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La riforma del Codice della proprietà industriale

Il 30 luglio 2010 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo di revisione del Codice della Proprietà Industriale, di cui si attende ora la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale: centotrenta articoli, che vanno ben al di là di un semplice decreto correttivo, ma delineano un vero e proprio “nuovo” Codice, caratterizzato da un approccio realistico, che tende a commisurare la protezione dei diritti di proprietà industriale a ciò che ciascuno di essi rappresenta sul mercato e, prima ancora, nel “mondo della vita”, delineando in questo modo un equilibrio tra esclusive e concorrenza, che si distacca decisamente dall’impostazione “proprietaria” a cui la Relazione al testo originario del Codice dichiarava di ispirarsi.

Il rinnovo della delega per la revisione del Codice della Proprietà Industriale era stato operato dall’art.19, comma 15 della legge n. 99/2009, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso ed entrata in vigore il successivo 15 agosto, così riattivando il processo che si era interrotto nel 2006 per l’aggiornamento del C.P.I., previsto già al momento del suo varo (dall’art. 2 della legge n. 306/2004), sulla base dell’idea era cioè che il nuovo Codice avesse un anno di «rodaggio», per verificare se erano necessari mutamenti o adattamenti.

È stata così nuovamente insediata una Commissione di esperti, della quale, come già in quella nominata nel luglio 2005, sono stato anch’io chiamato a fare parte, e che ha rapidamente predisposto una bozza di decreto correttivo, sottoposto all’esame dei Ministeri ed delle Associazioni di categoria competenti e poi al Consiglio di Stato e alle competenti Commissioni parlamentari, per giungere infine – con alcuni cambiamenti, i più significativi dei quali sono stati l’inserimento di una nuova previsione sulla protezione del diritto d’autore sulle opere del design ed invece la cancellazione della norma predisposta dalla Commissione sulle invenzioni universitarie, la cui disciplina è stata quindi lasciata immutata – all’approvazione finale.

Le linee di base del lavoro della Commissione

Il testo del decreto era stato predisposto prendendo come punto di partenza il testo elaborato dalla Commissione insediata nel 2005, che già allora non si limitava alla correzione degli errori materiali contenuti nel Codice ed al recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice (ed in particolare della priorità interna, nel frattempo direttamente introdotta dalla legge n. 99/2009), ma aveva operato un approfondito ripensamento delle norme del Codice.

In effetti il lavoro della Commissione del 2005 si era concentrato su quattro filoni:

a) la correzione degli errori materiali e dei difetti di coordinamento, presenti specialmente tra le norme dedicate alla procedura di registrazione, inevitabili in un testo di 246 articoli che prendeva il posto di 35 diversi testi legislativi;

b) il recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice, ed in particolare della priorità interna e della nuova disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari;

c) una serie di aggiustamenti diretti a chiarire alcune disposizioni ambigue;

d) infine, la revisione vera e propria, nella prospettiva di rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, considerata elemento chiave per la competitività dell’«azienda Italia».

Quest’ultima prospettiva è stata alla base anche del lavoro svolto dalla nuova Commissione, che ha cercato di sfruttare nel modo migliore l’indicazione contenuta nella legge delega che indicava tra i criteri da seguire quello di “armonizzare” il nostro ordinamento alla disciplina “comunitaria ed internazionale”; ed in seno alla Commissione ho molto insistito sul fatto che la delega ha precisato che questa armonizzazione andava effettuata “in particolare con quella (normativa) intervenuta successivamente all’emanazione del medesimo codice”, il che implicava che anche la disciplina comunitaria e internazionale preesistente al Codice potesse essere utilizzata, e questo è appunto ciò che si è cercato di fare.

