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Il caso fortuito, il “fatto della cosa” e la responsabilità oggettiva per i danni causati dalle cose in custodia

Indice

1. La colpa presunta del custode e l’esimente del caso fortuito

2. Il fortuito che qualifica la responsabilità del custode come oggettiva.

3.La responsabilità di mera posizione del custode: il “fatto della cosa”

4. Inquadramento storico-sistematico dell’art. 2051 c.c.

5. L’emersione in via interpretativa della colpa come elemento qualificante della responsabilità

6. Le basi metagiuridiche della supposta responsabilità di mera posizione del custode

7. Considerazioni finali

1. La colpa presunta del custode e l’esimente del caso fortuito

In un passato non lontano era consolidata e pacifica opinione giurisprudenziale che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati da cose in custodia, regolata dall’art. 2051 c.c., in nulla differisse dall’archetipo di responsabilità aquiliana delineato dall’art. 2043 c.c., salvo che per il fatto che l’art. 2051 c.c., diversamente dalla regola-base, non pone a carico del danneggiato l’onere di provare la colpa del danneggiante al fine di essere risarcito del danno, ma a carico del danneggiante l’onere di provare l’assenza di colpa per sottrarsi al risarcimento.

L’art. 2051 c.c., invero, fa conseguire l’esclusione della responsabilità del custode-danneggiante unicamente dalla prova da lui eventualmente fornita che il danno è opera del “caso fortuito”. Si riteneva che gravasse sul custode, inteso puramente e semplicemente come colui che ha di fatto un potere di controllo e vigilanza sulla cosa, il generale dovere di fare in modo che la cosa non arrechi nocumento a terzi. Il danno prodotto dalla cosa in custodia per opera del fortuito si riteneva che escludesse la responsabilità del custode sul piano della colpa giacché, essendosi il danno prodotto per l’intervento di un fattore che esula dalle possibilità di previsione del custode, a costui non potessero muoversi rimproveri non per avere attuato le misure necessarie ad evitarlo.

2. Il fortuito che qualifica la responsabilità del custode come oggettiva

Detto modo d’intendere la responsabilità del custode è divenuto bersaglio di aspre critiche da parte di non pochi giuristi, secondo i quali l’art. 2051 c.c. non descriverebbe una fattispecie di responsabilità da colpa, ma oggettiva.

Questo alternativo approccio è da qualche anno condiviso dalla III Sezione civile della Corte di Cassazione. La compiuta esposizione dell’impianto teorico che sorregge la concezione in chiave oggettivistica della responsabilità del custode si ritrova pedissequamente ripetuta in molte pronunce della stessa Sezione della Corte. Una di queste è la sentenza 6/7/2006 n.15383 (in tema di responsabilità della P.A. per danni da mancata o insufficiente manutenzione di strade pubbliche) alla quale farò paradigmatico riferimento per illustrare quali siano le fondamenta giustificative dell’orientamento giurisprudenziale che qui interessa vagliare.

Dagli enunciati della pronuncia giurisdizionale sopra ricordata si apprende, in primis, che l’impossibilità di seguitare a configurare in termini di colpa presunta la responsabilità del custode è imposta da un fondamentale dato ermeneutico: il “caso fortuito”, che l’art. 2051 c.c. individua come la sola condizione di esclusione della responsabilità del custode, non influisce sull’aspetto della rimproverabilità del danno al custode, ma sul profilo oggettivo della vicenda che consente di ricondurre il danno provocato dalla cosa in custodia nell’alveo della fattispecie di responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2051 c.c.

Illuminante, a questo proposito, il seguente passo della sentenza: <<...il solo limite (alla responsabilità del custode - n.d.r.) previsto dall’articolo in esame (2051 c.c.- n.d.r.) è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia.>>.

Sulla caratterizzazione dell’azione esimente dispiegata dal fortuito in rapporto alla responsabilità del custode, la sentenza rinvia alla funzione esimente che è oggi prevalentemente assegnata al caso fortuito nel diritto penale. In proposito, il lettore focalizzi l’attenzione sui seguenti brani: << Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti fanno applicazione dei principi penalisti di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (...). La dottrina e la giurisprudenza penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il nesso causale e che esso operasse nell’ambito della colpevolezza, quale causa di esclusione della stessa. Sennonchè, da oltre quaranta anni, la dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di esclusione del nesso causale in quanto l’art. 45 c.p., nel far seguire al verbo "ha commesso" la preposizione "per", sta ad indicare "a causa di". All’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.>>.

Occorre subito sottolineare che quest’ultima affermazione sul caso fortuito che “interrompe” (o, come si legge in altri passi, “recide”) il nesso di causalità rilevante per l’affermazione della responsabilità, denuncia una commistione concettuale fra il caso fortuito riguardato dall’art. 45 c.p. e la causa sopravvenuta indipendente di cui si occupa l’art. 41 c.p.

E’ infatti quest’ultima e non il fortuito che interrompe il nesso di causalità fra la condotta dell’agente e l’evento di reato. La causa sopravvenuta indipendente implica che un’azione od omissione idonea a causare l’eventum criminis sia compiuta dall’agente; l’evento, però, è interamente cagionato da una causa autonoma, cosicché è solo a questa e non all’agente che va riferito il fatto di reato dal punto di vista eziologico. La causa sopravvenuta, di conseguenza, interrompe, recide il nesso materiale di causalità sussistente fra la condotta e l’evento.

Il fortuito, invece, non interrompe alcunché, dato che l’art. 45 c.p. rende non punibile l’agente che abbia “commesso il fatto per caso fortuito”. La condizione per l’operare dell’esimente è che a causare l’evento di reato sia stato proprio l’agente con la sua condotta. Il fortuito, pur implicando (come la causa sopravvenuta) che una condotta sia stata posta in essere dall’agente, presuppone, all’opposto, che quella condotta non fosse idonea a determinare l’evento prima dell’intervento del fortuito stesso e che dell’evento sia divenuta la causa per l’irrompere in scena di un fattore anomalo che ha fatto scaturire dalla condotta un effetto atipico ed imprevedibile. Nella ratio dell’art. 45 c.p., il fortuito s’incunea nel normale processo dinamico di una condotta “neutra”, deviandolo nella direzione dell’evento penalmente rilevante. Pertanto, che si intenda il fortuito come elemento che incide sul nesso di causalità o sulla colpa, la sua azione si concretizza sempre nel trasformare una condotta soggettiva di per sé non idonea a produrre l’evento nel fattore che lo cagiona. Ergo, sul terreno naturalistico, il fortuito non interrompe un legame eziologico fra la condotta e l’evento, ma lo crea ex novo.

In base all’art. 45 c.p., dunque, l’esclusione della riferibilità eziologica all’agente del fatto penalmente rilevante non avviene, come per la causa sopravvenuta, in considerazione di una sopravvenuta inefficienza causale della condotta umana nella causazione del fatto, ma per la ragione opposta. L’appartenenza materiale del fatto all’agente c’è, ma è disconosciuta per una precisa scelta legislativa: quella di individuare nel fortuito il limite generale al principio della “causalità materiale” (o della “condicio sine qua non”) sancito dagli artt. 40 e 41 c.p., principio la cui applicazione porterebbe a considerare il fatto il cui verificarsi è stato influenzato dal fortuito come appartenente all’agente sul piano dell’imputazione oggettiva del reato. Detto altrimenti, la ratio dell’esimente penale costruita sul fortuito è quella di dequalificare sul piano giuridico il comportamento dell’agente che, altrimenti, si qualificherebbe, a norma degli artt. 40 e 41 c.p., come un antecedente causale del fatto, qualificando l’agente come l’autore del reato sul piano oggettivo.

Fatte queste preliminari precisazioni sulla causa di esenzione della responsabilità penale contemplata dall’art. 45 c.p. e tenendo presente che, secondo la sentenza in attenzione, l’esimente di cui parla l’art. 2051 c.c. è esattamente quella contemplata da detta norma penale nell’interpretazione oggi datane dalla dominante dottrina penalistica, la sentenza prosegue affermando: <<Poichè la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.>>.

Queste asserzioni vanno approfondite.

Nel riportato brano di sentenza si parla di un fortuito che libera il custode dalla responsabilità in quanto “recide” non il nesso causale fra il danno ed un comportamento del custode stesso, ma il nesso causale fra il danno e la cosa in sé e per sé considerata. Eppure, come s’è notato, l’esimente di cui si occupa l’art. 45 c.p., con l’escludere la responsabilità penale di chi ha “commesso” il fatto per caso fortuito, pone quest’ultimo in necessaria correlazione con un comportamento di colui al quale la responsabilità dovrebbe ipoteticamente imputarsi.

