iniziale «Salvo che il fatto costituisca reato», in modo da rendere chiaro che questa sanzione amministrativa sostituisce l’eventuale sanzione penale (per ricettazione o incauto acquisto), il che egualmente ne dovrebbe rendere più agevole l’applicazione da parte delle autorità amministrative.

5. Al contrario, estremamente negativa – e infatti, come si è già accennato, subito riscritta, anche se in modo non meno infelice – è stata l’ennesima modifica dell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con l’introduzione di una norma con la quale viene vietata in ogni caso l’apposizione di marchi «di aziende italiane» su prodotti realizzati all’estero, a meno che non sia indicata l’effettiva provenienza geografica di essi con «caratteri evidenti» o con «altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera». Non solo infatti questa norma ostacola ingiustificatamente un fenomeno – quello del decentramento e dell’integrazione produttiva a livello internazionale – che riveste un’evidente valenza filoconcorrenziale, riducendo i costi e favorendo in ultima analisi proprio i consumatori, ma viene introdotta un’assurda disparità di trattamento tra i prodotti fatti realizzare all’estero da imprese italiane e da imprese straniere, anche comunitarie, che appare costituzionalmente illegittima, anche al di là della più che dubbia compatibilità di essa con la disciplina europea. Il risultato che, con un tipico fenomeno di eterogenesi dei fini, si rischiava d’incentivare era così quello del trasferimento a società collegate straniere dei più importanti marchi italiani, nell’ambito di una gestione di gruppo del loro portafoglio di titoli di proprietà industriale; e poiché ovviamente questa possibilità non è concretamente praticabile per le imprese minori, queste si sono trovate in una situazione doppiamente deteriore, nei confronti delle imprese straniere e di quelle del nostro Paese costituite in forma di gruppo multinazionale.

Di questa nuova norma il nuovo Direttore Generale dell’U.I.B.M. e della Lotta alla Contraffazione Avv. Loredana Gulino ha lodevolmente cercato di mitigare gli effetti più perniciosi, con una circolare interpretativa alla cui stesura anche il Prof. Avv. Cesare Galli ha contribuito, destinata anche all’Agenzia delle Dogane, che ne esclude correttamente l’applicazione in tutti i casi in cui l’apposizione del marchio fosse avvenuta prima della sua entrata in vigore.

La levata di scudi delle associazioni di categoria, e i commenti negativi degli esperti, hanno portato a una frettolosa «marcia indietro» e all’abrogazione della norma, operata, come si ricordava, dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, ma non completa. L’art. 16 di tale decreto ha infatti bensì eliminato la sanzione penale, sostituendola però con una sanzione amministrativa molto elevata (da 10.000 a 250.000 Euro) e sempre accompagnata dalla confisca della merce; è inoltre rimasta la segnalata disparità di trattamento, giacché, anche se la norma non parla più di «marchi di imprese italiane», ma di «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana», in concreto comunque anche con la nuova norma ad essere sanzionata non è la difformità tra qualsiasi provenienza geografica apparente e reale dei prodotti, ma unicamente l’ipotesi in cui l’origine apparente sia italiana, con la conseguenza che, ad esempio, un marchio che sia usato in modo da indurre il consumatore a ritenere che provengano dalla Francia prodotti in realtà realizzati altrove non darà luogo ad alcun profilo di illiceità, pur essendo come è ovvio la situazione del tutto equivalente. E questa disparità di trattamento è evidentemente sindacabile sia sotto il profilo della violazione del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), per cui la legge non può disciplinare in modo difforme fattispecie del tutto corrispondenti, pena l’introduzione di una ingiustificata discriminazione; sia sotto quello di una violazione dell’art. 28 (30) Trattato C.E., che sancisce il divieto dell’imposizione di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative.

La tecnica legislativa non consente neppure di comprendere che cosa esattamente sia sanzionato, ossia se basti la semplice apposizione di un marchio dal «suono italiano» (o comunque che sia notoriamente italiano) o se occorra anche il compimento di condotte ulteriori, idonee appunto a far credere al consumatore che non solo il marchio sia italiano, ma anche la merce contraddistinta provenga dall’Italia: il che parrebbe logico, se la nuova norma venisse interpretata in coerenza con l’orientamento consolidato della giurisprudenza penale, che ha sempre escluso che, di per sé, il marchio informi il pubblico sulla provenienza geografica. Analogamente, non è chiaro che cosa si debba intendere per «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario»: se infatti la norma dovesse essere interpretata nel senso di sanzionare già la semplice immissione in Italia di prodotti non conformi alla prescrizione, ancorché destinati a mercati diversi da quello italiano, dove essa ovviamente non opera, il risultato sarebbe quello di indurre le nostre imprese a spostare fuori dell’Italia la loro logistica, penalizzando anche sotto questo versante l’Azienda Italia. Il fatto poi che l’applicazione della norma sia affidata ad autorità amministrative, di regola prive di un’adeguata formazione al riguardo, rende particolarmente importante l’adozione di una circolare interpretativa che chiarisca questi dubbi, e prima ancora l’adeguamento della norma in sede di conversione del decreto legge.