Aggiungo ancora che il mio sforzo è stato anche quello di valorizzare le linee di tendenza emerse in questi anni a livello comunitario e internazionale, che, in evidente contrasto con le tendenze neo-protezioniste presenti anche nella legge n. 99/2009 (ad esempio con l’assurda disciplina di marchi e Made in Italy, poi modificata, ma sempre in modo estremamente carente, e portata al parossismo con la legge n. 55/2010, c.d. Reguzzoni-Versace, non a caso già censurata in szede comunitaria), registrano la positiva evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale verso un approccio realistico e concreto alla protezione di essi, fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova tra l’altro una precisa base normativa proprio nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

I criteri della delega e la loro interpretazione

Naturalmente in questa impostazione è stato necessario fare i conti con gli altri criteri della legge delega, alcuni dei quali (in particolare quello verso la semplificazione e quello che consentiva di agire anche sulle norme processuali) andavano appunto in questa direzione; mentre altri apparivano più stringenti e tali da lasciare alla Commissione una ridotta libertà di movimento. Mi riferisco in particolare ai criteri di cui alle lettere b (nella parte in cui dispone di “definire le sanzioni da applicare in caso di violazione delle disposizioni recate in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche”), d (che prescrive che “nel caso di invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca, l’università o l’amministrazione attui la procedura di brevettazione, acquisendo il relativo diritto sull’invenzione”) ed e (in base al quale deve essere riconosciuta “ai comuni la possibilità di ottenere il riconoscimento di un marchio e utilizzarlo per fini commerciali per identificare con elementi grafici distintivi il patrimonio culturale, storico, architettonico, ambientale del relativo territorio” e in tal caso “lo sfruttamento del marchio a fini commerciali può essere esercitato direttamente dal comune anche attraverso lo svolgimento di attività di merchandising, vincolando in ogni caso la destinazione dei proventi ad esso connessi al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura dei disavanzi pregressi dell’ente”).

Anche nell’attuazione di questi criteri si è privilegiato un approccio realistico, che eliminasse o comunque riducesse, per quanto possibile, le contraddizioni con l’impostazione sistematica che si è voluto dare al Codice. Tuttavia da essi non è stato possibile discostarsi, giacché rappresentavano un passaggio obbligato e ineludibile, anche per evitare rischi di incostituzionalità per eccesso di delega, che minerebbero la certezza del diritto e che sono stati tenuti ben presenti, anche sulla base dell’esperienza fatta con il Codice.

I punti qualificanti della riforma del Codice:

1. Marchi e altri segni distintivi

Naturalmente è difficile riassumere in questa sede tutto il lavoro che è stato svolto, della cui intensità fa fede la circostanza che esso ha interessato la metà degli articoli del Codice, che ne esce dunque profondamente rinnovato. E dunque mi soffermerò soprattutto sulle disposizioni più significative dal punto di vista sistematico, e quindi in grado di riverberarsi anche sull’interpretazione delle norme non interessate dalle modifiche operate.

In quest’ultima prospettiva, in particolare, le novità apportate dal Codice al diritto dei segni distintivi si caratterizzano per una forte attenzione a ciò che questi segni rappresentano nella realtà di mercato, come elementi cardine della comunicazione d’impresa, e più in generale nel “mondo della vita”. Nel loro complesso le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.

Appunto in questa chiave, particolarmente significativa, è la previsione espressa dei «nomi a dominio di siti usati nell’attività economica» come oggetto di possibile protezione (ma anche di possibile interferenza con altrui diritti di marchio, ditta o insegna), sostituendo l’ambigua definizione precedente di «nomi a dominio aziendali». L’espressione scelta riprende quella usata all’art. 20 C.P.I. per definire l’ambito di protezione dei marchi e rende quindi evidente che la protezione riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato per finalità economiche, anche al di fuori di un’attività d’impresa.

Su questa base, in un caso famoso, la nostra giurisprudenza ha tutelato uno dei più famosi marchi di luxury goods del nostro Paese contro l’uso non autorizzato di esso come pseudonimo di un’attrice pornografica su calendari e per realizzare film e spettacoli erotici, ritenendo che tale uso sfruttasse indebitamente (e pregiudicasse, infangandoli) il “messaggio” di raffinatezza ed eleganza collegato a tale marchio. Applicata ai domain names, questa regola permetterà di contrastare i fenomeni di sfruttamento parassitario di altrui marchi famosi anche attraverso l’adozione di segni eguali o simili ad essi come nomi a dominio non autorizzati o come metatags, per promuovere la visita al proprio sito come veicolo per la vendita di prodotti contraffatti o anche solo per inserirvi a pagamento links o banners, avvantaggiandosi indebitamente della reputazione dei marchi imitati.