Se, dunque, si sostiene che il fortuito liberatore del custode è quello preso in considerazione dall’art. 45 c.p. e che quest’ultimo va inteso nel senso che l’esimente opera sul nesso causale e non sulla colpa, la previsione del fortuito quale causa limitatrice della responsabilità del custode può, sì, condurre a sostenere il carattere oggettivo della responsabilità stessa, ma non che il comportamento del custode sia irrilevante ai fini dell’oggettiva imputazione del danno. Se nella sentenza si professa l’irrilevanza del comportamento del custode, ciò significa che, in realtà, la Corte pensa che un comportamento di quel soggetto sia irrilevante a prescindere dal fatto che la causa di esclusione della responsabilità è data dal caso fortuito.

3. La responsabilità di mera posizione del custode: il “fatto della cosa”

Bisogna allora ritenere che dietro l’affermazione del carattere oggettivo della responsabilità custodiale c’è dell’altro oltre alla mera constatazione che la prevista esimente della responsabilità non riguarda la colpa ma il profilo oggettivo della fattispecie. Se si fosse limitata a quella constatazione, la Corte avrebbe dovuto concludere che, tolta la rilevanza dell’elemento psicologico della colpa in considerazione della particolare esimente contemplata dall’art. 2051 c.c. , la responsabilità del custode presenta, per il resto, i caratteri della fattispecie-archetipo di responsabilità civile tratteggiati dall’art. 2043 c.c. L’operazione della Corte, invece, è quella di adattare l’odierna nozione penalistica di caso fortuito ad un modello di responsabilità civile che essa già a priori considera differente da quello delineato dall’art. 2043 c.c.; questo perché la Corte ritiene che la responsabilità ex art. 2051 c.c. sia di per sé strutturata sulla base di un criterio dell’imputazione oggettiva del danno al responsabile che diverge dal criterio generale stabilito dalla suddetta norma-archetipo, per la quale il danno si imputa al responsabile oltre che in ragione della colpa anche in ragione di una qualche condotta del responsabile che abbia oggettivamente contribuito a causare il danno stesso. Il criterio dell’imputazione oggettiva al custode della responsabilità, invece, prescinderebbe dalla necessaria dipendenza del danno da un fatto di cui il custode sia stato il materiale autore sul piano eziologico: << La responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa>>.

Nella visione della Corte, il custode risponde del danno della cosa per il solo fatto di esserne il custode. Si tratterebbe, dunque, di una responsabilità di “mera posizione”, ossia di un modello d’imputazione personale del danno che si fonda su pure e semplici relazioni di fatto o di diritto intercorrenti fra il soggetto responsabile del danno e le persone o le cose cui il danno si imputa materialmente. La responsabilità non solo è disancorata dalla colpa di chi deve sopportare il costo del danno provocato da altri o di cui sia fonte un’entità puramente oggettuale, ma astrae dalla stessa necessità di appartenenza del danno al responsabile sotto il profilo oggettivo, non richiedendosi per l’imputazione che il responsabile abbia contribuito al verificarsi del danno con un qualche contegno, sia pure solo occasionante.

Dal momento che la ragione per cui si afferma l’irrilevanza del comportamento del custode non si desume dall’essere il caso fortuito la causa di esonero della responsabilità, tale ragione dev’essere ricercata altrove. E questa indagine deve prendere le mosse da una precisa affermazione contenuta nella pronuncia giurisdizionale in disamina, ossia quella secondo cui ciò che unicamente rileva ai fini dell’imputazione di responsabilità al custode è il “fatto della cosa” e non quello del custode: <<Solo il "fatto della cosa" è rilevante e non il fatto dell’uomo.>>.

Che mai deve intendersi per “fatto della cosa”?

Gli oggetti non determinano modificazioni fisiche della realtà, a meno che fattori esterni non imprimano loro il dinamismo necessario perché ciò avvenga. Il danno di cui si occupa l’art. 2051 c.c. non è mai un “fatto della cosa”, ma il frutto dell’interazione di fattori causali interni ed esterni alla cosa e che possono essere tanto di origine umana che naturale.

La sentenza in osservazione, in realtà, richiamandosi a “le fait de la chose” di cui parlava il Code Napoleon a proposito della responsabilità del custode, con quella sintesi verbale vuole sottintendere che il custode risponde del danno che la cosa produce quali che siano le cause che hanno reso la cosa nociva. La circostanza che fra le cause del danno vi sia o non vi sia il “fatto dell’uomo”, ossia il comportamento del custode, è influente tanto ai fini di affermare quanto di negare la sua responsabilità.

Sennonché, nessuno in passato ha mai messo in dubbio che nella responsabilità custodiale solo il “fatto della cosa” e non quello del custode ha importanza. Però, “le fait de la chose” non è stato inteso come sembra intenderlo la Corte, ma come il danno che la cosa in custodia produce per cause diverse dall’uso nocivo che il custode stesso ne abbia fatto (il custode di un’arma da fuoco non risponde del fatto della cosa ma del fatto proprio se spara e colpisce qualcuno). Il “fatto della cosa” si identifica in negativo, ossia per ciò che non è rispetto al “fatto dell’uomo”, il quale ultimo è il danno che si verifica in quanto il custode ponga in essere una condotta che ha concretato la causa efficiente del nocumento scaturito dalla res.

Ma che il fatto della cosa si distingua dal fatto dell’uomo, inteso nel senso appena precisato, non obbliga a concludere che dietro il danno prodotto dalla cosa non possa esservi ugualmente un fatto dell’uomo-custode di altro genere. Nell’eziologia del “fatto della cosa” un fatto del custode diverso dalla condotta direttamente causativa del danno è perfettamente concepibile in termini di contributo “mediato” alla produzione del fatto dannoso, contributo fornibile attraverso una condotta semplicemente occasionante del pregiudizio, cioè un comportamento commissivo od omissivo che abbia consentito ad altri agenti causali di esercitare sulla cosa il dinamismo fisico che l’ha resa veicolo del danno. Ed è esattamente in questo modo che il “fatto della cosa” è stato inteso per lustri, nell’alveo di un ordinamento giuridico che, come il nostro, è storicamente ancorato al basilare principio di civiltà del diritto per cui “nulla poena sine culpa” e dove, nel dubbio interpretativo, ogni fattispecie di responsabilità per la quale sia possibile scorgere una rilevanza dell’elemento soggettivo della colpa è risolto in senso favorevole all’imputabilità del danno per colpa.

4. Inquadramento storico-sistematico dell’art. 2051 c.c.

Anche se la ricostruzione della fattispecie in termini di imputazione colposa del danno al custode sembra effettivamente ostacolata dalla previsione normativa del fortuito quale causa di esclusione della responsabilità (conclusione alla quale, peraltro, può giungersi a condizione di ritenere che il fortuito operi sul nesso di causalità e non sulla colpa), nulla ostacola la possibilità, seppur in una prospettiva esclusivamente oggettivistica della responsabilità, di conferire rilevanza all’obiettivo contributo occasionante dato dal custode nella causazione del danno della cosa . Via la colpa, resta il “nudo e crudo” contributo causale del custode come elemento di qualificazione della sua responsabilità.

In effetti, l’esegesi storico-sistematica della fattispecie non evidenzia credibili appigli per affermare che la responsabilità di cui si discorre debba prescindere dall’ordinario criterio della riferibilità causale del danno ad un comportamento del responsabile.

L’antecedente transalpino rappresentato da “le fait de la chose”, richiamato nella sentenza in esame quale prova storica dell’irrilevanza del comportamento del custode, assume scarsa pregnanza in un ordinamento che, come il nostro, tradizionalmente rifiuta l’idea che la responsabilità per fatto illecito possa essere sganciata dalla violazione di un qualche dovere di agire affinche il fatto non si abbia. Il Code Napoleon indubbiamente parlava di un “fait de la chose” del quale i cittadini dovevano rispondere in quanto la “chose” fosse loro affidata in custodia; ed è altresì un dato di fatto che questa impostazione è stata recepita dal codice civile del 1865. Ma il vigente codice civile del 1942, col prevedere il limite del fortuito per la responsabilità custodiale, ha inteso introdurre un temperamento ad una fattispecie che il previgente codice sembrava delineare alla stregua di una responsabilità di pura posizione. Del resto, deve indurre a riflettere il fatto che, laddove il codice del ’42 ha inteso costruire un siffatto tipo di responsabilità in casi specifici (es. artt. 2049 e 2050 c.c.), non ha previsto alcuna causa di esonero; sicché, laddove ha invece introdotto espressamente cause di esonero, si ha argomento per ritenere che non abbia voluto configurare responsabilità di mera posizione.