Considerazioni analoghe valgono anche per l’altra novità introdotta dal d.l. n. 135/2009, ossia la previsione di sanzioni (questa volta penali, quelle previste dall’art. 517 c.p., incongruamente aumentate di un terzo) per l’utilizzo di «un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione» in relazione a prodotti che non siano stati effettivamente «realizzati interamente in Italia», dovendosi intendere per tali quelli per i quali «il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». Anche in questo caso, al di là dei problemi di compatibilità col diritto comunitario, la norma appare estremamente imprecisa e di difficile applicazione: posto che espressioni come «Made in Italy» possono essere utilizzate anche per prodotti che in Italia hanno soltanto «subito l’ultima trasformazione sostanziale», com’è prescritto dal Codice Doganale Comunitario, sembra logico pensare che i «segni» e le «figure» che comunicano un’origine italiana al 100% non possano essere semplicemente il tricolore o la riproduzione dello Stivale, se non sono accompagnati da espressioni verbali come «100%» o «tutto», ma la norma si presta evidentemente anche ad interpretazioni di segno diverso. Non è del resto chiaro neppure come sia possibile accertare che in Italia siano effettivamente avvenuti il «disegno» e la «progettazione», specie quando questi abbiano coinvolto designers stranieri, come frequentemente accade anche per imprese e per prodotti-simbolo del Made in Italy.

E dunque anche la disposizione sul «100% Made in Italy» rischia di ingenerare illusioni, e dare origine ad un contenzioso a non finire, più che conseguire i risultati sperati, che potevano essere raggiunti molto più facilmente attraverso il ricorso a marchi collettivi, previsti tra l’altro sia dall’ordinamento interno, sia da quello comunitario.

6. Di un’ultima novità che interessa il diritto industriale, anche se ovviamente non esso solo, si deve dare conto. Il 4 luglio scorso è entrata in vigore una nuova riforma del processo civile, peraltro applicabile ai soli procedimenti che hanno avuto inizio a partire da questa data e non a quelli in corso. Lo scopo delle nuove norme, come di quasi tutti gli interventi legislativi sul diritto processuale effettuati nell’ultimo decennio, è quello di abbreviare la durata dei giudizi di merito, ancora molto più elevata della media europea. Tali riforme toccano quindi solo marginalmente il settore della proprietà industriale e intellettuale, che in Italia è basato principalmente sul ricorso ai procedimenti cautelari, estremamente efficienti e rapidi e spesso idonei ad evitare il ricorso al susseguente giudizio di merito, attraverso transazioni raggiunte appunto sulla scorta dell’esito della fase d’urgenza.

Tra le nuove norme una diretta rilevanza per i giudizi di diritto industriale assume però l’art. 195 c.p.c., relativo alla consulenza tecnica d’ufficio. La nuova norma viene infatti a dare sanzione normativa ad una prassi già adottata in vari Tribunali, ossia quella di richiedere al C.T.U. di apprestare una sorta di «progetto» di Relazione, da sottoporre ai consulenti di parte registrandone i commenti e rispondendo ad essi nella Relazione finale: ciò allo scopo di evitare che il contraddittorio tecnico si prolunghi in una successiva fase di supplemento disposto dal Giudice appunto per rispondere alle obiezioni mosse dalle parti alla consulenza. Proprio alla luce dell’esperienza formatasi in relazione a questa prassi, è però legittimo dubitare dell’effettiva validità di questo metodo, almeno in materia brevettuale: di regola, infatti, la Relazione finale conferma quella preliminare e la replica alle osservazioni dei consulenti di parte diventa, più che un’occasione di approfondimento e di ripensamento, una sorta di «giustificazione» del C.T.U., che finisce inevitabilmente per difendere il proprio operato.

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Dunque, l’evoluzione del nostro diritto della proprietà intellettuale continua: con passi avanti e passi indietro, che spesso, come si vede anche da quest’ultimo intervento normativo, sono frutto più della casualità che di un organico disegno riformatore, per il quale probabilmente occorrerebbe che tutti i soggetti coinvolti, avvocatura, consulenti IP ed imprese cercassero di coordinarsi in una sorta di «parlamentino», per presentare in modo il più possibile unitario e rappresentativo al mondo politico le istanze di chi nel mondo delle attività produttive quotidianamente vive ed opera.