Non meno significative, sempre nella stessa chiave, sono la modifica dell’art. 8 del Codice, nel quale, oltre alla registrazione, verrà proibito anche l’uso non autorizzato dei segni notori in campo extracommerciale, appunto per impedire l’agganciamento parassitario ad essi da parte di terzi; l’aggiunta di ogni «altro segno distintivo» all’elencazione di segni che possono interferire con il marchio (e con cui il marchio può interferire) contenuta nell’art. 22 C.P.I. rubricato «Unitarietà dei segni distintivi»; e la previsione espressa, all’art. 30, della protezione delle indicazioni geografiche contro ogni uso non autorizzato di esse che «consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta», e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario, come già oggi è previsto da un Regolamento comunitario per DOP e IGP del settore agroalimentare.

Le nuove norme tendono dunque a valorizzare sempre di più la percezione del pubblico come elemento decisivo, sia per stabilire se un segno è tutelabile, sia per delimitarne l’ambito di tutela, offrendo alle imprese nuovi strrumenti di business e una protezione più efficace contro le forme più moderne e insidiose della contraffazione.

2. I brevetti e EPC 2000 – I segreti industriali e commerciali

Il settore dei brevetti, e in generale della protezione dell’innovazione tecnologica, è uno di quelle nelle quali si può maggiormente apprezzare come la revisione del Codice della Proprietà Industriale non si sia limitata ad una semplice correzione, ma si sia mossa nella prospettiva di porre le basi di una crescita del nostro Paese in questo campo, decisivo per la competitività delle nostre imprese.

La revisione si è così ispirata in larga misura alla più recente versione della Convenzione sul Brevetto Europeo, EPC 2000, nella prospettiva di evitare, per quanto possibile, ogni discriminazione tra il trattamento dei brevetti nazionali e di quelli europei. Particolarmente qualificanti, in questa prospettiva, appaiono l’inclusione nella nostra legge della nuova disposizione del protocollo interpretativo di EPC che precisa i limiti di applicazione della nozione di equivalenza, sulla quale la nostra giurisprudenza aveva manifestato pericolose incertezze, e la previsione espressa della possibilità per il Giudice di riformulare le rivendicazioni, naturalmente solo a istanza del titolare e purché le rivendicazioni riformulate si presentino “in una forma più ristretta che rimanga entro i limiti del contenuto della domanda di brevetto quale inizialmente depositata”, e cioè sostanzialmente entro i limiti in cui EPC ammette il ricorso alla procedura di limitazione. La centralità delle rivendicazioni nell’interpretazione del brevetto corrisponde infatti all’impostazione dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, imperniata sul cosiddetto problem-solution approach, nel senso di obiettivare e ancorare alla realtà la valutazione dei requisiti per l’accesso alla protezione, ma in pari tempo di commisurare questa protezione a quanto il richiedente ha effettivamente fatto oggetto della sua domanda.

Per i segreti industriali e commerciali, la riformulazione operata della norma la ha messa anche formalmente in linea con il TRIPs Agreement, superando le interpretazioni devianti (e in realtà manifestamente erronee anche in riferimento al testo vigente, proprio perché incompatibili con il TRIPs Agreement, che costituiva comunque un vincolo per l’interprete), che sembravano dare ad essi una tutela “assoluta”, e non – come ora si è precisato – limitata alle ipotesi in cui l’acquisizione del segreto sia avvenuta mediante un’intrusione (“in modo abusivo”) nella sfera di riservatezza del legittimo detentore del segreto stesso.