Ma che l’original intent dell’art. 2051 c.c. non fosse quello di prevedere una fattispecie di responsabilità oggettiva e, tanto meno, di mera posizione è attestato dalla banalissima osservazione che, quando il vigente codice civile fu varato, il caso fortuito era concepito quale causa di esclusione della responsabilità operante non sul nesso di causalità ma sulla colpevolezza. In armonia con questo original intent, dottrina e giurisprudenza del secondo dopoguerra hanno considerato la responsabilità del custode fondata sulla colpa presunta, intendendo il fortuito liberatore come lo si intendeva allora, ossia l’accadimento che, pur causando il danno grazie al concorso causale del custode, esclude la possibilità di rimproverare al custode l’inosservanza del dovere di evitare il fatto fonte della responsabilità. Oltretutto, è francamente arduo supporre che il Legislatore, nel mentre prevedeva una causa di esenzione della responsabilità identificandola nella irregolarità del modo in cui la cosa produce il danno, intendesse strabicamente individuare un criterio d’imputazione di quella responsabilità imperniato sulla sola posizione custodiale, criterio in relazione al quale non assume alcun rilievo chi e cosa abbia portato la res a generare il danno e se questo si sia generato per cause normali o anormali.

Del resto – come s’è già rilevato – non a più fruttuosi risultati esegetici conduce l’applicazione alla fattispecie della moderna teoria del fortuito fatta propria dalla Suprema Corte (quella secondo cui il fortuito incide sul nesso di causalità e non sulla colpa), stante che anche questa visione dell’ esimente considerata postula un inscindibile collegamento logico-funzionale del fortuito con una condotta causalmente significativa del custode. L’art. 45 c.p. – lo si è rimarcato e lo si ribadisce – esonera dalla responsabilità l’agente quando a causare l’evento per caso fortuito sia stato l’agente stesso e non fattori umani o naturali estranei alla sua sfera comportamentale: “Non è imputabile chi ha commesso il fatto per caso fortuito”.

5. L’emersione in via interpretativa della colpa come elemento qualificante della responsabilità

Ma è lo stesso significato che si dà all’art. 2051 c.c. per effetto del nuovo modo di concepire il fortuito a non trovare una congrua giustificazione. Se, come si è osservato, il Legislatore ha inteso limitare la responsabilità del custode richiamandosi ad una causa di esonero che esso intendeva riferita all’elemento psicologico dell’illecito civile, la ratio legis di quella limitazione afferisce alla colpa del custode e non al nesso causale fra il danno e la cosa; e poco o nulla comporta che il significato successivamente assunto negli ambienti gius-penalistici dalla causa di esenzione richiamata dall’art. 2051 c.c. non sia più quello che le era attribuito nel 1942.

Infatti, se l’interprete della legge “non può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12 Prel.), il significato proprio delle parole “caso fortuito”, in pieno accordo con l’intenzione del Legislatore, vieta di interpretare la norma come un’ipotesi di responsabilità che prescinde dalla colpa del custode. Questo perché l’attribuzione ad un testo di legge di significati diversi da quello corrente all’epoca dell’approvazione è operazione autorizzata a patto che il senso originario delle espressioni lessicali non si accordi più col mutato contesto normativo in cui la disposizione continua ad operare, oppure quando, per effetto di nuovi fenomeni e problematiche socio-politiche collegati all’applicazione della norma, il contenuto semantico di essa necessiti di essere inteso secondo un differente significato pur sempre ritraibile dal suo tenore letterale.

Ma, nel caso dell’art. 2051 c.c. quali sopravvenute modifiche del contesto normativo o nuove esigenza socio-politiche giustificano un’interpretazione evolutiva nei sensi illustrati?

Sul versante del contesto normativo non sono intervenute modifiche che abbiano inciso negativamente sull’applicabilità della disposizione codicistica secondo l’originario significato; e tanto meno si sono imposte esigenze d’ordine socio-politico che richiedano un adeguamento semantico nel modo di intendere l’espressione “caso fortuito”, visto che, con riguardo alla responsabilità custodiale, non si sono nel tempo evidenziate specifiche problematiche di rilevanza civile e sociale che inducano a ritenere necessario elevare il livello di responsabilità del custode attraverso l’attribuzione di un diverso significato alla suddetta espressione. Nei particolari casi in cui la responsabilità da custodia è apparsa inadeguata così come genericamente disciplinata dall’art. 2051 c.c., il Legislatore, sia nella stessa fase di redazione del codice civile che con interventi successivi, ha avuto cura di stralciare fattispecie ad hoc di responsabilità per danni provocati da particolari categorie di beni oggetto di custodia e/o di custodi; sicché, nei residuali casi aspecifici disciplinati dalla norma codicistica in questione non si pongono esigenze di sue riletture suggerite dalla necessità di adeguarne il significato a nuovi assetti normativi o all’emergere di nuovi bisogni socialmente diffusi.

D’altra parte, è singolare notare come, nel contesto di successive pronunce, la stessa Sezione della Corte che così fermamente persegue e calorosamente perora l’orientamento giurisprudenziale in disamina mostri i segni di una certa difficoltà ad orientarsi al di fuori dei territori della tradizionale colpa presunta del custode. Si prenda la sentenza n° 20415/09, dove il Collegio ha applicato gli stessi enunciati che si leggono nell’arresto alla presente attenzione ad un caso di danno derivato a persona che si era arrampicata all’incontrario sullo scivolo di un parco-giochi a causa di una malformazione dello scivolo stesso. Là si ha modo di leggere che: <<… poiché funzione dell’art. 2051 cod. civ. è di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi ad essa inerenti … il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso improprio - da parte del terzo o del danneggiato - della cosa si arresta soltanto al caso in cui la pericolosità dell’anomala utilizzazione di essa, intesa come fattore causale esterno, sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, da renderla del tutto imprevedibile e perciò inevitabile>>; e si legge altresì che spettava al custode dello scivolo <<…dimostrare che … l’evento non era evitabile mediante l’adozione di opportune cautele, come ad esempio il divieto di tale uso improprio, ovvero il rivestimento dei tubolari sottostanti la lamiera con materiale di gomma o comunque non tagliente.>>. Ma come??? Si proclama l’irrilevanza del comportamento del custode e si parla di un suo“dovere” di evitare il danno che si arresta solo innanzi al fortuito nonché di “opportune cautele” che il custode, per andare esente dalla responsabilità, dovrebbe dimostrare di aver assunto al fine di prevenire il fatto?

A conti fatti, dunque, come abbiamo visto, dall’analisi esegetica condotta intorno all’art. 2051 c.c. non sortiscono ragioni che conducano ad affermare che la responsabilità del custode deve prescindere dal comportamento dello stesso nella vicenda causativa del danno di cui è responsabile. Per converso, quella disamina fa emergere consistenti prove del fatto che la responsabilità custodiale non può concepirsi alla stregua di un addebito avulso non solo dalla suitas oggettiva (condotta causativa del custode) ma anche soggettiva (colpa) che lega il danno a chi deve pagarne il costo.

E, allora, come si giustifica la tesi (in via di galoppante consolidamento giurisprudenziale) secondo cui la fattispecie si qualifica alla stregua di una responsabilità oggettiva e, per di più, di “mera posizione”del custode?

6. Le basi metagiuridiche della supposta responsabilità di mera posizione del custode

Più teorie si sono succedute con l’intento di munire di giustificazione questa prospettiva interpretativa: << La ratio dell’accollo del costo del danno al custode>> si legge nella sentenza in analisi <<non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Esso fu individuato nella “deep pocket” (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella “richesse oblige”, nella tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della “cost-benefit analysis”, per cui doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.>>.

Per un verso, l’estensione al campo della responsabilità da custodia delle teorie della deep pocket e della richesse oblige poggia sul grossolano ed aberrante equivoco che il custode sia assimilabile al “ricco capitalista” al quale è socialmente giusto addossare i costi economici dei rischi che crea nel lucrare dal proprio potere di organizzazione e sfruttamento dei beni materiali a sua disposizione. Ovvietà richiederebbe di tralasciare ogni considerazione in proposito, tant’è evidente che nella condizione soggettiva presa in considerazione dall’art. 2051 c.c., volenti o nolenti, ci troviamo costantemente immersi tutti noi e ciò per il semplice fatto di possedere un qualsivoglia oggetto potenzialmente produttore di danno e, peraltro, senza lucrare alcunché da tale situazione ovvero ricavandone vantaggi di entità tale da non giustificare minimamente un simile innalzamento del livello di responsabilità.

Per altro verso, quelle tesi appaiono perfino preferibili a certi loro “più moderni affinamenti”, ai quali pure fa cenno la pronuncia giurisdizionale attenzionata e che individuano il nucleo fondante della responsabilità di posizione del custode nel fatto che, in virtù della stessa posizione, egli può scegliere se agire o non agire in modo da evitare che la cosa sia fonte di danno. L’incoerenza di questa premessa giustificativa rispetto a ciò che con essa si vuole dimostrare è addirittura sconcertante: al custode il danno deve essere accollato a prescindere da cosa abbia o non abbia fatto per evitarlo, ma si individua la ragione di tale accollo nel fatto che il custode deve sopportare il danno perché ha deciso di non adottare le misure che lo avrebbero evitato. In parole povere, il succo del discorso è più o meno questo: “Caro custode, visto che sei nelle condizioni di evitare che la cosa provochi danni, di questi devi rispondere perché non hai scelto di agire in modo da evitare il danno prodotto dalla cosa; se poi hai fatto quanto di meglio per evitarlo ma esso si è ugualmente verificato, beh....ti arrangi e paghi lo stesso!”. Oltretutto, gli argomenti che dovrebbero convincere del fatto che si tratta di responsabilità oggettiva pongono in luce come l’elemento determinante che dovrebbe giustificare il carattere oggettivo della responsabilità è individuato in un aspetto che connota tipicamente ed esclusivamente la responsabilità per fatto colposo: l’avere il responsabile scelto di agire in modo da non evitare il danno.

V’è poi chi, volendo spiegare perché il custode deve rispondere “a prescindere”, va a scomodare il dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., compiendo, né più né meno, che un’operazione di mero maquillage delle suddette teorie applicative dei principi della deep pocket e della richesse oblige. Del resto, i caldeggiatori dell’idea che sul custode debba gravare il rischio di posizione imposto da quel dovere, oltre a non considerare la strutturale assenza, nella fattispecie, dei pre-requisiti eticamente e socialmente richiesti perché tale rischio valga a fondare un’imputazione di responsabilità per i danni che ne sono manifestazione (su tale aspetto ci si intratterrà maggiormente al termine del presente scritto), non sanno spiegare il perché questo rischio, ad esempio, dovrebbe gravare sul quivis de populo per i danni che potrebbero provocare i pur modestissimi beni personali da lui posseduti (ogni oggetto è potenziale fonte di danni) e non grava sull’imprenditore che organizza e gestisce redditizie attività pericolose, posto che costui, a mente dell’art. 2050 c.c., non risponde per la propria posizione ma per colpa presunta, ossia qualora non provi di avere tenuto il comportamento che avrebbe evitato il pregiudizio derivato dallo svolgimento dell’attività pericolosa o dai mezzi impiegati. Vero è che la ratio della prevista responsabilità per colpa e non oggettiva di costui risiede nella valutata opportunità di non inibire eccessivamente lo stimolo verso lo svolgimento di attività socialmente utili anche se pericolose; ma è altrettanto vero che se il criterio della colpa denota la responsabilità per i danni provocati da oggetti latori di elevate potenzialità di rischio, un’interpretazione razionale del sistema obbligherebbe a ritenere che il criterio della colpa non può che denotare anche il livello della più generica responsabilità ex art. 2051 c.c., la quale, per esclusione, copre i rischi correlati alla custodia di cose meno pericolose di quelle prese in considerazione dall’art. 2050 c.c.

7. Considerazioni finali

La verità è che, per chi da tempo teorizza ed auspica un generalizzato superamento del tradizionale schema che vuole la responsabilità civile fondarsi sulla violazione di un dovere, non c’è spazio per altre ragioni se non per quelle di chi subisce il danno: chi subisce il danno è il “soggetto debole” e va ad ogni costo ristorato da qualcuno, a prescindere da come questo qualcuno abbia agito in relazione al verificarsi del danno; il risarcimento del danno non deve più essere visto come una sanzione inflitta al danneggiante che ha violato il dovere di non nuocere ai propri simili, ma come un “costo sociale” comportato dal puro fatto che ci si trova in una data relazione con le persone o i beni che sono la fonte immediata del danno del quale si risponde. Il costo del danno deve essere posto a carico del responsabile non perché sia iniquo che il terzo sopporti un danno che non vi sarebbe stato se il responsabile avesse osservato le regole che doveva osservare per evitarlo, ma perché vi sono trascendenti ragioni etico-sociali che rendono giusto ed opportuno individuare a priori il “soggetto forte” che sempre e comunque quel costo deve sopportare perché il danno non resti a carico del danneggiato “soggetto debole”.

Tralasciando ogni considerazione sul grave significato involutivo che una simile unilateralizzazione degli interessi del danneggiato riflette sul piano antropologico e della civiltà del diritto; e tacendo pure dei devastanti effetti pratici che una tale visione della responsabilità civile si candida a legittimare cancellando la funzione autoresponsabilizzante che da sempre è svolta dalla colpa come criterio di imputazione della responsabilità, ci sono, comunque, un paio di “dettagli” che ostacolano un approccio alla fattispecie contemplata dall’art. 2051 c.c. da parte di quella concezione della responsabilità civile.

Il primo lo si rinviene nel fatto che, in rapporto alla responsabilità in argomento, non sono in alcun modo individuabili a priori figure corrispondenti al “soggetto forte” ed al “soggetto debole”. La responsabilità custodiale non vede quali strutturali ed invariabili parti coinvolte nelle vicende di danno un soggetto “forte” (il custode) ed uno “debole” (il danneggiato); per intenderci, mutatis mutandis, non si ha per il custode ed il danneggiato dalla cosa un qualcosa di simile a quanto accade, ad esempio, per le figure del datore di lavoro e del lavoratore subordinato, che possono in ogni caso considerarsi, rispettivamente, soggetto “forte” e “debole” del reciproco rapporto giuridico-economico. Si è più sopra notato che custodi di qualcosa lo siamo indiscriminatamente tutti, senza distinzione di classe sociale, di condizione personale, di sesso, razza ecc…. Cosicché, la responsabilità custodiale è caratterizzata, quanto alla tipologia del soggetto danneggiante e di quello danneggiato, dalla massima trasversalità possibile. Può quindi accadere che nella singola vicenda assuma le vesti di custode l’imprenditore che gestisce e controlla i beni aziendali da cui il danno deriva, così come accade che in quel ruolo ci capiti il classico “povero Cristo” chiamato a rispondere del danno cagionato da un qualsivoglia bene di comune uso personale.

L’altro motivo ostativo – forse il più pregnante – sta nel fatto che la teoria della responsabilità di posizione poggia – dal punto di vista etico, politico e sociale – sull’idea che l’imputazione di responsabilità ad un soggetto si colleghi ad una consapevole scelta di costui di assumere, con tutti i suoi “pro” ed i suoi “contro”, la posizione normativamente responsabilizzante. E se, come di continuo ribadisce la stessa Corte, la relazione di custodia fra un individuo ed un bene materiale è relazione di puro fatto che prescinde dall’assunzione da parte del soggetto di un obbligo specifico di custodire beni materiali, ciò vuol dire che non solo il venire in essere di quella relazione prescinde in re ipsa da ogni rilevanza giuridica di eventuali scelte che il custode abbia potuto compiere nei precisati sensi, ma che la stessa relazione può finanche essere subita dal custode in forza di un’imposizione legale, come per esempio accade all’ente pubblico rispetto a certi beni pubblici affidatigli in cura o che gli appartengono ope legis.

Non è da escludere che l’intento di ricostruire il criterio d’imputazione del danno della cosa intorno alla pura e semplice posizione del custode tragga spinta motivazionale dall’esigenza di superare nei soli confronti dei custodi “soggetti forti” il criterio ancorato alla suitas soggettiva ed oggettiva del danno. Ma, come tutti intendono, una volta ancorato alla mera posizione custodiale quel criterio, esso non può che rimanere fissato per tutti i custodi, unica essendo la norma che regola la responsabilità del custode ed unica dovendo essere la sua interpretazione per tutti ed in tutti i casi. Sicché, volendo colpire il custode “forte” per proteggere il danneggiato “debole”, si colpisce il custode “debole” proteggendo il danneggiato “forte” le volte che il destino decida di invertire le parti della commedia.