Anche in materia di invenzioni biotecnologiche, l’incorporazione del Codice delle norme adottate frettolosamente nel 2006 con un decreto legge sotto la pressione di una procedura d’infrazione comunitaria ha rappresentato l’occasione non solo per eliminare duplicazioni di norme che potevano determinare incertezze interpretative, ma anche per rendere chiaro il carattere facoltativo della presentazione all’Ufficio di dichiarazioni sulla provenienza del materiale biologico utilizzato per l’invenzione, che nessun altro Paese europeo richiede. Si è altresì curato che le sanzioni che la delega imponeva di inserire per le violazioni in questo campo non incidessero sulal validità del brevetto, ma dessero luogo soltanto ad illeciti amministrativi.

Un’occasione perduta (anche per il finanziamento della ricerca) ha invece rappresentato la scelta politica del Governo di disattendere la delega, nella parte in cui essa imponeva di restituire alle Università e alle altre istituzioni pubbliche di ricerca la titolarità delle invenzioni realizzate dai loro ricercatori, che era stata loro tolta nel 2001; è però almeno rimasta la regola introdotta nel 2005 che consente alle Università di disporre di queste invenzioni in caso di ricerche finanziate da terzi, per non scoraggiare le sinergie tra pubblico e privato particolarmente importanti in questo campo.

La Commissione aveva invece interpretato questa delega nel modo che era parso più rispondente alle esigenze della pratica, e cioè in buona sostanza ritornando alla regola generale, con le sole eccezioni che derivano dal fatto che le Università e le istituzioni pubbliche di ricerca non hanno un diretto interesse a sfruttare le invenzioni in regime di segreto e possono incontrare vincoli di bilancio che sconsigliano in determinati casi di procedere alla brevettazione: anche se, con una norma programmatica più che precettiva, esse venivano invitate a operare, se del caso consorziandosi (e il pensiero corre inevitabilmente a iniziative come Netval), in modo da essere in grado di far sfruttare i loro brevetti. Non si era invece inteso la norma come un obbligo per le Università di brevettare, che sarebbe stato eversivo del sistema e irrispettoso della loro autonomia. Ma tutto questo, come dicevo, è stato espunto all’ultimo momento dal testo della revisione.

Sempre in materia di invenzioni dei dipendenti, certamente farà discutere la scelta – peraltro costituzionalmente doverosa – di equiparare brevettazione e sfruttamento dell’invenzione in regime di segreto ai fini del riconoscimento del diritto all’equo premio al dipendente-inventore. I criteri per la determinazione dell’equo premio sono stati peraltro chiariti e resi concretamente applicabili, nel solco dell’insegnamento della migliore giurisprudenza.

E questo è in effetti il nucleo della riforma: il nuovo Codice si caratterizza per un approccio realistico al diritto dei brevetti, che unito alle novità processuali dirette a facilitare la protezione e ad incoraggiare il ricorso a soluzioni transattive delle controversie, potrà consolidare i positivi risultati già raggiunti dalla nostra giurisprudenza più recente, convincendo anche le nostre imprese che la brevettazione paga.

3. Le novità processuali: semplificazione ed efficacia della tutela

Le novità processuali contenute nella revisione del Codice possono riassumersi in quattro linee guida: maggiore facilità nell’ottenere misure d’urgenza contro i contraffattori dei diritti di proprietà industriale, semplificazione delle procedure, efficienza e rapidità della tutela, ma anche “parità delle armi” tra chi accusa e chi si difende.

Contrariamente a quanto spesso si sente ripetere, già oggi l’Italia ha raggiunto un alto livello di efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile. Specialmente a partire dal 2003, quando sono state istituite presso 12 Tribunali e Corti d’Appello altrettante Sezioni Specializzate in Diritto della Proprietà Intellettuale, con competenza esclusiva a conoscere delle azioni civili in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e fattispecie di concorrenza sleale legate a questi diritti e alla loro violazione, nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza (inibitoria, sequestro, ordine di ritiro dal commercio), che vengono esaminate e concesse con estrema rapidità (normalmente pochi giorni, nel caso di misure a tutela di marchi e design, molto spesso concesse inaudita altera parte; pochi mesi, nel caso delle misure a tutela di brevetti, compreso lo svolgimento di una fase di consulenza tecnica nel contraddittorio delle parti), e agli strumenti di ricerca giudiziaria delle prove (ordine di descrizione).