Indice

1. La colpa presunta del custode e l’esimente del caso fortuito

2. Il fortuito che qualifica la responsabilità del custode come oggettiva.

3.La responsabilità di mera posizione del custode: il “fatto della cosa”

4. Inquadramento storico-sistematico dell’art. 2051 c.c.

5. L’emersione in via interpretativa della colpa come elemento qualificante della responsabilità

6. Le basi metagiuridiche della supposta responsabilità di mera posizione del custode

7. Considerazioni finali

1. La colpa presunta del custode e l’esimente del caso fortuito

In un passato non lontano era consolidata e pacifica opinione giurisprudenziale che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati da cose in custodia, regolata dall’art. 2051 c.c., in nulla differisse dall’archetipo di responsabilità aquiliana delineato dall’art. 2043 c.c., salvo che per il fatto che l’art. 2051 c.c., diversamente dalla regola-base, non pone a carico del danneggiato l’onere di provare la colpa del danneggiante al fine di essere risarcito del danno, ma a carico del danneggiante l’onere di provare l’assenza di colpa per sottrarsi al risarcimento.

L’art. 2051 c.c., invero, fa conseguire l’esclusione della responsabilità del custode-danneggiante unicamente dalla prova da lui eventualmente fornita che il danno è opera del “caso fortuito”. Si riteneva che gravasse sul custode, inteso puramente e semplicemente come colui che ha di fatto un potere di controllo e vigilanza sulla cosa, il generale dovere di fare in modo che la cosa non arrechi nocumento a terzi. Il danno prodotto dalla cosa in custodia per opera del fortuito si riteneva che escludesse la responsabilità del custode sul piano della colpa giacché, essendosi il danno prodotto per l’intervento di un fattore che esula dalle possibilità di previsione del custode, a costui non potessero muoversi rimproveri non per avere attuato le misure necessarie ad evitarlo.

2. Il fortuito che qualifica la responsabilità del custode come oggettiva

Detto modo d’intendere la responsabilità del custode è divenuto bersaglio di aspre critiche da parte di non pochi giuristi, secondo i quali l’art. 2051 c.c. non descriverebbe una fattispecie di responsabilità da colpa, ma oggettiva.

Questo alternativo approccio è da qualche anno condiviso dalla III Sezione civile della Corte di Cassazione. La compiuta esposizione dell’impianto teorico che sorregge la concezione in chiave oggettivistica della responsabilità del custode si ritrova pedissequamente ripetuta in molte pronunce della stessa Sezione della Corte. Una di queste è la sentenza 6/7/2006 n.15383 (in tema di responsabilità della P.A. per danni da mancata o insufficiente manutenzione di strade pubbliche) alla quale farò paradigmatico riferimento per illustrare quali siano le fondamenta giustificative dell’orientamento giurisprudenziale che qui interessa vagliare.

Dagli enunciati della pronuncia giurisdizionale sopra ricordata si apprende, in primis, che l’impossibilità di seguitare a configurare in termini di colpa presunta la responsabilità del custode è imposta da un fondamentale dato ermeneutico: il “caso fortuito”, che l’art. 2051 c.c. individua come la sola condizione di esclusione della responsabilità del custode, non influisce sull’aspetto della rimproverabilità del danno al custode, ma sul profilo oggettivo della vicenda che consente di ricondurre il danno provocato dalla cosa in custodia nell’alveo della fattispecie di responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2051 c.c.

Illuminante, a questo proposito, il seguente passo della sentenza: <<...il solo limite (alla responsabilità del custode - n.d.r.) previsto dall’articolo in esame (2051 c.c.- n.d.r.) è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia.>>.

Sulla caratterizzazione dell’azione esimente dispiegata dal fortuito in rapporto alla responsabilità del custode, la sentenza rinvia alla funzione esimente che è oggi prevalentemente assegnata al caso fortuito nel diritto penale. In proposito, il lettore focalizzi l’attenzione sui seguenti brani: << Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti fanno applicazione dei principi penalisti di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (...). La dottrina e la giurisprudenza penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il nesso causale e che esso operasse nell’ambito della colpevolezza, quale causa di esclusione della stessa. Sennonchè, da oltre quaranta anni, la dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di esclusione del nesso causale in quanto l’art. 45 c.p., nel far seguire al verbo "ha commesso" la preposizione "per", sta ad indicare "a causa di". All’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.>>.

Occorre subito sottolineare che quest’ultima affermazione sul caso fortuito che “interrompe” (o, come si legge in altri passi, “recide”) il nesso di causalità rilevante per l’affermazione della responsabilità, denuncia una commistione concettuale fra il caso fortuito riguardato dall’art. 45 c.p. e la causa sopravvenuta indipendente di cui si occupa l’art. 41 c.p.

E’ infatti quest’ultima e non il fortuito che interrompe il nesso di causalità fra la condotta dell’agente e l’evento di reato. La causa sopravvenuta indipendente implica che un’azione od omissione idonea a causare l’eventum criminis sia compiuta dall’agente; l’evento, però, è interamente cagionato da una causa autonoma, cosicché è solo a questa e non all’agente che va riferito il fatto di reato dal punto di vista eziologico. La causa sopravvenuta, di conseguenza, interrompe, recide il nesso materiale di causalità sussistente fra la condotta e l’evento.

Il fortuito, invece, non interrompe alcunché, dato che l’art. 45 c.p. rende non punibile l’agente che abbia “commesso il fatto per caso fortuito”. La condizione per l’operare dell’esimente è che a causare l’evento di reato sia stato proprio l’agente con la sua condotta. Il fortuito, pur implicando (come la causa sopravvenuta) che una condotta sia stata posta in essere dall’agente, presuppone, all’opposto, che quella condotta non fosse idonea a determinare l’evento prima dell’intervento del fortuito stesso e che dell’evento sia divenuta la causa per l’irrompere in scena di un fattore anomalo che ha fatto scaturire dalla condotta un effetto atipico ed imprevedibile. Nella ratio dell’art. 45 c.p., il fortuito s’incunea nel normale processo dinamico di una condotta “neutra”, deviandolo nella direzione dell’evento penalmente rilevante. Pertanto, che si intenda il fortuito come elemento che incide sul nesso di causalità o sulla colpa, la sua azione si concretizza sempre nel trasformare una condotta soggettiva di per sé non idonea a produrre l’evento nel fattore che lo cagiona. Ergo, sul terreno naturalistico, il fortuito non interrompe un legame eziologico fra la condotta e l’evento, ma lo crea ex novo.

In base all’art. 45 c.p., dunque, l’esclusione della riferibilità eziologica all’agente del fatto penalmente rilevante non avviene, come per la causa sopravvenuta, in considerazione di una sopravvenuta inefficienza causale della condotta umana nella causazione del fatto, ma per la ragione opposta. L’appartenenza materiale del fatto all’agente c’è, ma è disconosciuta per una precisa scelta legislativa: quella di individuare nel fortuito il limite generale al principio della “causalità materiale” (o della “condicio sine qua non”) sancito dagli artt. 40 e 41 c.p., principio la cui applicazione porterebbe a considerare il fatto il cui verificarsi è stato influenzato dal fortuito come appartenente all’agente sul piano dell’imputazione oggettiva del reato. Detto altrimenti, la ratio dell’esimente penale costruita sul fortuito è quella di dequalificare sul piano giuridico il comportamento dell’agente che, altrimenti, si qualificherebbe, a norma degli artt. 40 e 41 c.p., come un antecedente causale del fatto, qualificando l’agente come l’autore del reato sul piano oggettivo.

Fatte queste preliminari precisazioni sulla causa di esenzione della responsabilità penale contemplata dall’art. 45 c.p. e tenendo presente che, secondo la sentenza in attenzione, l’esimente di cui parla l’art. 2051 c.c. è esattamente quella contemplata da detta norma penale nell’interpretazione oggi datane dalla dominante dottrina penalistica, la sentenza prosegue affermando: <<Poichè la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.>>.

Queste asserzioni vanno approfondite.

Nel riportato brano di sentenza si parla di un fortuito che libera il custode dalla responsabilità in quanto “recide” non il nesso causale fra il danno ed un comportamento del custode stesso, ma il nesso causale fra il danno e la cosa in sé e per sé considerata. Eppure, come s’è notato, l’esimente di cui si occupa l’art. 45 c.p., con l’escludere la responsabilità penale di chi ha “commesso” il fatto per caso fortuito, pone quest’ultimo in necessaria correlazione con un comportamento di colui al quale la responsabilità dovrebbe ipoteticamente imputarsi.

Se, dunque, si sostiene che il fortuito liberatore del custode è quello preso in considerazione dall’art. 45 c.p. e che quest’ultimo va inteso nel senso che l’esimente opera sul nesso causale e non sulla colpa, la previsione del fortuito quale causa limitatrice della responsabilità del custode può, sì, condurre a sostenere il carattere oggettivo della responsabilità stessa, ma non che il comportamento del custode sia irrilevante ai fini dell’oggettiva imputazione del danno. Se nella sentenza si professa l’irrilevanza del comportamento del custode, ciò significa che, in realtà, la Corte pensa che un comportamento di quel soggetto sia irrilevante a prescindere dal fatto che la causa di esclusione della responsabilità è data dal caso fortuito.

3. La responsabilità di mera posizione del custode: il “fatto della cosa”

Bisogna allora ritenere che dietro l’affermazione del carattere oggettivo della responsabilità custodiale c’è dell’altro oltre alla mera constatazione che la prevista esimente della responsabilità non riguarda la colpa ma il profilo oggettivo della fattispecie. Se si fosse limitata a quella constatazione, la Corte avrebbe dovuto concludere che, tolta la rilevanza dell’elemento psicologico della colpa in considerazione della particolare esimente contemplata dall’art. 2051 c.c. , la responsabilità del custode presenta, per il resto, i caratteri della fattispecie-archetipo di responsabilità civile tratteggiati dall’art. 2043 c.c. L’operazione della Corte, invece, è quella di adattare l’odierna nozione penalistica di caso fortuito ad un modello di responsabilità civile che essa già a priori considera differente da quello delineato dall’art. 2043 c.c.; questo perché la Corte ritiene che la responsabilità ex art. 2051 c.c. sia di per sé strutturata sulla base di un criterio dell’imputazione oggettiva del danno al responsabile che diverge dal criterio generale stabilito dalla suddetta norma-archetipo, per la quale il danno si imputa al responsabile oltre che in ragione della colpa anche in ragione di una qualche condotta del responsabile che abbia oggettivamente contribuito a causare il danno stesso. Il criterio dell’imputazione oggettiva al custode della responsabilità, invece, prescinderebbe dalla necessaria dipendenza del danno da un fatto di cui il custode sia stato il materiale autore sul piano eziologico: << La responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa>>.

Nella visione della Corte, il custode risponde del danno della cosa per il solo fatto di esserne il custode. Si tratterebbe, dunque, di una responsabilità di “mera posizione”, ossia di un modello d’imputazione personale del danno che si fonda su pure e semplici relazioni di fatto o di diritto intercorrenti fra il soggetto responsabile del danno e le persone o le cose cui il danno si imputa materialmente. La responsabilità non solo è disancorata dalla colpa di chi deve sopportare il costo del danno provocato da altri o di cui sia fonte un’entità puramente oggettuale, ma astrae dalla stessa necessità di appartenenza del danno al responsabile sotto il profilo oggettivo, non richiedendosi per l’imputazione che il responsabile abbia contribuito al verificarsi del danno con un qualche contegno, sia pure solo occasionante.

Dal momento che la ragione per cui si afferma l’irrilevanza del comportamento del custode non si desume dall’essere il caso fortuito la causa di esonero della responsabilità, tale ragione dev’essere ricercata altrove. E questa indagine deve prendere le mosse da una precisa affermazione contenuta nella pronuncia giurisdizionale in disamina, ossia quella secondo cui ciò che unicamente rileva ai fini dell’imputazione di responsabilità al custode è il “fatto della cosa” e non quello del custode: <<Solo il "fatto della cosa" è rilevante e non il fatto dell’uomo.>>.

Che mai deve intendersi per “fatto della cosa”?

Gli oggetti non determinano modificazioni fisiche della realtà, a meno che fattori esterni non imprimano loro il dinamismo necessario perché ciò avvenga. Il danno di cui si occupa l’art. 2051 c.c. non è mai un “fatto della cosa”, ma il frutto dell’interazione di fattori causali interni ed esterni alla cosa e che possono essere tanto di origine umana che naturale.

La sentenza in osservazione, in realtà, richiamandosi a “le fait de la chose” di cui parlava il Code Napoleon a proposito della responsabilità del custode, con quella sintesi verbale vuole sottintendere che il custode risponde del danno che la cosa produce quali che siano le cause che hanno reso la cosa nociva. La circostanza che fra le cause del danno vi sia o non vi sia il “fatto dell’uomo”, ossia il comportamento del custode, è influente tanto ai fini di affermare quanto di negare la sua responsabilità.

Sennonché, nessuno in passato ha mai messo in dubbio che nella responsabilità custodiale solo il “fatto della cosa” e non quello del custode ha importanza. Però, “le fait de la chose” non è stato inteso come sembra intenderlo la Corte, ma come il danno che la cosa in custodia produce per cause diverse dall’uso nocivo che il custode stesso ne abbia fatto (il custode di un’arma da fuoco non risponde del fatto della cosa ma del fatto proprio se spara e colpisce qualcuno). Il “fatto della cosa” si identifica in negativo, ossia per ciò che non è rispetto al “fatto dell’uomo”, il quale ultimo è il danno che si verifica in quanto il custode ponga in essere una condotta che ha concretato la causa efficiente del nocumento scaturito dalla res.

Ma che il fatto della cosa si distingua dal fatto dell’uomo, inteso nel senso appena precisato, non obbliga a concludere che dietro il danno prodotto dalla cosa non possa esservi ugualmente un fatto dell’uomo-custode di altro genere. Nell’eziologia del “fatto della cosa” un fatto del custode diverso dalla condotta direttamente causativa del danno è perfettamente concepibile in termini di contributo “mediato” alla produzione del fatto dannoso, contributo fornibile attraverso una condotta semplicemente occasionante del pregiudizio, cioè un comportamento commissivo od omissivo che abbia consentito ad altri agenti causali di esercitare sulla cosa il dinamismo fisico che l’ha resa veicolo del danno. Ed è esattamente in questo modo che il “fatto della cosa” è stato inteso per lustri, nell’alveo di un ordinamento giuridico che, come il nostro, è storicamente ancorato al basilare principio di civiltà del diritto per cui “nulla poena sine culpa” e dove, nel dubbio interpretativo, ogni fattispecie di responsabilità per la quale sia possibile scorgere una rilevanza dell’elemento soggettivo della colpa è risolto in senso favorevole all’imputabilità del danno per colpa.

4. Inquadramento storico-sistematico dell’art. 2051 c.c.

Anche se la ricostruzione della fattispecie in termini di imputazione colposa del danno al custode sembra effettivamente ostacolata dalla previsione normativa del fortuito quale causa di esclusione della responsabilità (conclusione alla quale, peraltro, può giungersi a condizione di ritenere che il fortuito operi sul nesso di causalità e non sulla colpa), nulla ostacola la possibilità, seppur in una prospettiva esclusivamente oggettivistica della responsabilità, di conferire rilevanza all’obiettivo contributo occasionante dato dal custode nella causazione del danno della cosa . Via la colpa, resta il “nudo e crudo” contributo causale del custode come elemento di qualificazione della sua responsabilità.

In effetti, l’esegesi storico-sistematica della fattispecie non evidenzia credibili appigli per affermare che la responsabilità di cui si discorre debba prescindere dall’ordinario criterio della riferibilità causale del danno ad un comportamento del responsabile.

L’antecedente transalpino rappresentato da “le fait de la chose”, richiamato nella sentenza in esame quale prova storica dell’irrilevanza del comportamento del custode, assume scarsa pregnanza in un ordinamento che, come il nostro, tradizionalmente rifiuta l’idea che la responsabilità per fatto illecito possa essere sganciata dalla violazione di un qualche dovere di agire affinche il fatto non si abbia. Il Code Napoleon indubbiamente parlava di un “fait de la chose” del quale i cittadini dovevano rispondere in quanto la “chose” fosse loro affidata in custodia; ed è altresì un dato di fatto che questa impostazione è stata recepita dal codice civile del 1865. Ma il vigente codice civile del 1942, col prevedere il limite del fortuito per la responsabilità custodiale, ha inteso introdurre un temperamento ad una fattispecie che il previgente codice sembrava delineare alla stregua di una responsabilità di pura posizione. Del resto, deve indurre a riflettere il fatto che, laddove il codice del ’42 ha inteso costruire un siffatto tipo di responsabilità in casi specifici (es. artt. 2049 e 2050 c.c.), non ha previsto alcuna causa di esonero; sicché, laddove ha invece introdotto espressamente cause di esonero, si ha argomento per ritenere che non abbia voluto configurare responsabilità di mera posizione.

Ma che l’original intent dell’art. 2051 c.c. non fosse quello di prevedere una fattispecie di responsabilità oggettiva e, tanto meno, di mera posizione è attestato dalla banalissima osservazione che, quando il vigente codice civile fu varato, il caso fortuito era concepito quale causa di esclusione della responsabilità operante non sul nesso di causalità ma sulla colpevolezza. In armonia con questo original intent, dottrina e giurisprudenza del secondo dopoguerra hanno considerato la responsabilità del custode fondata sulla colpa presunta, intendendo il fortuito liberatore come lo si intendeva allora, ossia l’accadimento che, pur causando il danno grazie al concorso causale del custode, esclude la possibilità di rimproverare al custode l’inosservanza del dovere di evitare il fatto fonte della responsabilità. Oltretutto, è francamente arduo supporre che il Legislatore, nel mentre prevedeva una causa di esenzione della responsabilità identificandola nella irregolarità del modo in cui la cosa produce il danno, intendesse strabicamente individuare un criterio d’imputazione di quella responsabilità imperniato sulla sola posizione custodiale, criterio in relazione al quale non assume alcun rilievo chi e cosa abbia portato la res a generare il danno e se questo si sia generato per cause normali o anormali.

Del resto – come s’è già rilevato – non a più fruttuosi risultati esegetici conduce l’applicazione alla fattispecie della moderna teoria del fortuito fatta propria dalla Suprema Corte (quella secondo cui il fortuito incide sul nesso di causalità e non sulla colpa), stante che anche questa visione dell’ esimente considerata postula un inscindibile collegamento logico-funzionale del fortuito con una condotta causalmente significativa del custode. L’art. 45 c.p. – lo si è rimarcato e lo si ribadisce – esonera dalla responsabilità l’agente quando a causare l’evento per caso fortuito sia stato l’agente stesso e non fattori umani o naturali estranei alla sua sfera comportamentale: “Non è imputabile chi ha commesso il fatto per caso fortuito”.

5. L’emersione in via interpretativa della colpa come elemento qualificante della responsabilità

Ma è lo stesso significato che si dà all’art. 2051 c.c. per effetto del nuovo modo di concepire il fortuito a non trovare una congrua giustificazione. Se, come si è osservato, il Legislatore ha inteso limitare la responsabilità del custode richiamandosi ad una causa di esonero che esso intendeva riferita all’elemento psicologico dell’illecito civile, la ratio legis di quella limitazione afferisce alla colpa del custode e non al nesso causale fra il danno e la cosa; e poco o nulla comporta che il significato successivamente assunto negli ambienti gius-penalistici dalla causa di esenzione richiamata dall’art. 2051 c.c. non sia più quello che le era attribuito nel 1942.

Infatti, se l’interprete della legge “non può attribuire ad essa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12 Prel.), il significato proprio delle parole “caso fortuito”, in pieno accordo con l’intenzione del Legislatore, vieta di interpretare la norma come un’ipotesi di responsabilità che prescinde dalla colpa del custode. Questo perché l’attribuzione ad un testo di legge di significati diversi da quello corrente all’epoca dell’approvazione è operazione autorizzata a patto che il senso originario delle espressioni lessicali non si accordi più col mutato contesto normativo in cui la disposizione continua ad operare, oppure quando, per effetto di nuovi fenomeni e problematiche socio-politiche collegati all’applicazione della norma, il contenuto semantico di essa necessiti di essere inteso secondo un differente significato pur sempre ritraibile dal suo tenore letterale.

Ma, nel caso dell’art. 2051 c.c. quali sopravvenute modifiche del contesto normativo o nuove esigenza socio-politiche giustificano un’interpretazione evolutiva nei sensi illustrati?

Sul versante del contesto normativo non sono intervenute modifiche che abbiano inciso negativamente sull’applicabilità della disposizione codicistica secondo l’originario significato; e tanto meno si sono imposte esigenze d’ordine socio-politico che richiedano un adeguamento semantico nel modo di intendere l’espressione “caso fortuito”, visto che, con riguardo alla responsabilità custodiale, non si sono nel tempo evidenziate specifiche problematiche di rilevanza civile e sociale che inducano a ritenere necessario elevare il livello di responsabilità del custode attraverso l’attribuzione di un diverso significato alla suddetta espressione. Nei particolari casi in cui la responsabilità da custodia è apparsa inadeguata così come genericamente disciplinata dall’art. 2051 c.c., il Legislatore, sia nella stessa fase di redazione del codice civile che con interventi successivi, ha avuto cura di stralciare fattispecie ad hoc di responsabilità per danni provocati da particolari categorie di beni oggetto di custodia e/o di custodi; sicché, nei residuali casi aspecifici disciplinati dalla norma codicistica in questione non si pongono esigenze di sue riletture suggerite dalla necessità di adeguarne il significato a nuovi assetti normativi o all’emergere di nuovi bisogni socialmente diffusi.

D’altra parte, è singolare notare come, nel contesto di successive pronunce, la stessa Sezione della Corte che così fermamente persegue e calorosamente perora l’orientamento giurisprudenziale in disamina mostri i segni di una certa difficoltà ad orientarsi al di fuori dei territori della tradizionale colpa presunta del custode. Si prenda la sentenza n° 20415/09, dove il Collegio ha applicato gli stessi enunciati che si leggono nell’arresto alla presente attenzione ad un caso di danno derivato a persona che si era arrampicata all’incontrario sullo scivolo di un parco-giochi a causa di una malformazione dello scivolo stesso. Là si ha modo di leggere che: <<… poiché funzione dell’art. 2051 cod. civ. è di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi ad essa inerenti … il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso improprio - da parte del terzo o del danneggiato - della cosa si arresta soltanto al caso in cui la pericolosità dell’anomala utilizzazione di essa, intesa come fattore causale esterno, sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, da renderla del tutto imprevedibile e perciò inevitabile>>; e si legge altresì che spettava al custode dello scivolo <<…dimostrare che … l’evento non era evitabile mediante l’adozione di opportune cautele, come ad esempio il divieto di tale uso improprio, ovvero il rivestimento dei tubolari sottostanti la lamiera con materiale di gomma o comunque non tagliente.>>. Ma come??? Si proclama l’irrilevanza del comportamento del custode e si parla di un suo“dovere” di evitare il danno che si arresta solo innanzi al fortuito nonché di “opportune cautele” che il custode, per andare esente dalla responsabilità, dovrebbe dimostrare di aver assunto al fine di prevenire il fatto?

A conti fatti, dunque, come abbiamo visto, dall’analisi esegetica condotta intorno all’art. 2051 c.c. non sortiscono ragioni che conducano ad affermare che la responsabilità del custode deve prescindere dal comportamento dello stesso nella vicenda causativa del danno di cui è responsabile. Per converso, quella disamina fa emergere consistenti prove del fatto che la responsabilità custodiale non può concepirsi alla stregua di un addebito avulso non solo dalla suitas oggettiva (condotta causativa del custode) ma anche soggettiva (colpa) che lega il danno a chi deve pagarne il costo.

E, allora, come si giustifica la tesi (in via di galoppante consolidamento giurisprudenziale) secondo cui la fattispecie si qualifica alla stregua di una responsabilità oggettiva e, per di più, di “mera posizione”del custode?

6. Le basi metagiuridiche della supposta responsabilità di mera posizione del custode

Più teorie si sono succedute con l’intento di munire di giustificazione questa prospettiva interpretativa: << La ratio dell’accollo del costo del danno al custode>> si legge nella sentenza in analisi <<non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Esso fu individuato nella “deep pocket” (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella “richesse oblige”, nella tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della “cost-benefit analysis”, per cui doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.>>.

Per un verso, l’estensione al campo della responsabilità da custodia delle teorie della deep pocket e della richesse oblige poggia sul grossolano ed aberrante equivoco che il custode sia assimilabile al “ricco capitalista” al quale è socialmente giusto addossare i costi economici dei rischi che crea nel lucrare dal proprio potere di organizzazione e sfruttamento dei beni materiali a sua disposizione. Ovvietà richiederebbe di tralasciare ogni considerazione in proposito, tant’è evidente che nella condizione soggettiva presa in considerazione dall’art. 2051 c.c., volenti o nolenti, ci troviamo costantemente immersi tutti noi e ciò per il semplice fatto di possedere un qualsivoglia oggetto potenzialmente produttore di danno e, peraltro, senza lucrare alcunché da tale situazione ovvero ricavandone vantaggi di entità tale da non giustificare minimamente un simile innalzamento del livello di responsabilità.

Per altro verso, quelle tesi appaiono perfino preferibili a certi loro “più moderni affinamenti”, ai quali pure fa cenno la pronuncia giurisdizionale attenzionata e che individuano il nucleo fondante della responsabilità di posizione del custode nel fatto che, in virtù della stessa posizione, egli può scegliere se agire o non agire in modo da evitare che la cosa sia fonte di danno. L’incoerenza di questa premessa giustificativa rispetto a ciò che con essa si vuole dimostrare è addirittura sconcertante: al custode il danno deve essere accollato a prescindere da cosa abbia o non abbia fatto per evitarlo, ma si individua la ragione di tale accollo nel fatto che il custode deve sopportare il danno perché ha deciso di non adottare le misure che lo avrebbero evitato. In parole povere, il succo del discorso è più o meno questo: “Caro custode, visto che sei nelle condizioni di evitare che la cosa provochi danni, di questi devi rispondere perché non hai scelto di agire in modo da evitare il danno prodotto dalla cosa; se poi hai fatto quanto di meglio per evitarlo ma esso si è ugualmente verificato, beh....ti arrangi e paghi lo stesso!”. Oltretutto, gli argomenti che dovrebbero convincere del fatto che si tratta di responsabilità oggettiva pongono in luce come l’elemento determinante che dovrebbe giustificare il carattere oggettivo della responsabilità è individuato in un aspetto che connota tipicamente ed esclusivamente la responsabilità per fatto colposo: l’avere il responsabile scelto di agire in modo da non evitare il danno.

V’è poi chi, volendo spiegare perché il custode deve rispondere “a prescindere”, va a scomodare il dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., compiendo, né più né meno, che un’operazione di mero maquillage delle suddette teorie applicative dei principi della deep pocket e della richesse oblige. Del resto, i caldeggiatori dell’idea che sul custode debba gravare il rischio di posizione imposto da quel dovere, oltre a non considerare la strutturale assenza, nella fattispecie, dei pre-requisiti eticamente e socialmente richiesti perché tale rischio valga a fondare un’imputazione di responsabilità per i danni che ne sono manifestazione (su tale aspetto ci si intratterrà maggiormente al termine del presente scritto), non sanno spiegare il perché questo rischio, ad esempio, dovrebbe gravare sul quivis de populo per i danni che potrebbero provocare i pur modestissimi beni personali da lui posseduti (ogni oggetto è potenziale fonte di danni) e non grava sull’imprenditore che organizza e gestisce redditizie attività pericolose, posto che costui, a mente dell’art. 2050 c.c., non risponde per la propria posizione ma per colpa presunta, ossia qualora non provi di avere tenuto il comportamento che avrebbe evitato il pregiudizio derivato dallo svolgimento dell’attività pericolosa o dai mezzi impiegati. Vero è che la ratio della prevista responsabilità per colpa e non oggettiva di costui risiede nella valutata opportunità di non inibire eccessivamente lo stimolo verso lo svolgimento di attività socialmente utili anche se pericolose; ma è altrettanto vero che se il criterio della colpa denota la responsabilità per i danni provocati da oggetti latori di elevate potenzialità di rischio, un’interpretazione razionale del sistema obbligherebbe a ritenere che il criterio della colpa non può che denotare anche il livello della più generica responsabilità ex art. 2051 c.c., la quale, per esclusione, copre i rischi correlati alla custodia di cose meno pericolose di quelle prese in considerazione dall’art. 2050 c.c.

7. Considerazioni finali

La verità è che, per chi da tempo teorizza ed auspica un generalizzato superamento del tradizionale schema che vuole la responsabilità civile fondarsi sulla violazione di un dovere, non c’è spazio per altre ragioni se non per quelle di chi subisce il danno: chi subisce il danno è il “soggetto debole” e va ad ogni costo ristorato da qualcuno, a prescindere da come questo qualcuno abbia agito in relazione al verificarsi del danno; il risarcimento del danno non deve più essere visto come una sanzione inflitta al danneggiante che ha violato il dovere di non nuocere ai propri simili, ma come un “costo sociale” comportato dal puro fatto che ci si trova in una data relazione con le persone o i beni che sono la fonte immediata del danno del quale si risponde. Il costo del danno deve essere posto a carico del responsabile non perché sia iniquo che il terzo sopporti un danno che non vi sarebbe stato se il responsabile avesse osservato le regole che doveva osservare per evitarlo, ma perché vi sono trascendenti ragioni etico-sociali che rendono giusto ed opportuno individuare a priori il “soggetto forte” che sempre e comunque quel costo deve sopportare perché il danno non resti a carico del danneggiato “soggetto debole”.

Tralasciando ogni considerazione sul grave significato involutivo che una simile unilateralizzazione degli interessi del danneggiato riflette sul piano antropologico e della civiltà del diritto; e tacendo pure dei devastanti effetti pratici che una tale visione della responsabilità civile si candida a legittimare cancellando la funzione autoresponsabilizzante che da sempre è svolta dalla colpa come criterio di imputazione della responsabilità, ci sono, comunque, un paio di “dettagli” che ostacolano un approccio alla fattispecie contemplata dall’art. 2051 c.c. da parte di quella concezione della responsabilità civile.

Il primo lo si rinviene nel fatto che, in rapporto alla responsabilità in argomento, non sono in alcun modo individuabili a priori figure corrispondenti al “soggetto forte” ed al “soggetto debole”. La responsabilità custodiale non vede quali strutturali ed invariabili parti coinvolte nelle vicende di danno un soggetto “forte” (il custode) ed uno “debole” (il danneggiato); per intenderci, mutatis mutandis, non si ha per il custode ed il danneggiato dalla cosa un qualcosa di simile a quanto accade, ad esempio, per le figure del datore di lavoro e del lavoratore subordinato, che possono in ogni caso considerarsi, rispettivamente, soggetto “forte” e “debole” del reciproco rapporto giuridico-economico. Si è più sopra notato che custodi di qualcosa lo siamo indiscriminatamente tutti, senza distinzione di classe sociale, di condizione personale, di sesso, razza ecc…. Cosicché, la responsabilità custodiale è caratterizzata, quanto alla tipologia del soggetto danneggiante e di quello danneggiato, dalla massima trasversalità possibile. Può quindi accadere che nella singola vicenda assuma le vesti di custode l’imprenditore che gestisce e controlla i beni aziendali da cui il danno deriva, così come accade che in quel ruolo ci capiti il classico “povero Cristo” chiamato a rispondere del danno cagionato da un qualsivoglia bene di comune uso personale.

L’altro motivo ostativo – forse il più pregnante – sta nel fatto che la teoria della responsabilità di posizione poggia – dal punto di vista etico, politico e sociale – sull’idea che l’imputazione di responsabilità ad un soggetto si colleghi ad una consapevole scelta di costui di assumere, con tutti i suoi “pro” ed i suoi “contro”, la posizione normativamente responsabilizzante. E se, come di continuo ribadisce la stessa Corte, la relazione di custodia fra un individuo ed un bene materiale è relazione di puro fatto che prescinde dall’assunzione da parte del soggetto di un obbligo specifico di custodire beni materiali, ciò vuol dire che non solo il venire in essere di quella relazione prescinde in re ipsa da ogni rilevanza giuridica di eventuali scelte che il custode abbia potuto compiere nei precisati sensi, ma che la stessa relazione può finanche essere subita dal custode in forza di un’imposizione legale, come per esempio accade all’ente pubblico rispetto a certi beni pubblici affidatigli in cura o che gli appartengono ope legis.

Non è da escludere che l’intento di ricostruire il criterio d’imputazione del danno della cosa intorno alla pura e semplice posizione del custode tragga spinta motivazionale dall’esigenza di superare nei soli confronti dei custodi “soggetti forti” il criterio ancorato alla suitas soggettiva ed oggettiva del danno. Ma, come tutti intendono, una volta ancorato alla mera posizione custodiale quel criterio, esso non può che rimanere fissato per tutti i custodi, unica essendo la norma che regola la responsabilità del custode ed unica dovendo essere la sua interpretazione per tutti ed in tutti i casi. Sicché, volendo colpire il custode “forte” per proteggere il danneggiato “debole”, si colpisce il custode “debole” proteggendo il danneggiato “forte” le volte che il destino decida di invertire le parti della commedia.