La revisione del Codice è però intervenuta a sciogliere alcuni nodi che, in determinati casi, potevano minare questa efficienza. Tra le novità più significative in questa prospettiva si segnala anzitutto la riunificazione della competenza per l’emanazione di descrizione, sequestro e inibitoria in capo allo stesso giudice: il che implica anche il riesame delle descrizioni, come imposto dalla Direttiva n. 48/2004/C.E., la cosiddetta Direttiva enforcement. Sempre in materia di descrizione (ma anche di sequestro), la revisione del Codice ha esteso la possibilità di adottare provvedimenti cautelari inaudita altera parte (cioè senza previa convocazione del soggetto contro il quale sono chiesti), prevedendo che questa procedura debba essere seguita in tutti i«casi di speciale urgenza, e in particolare quando eventuali ritardi potrebbero causare un danno irreparabile al titolare dei diritti o quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento di descrizione o di sequestro», salvo ovviamente poi convocare l’altra parte entro 15 giorni, per il provvedimento di conferma o di revoca, così superando l’atteggiamento restrittivo che in passato era stato adottato al riguardo da alcune Sezioni specializzate.

La riunificazione della competenza su descrizione, sequestro e inibitoria cautelare ha dato anche l’occasione di chiarire che queste misure possono essere chieste congiuntamente, eventualmente l’una subordinatamente alle altre, e che in tal caso i risultati probatori della descrizione vanno valutati già nella fase cautelare (e quindi resi accessibili ai difensori e ai consulenti della parte procedente già in questa fase), superando così i dubbi interpretativi che si erano posti in dottrina al riguardo: il che consentirà alle imprese titolari dei diritti ed ai professionisti che le assistono di elaborare nuove e più efficaci strategie di tutela di questi diritti. A questo riguardo è stato anche introdotto un nuovo strumento processuale: la consulenza tecnica preventiva, utile nei casi in cui il titolare di un brevetto sia incerto sulla violazione di esso e voglia conseguire un rapido accertamento tecnico su validità e contraffazione, da utilizzare per poi agire in giudizio, ma anche per raggiungere più facilmente una transazione.

In pari tempo, però, anche chi si difende dalla contraffazione avrà a disposizione una possibilità in più: per superare le incertezze che talvolta i Giudici hanno manifestato al riguardo, è stata infatti espressamente codificata la possibilità di ottenere, anche in via d’urgenza, un accertamento di non contraffazione, utile per prevenire abusi e utilizzazioni strumentali dei diritti di proprietà industriale (e in particolare di brevetti per invenzione), frequenti particolarmente in sede penale. Sempre in materia brevettuale è stato poi chiarito (con una norma applicabile anche ai processi in corso) che in caso di azioni di nullità di brevetto è sufficiente citare il soggetto che risulta titolare del diritto e non anche gli inventori che questo diritto gli abbiano ceduto o i licenziatari, con una significativa semplificazione (e riduzione di durata e di costi) dei processi di merito in questa materia.

Si può dunque dire che con questa riforma sono state portate a compimento le innovazioni procedurali operate con successo nel 2006 con l’attuazione della Direttiva enforcement e che il processo di diritto industriale continua così la sua marcia di adeguamento verso gli standard europei.

4. L’allineamento alla Direttiva del regime transitorio delle opere del design proteggibili col diritto d’autore

Un’ultima notazione – positiva – riguarda il «famigerato» art. 239 C.P.I. sul Regime transitorio delle opere di design proteggibili col diritto d’autore. Ci sono voluti infatti nove anni e cinque successivi interventi legislativi, ma finalmente l’Italia – sotto la pressione di una causa portata da Assoluce alla Corte di Giustizia europea – ha concesso piena tutela alle opere di design coperte dal diritto d’autore contro i prodotti-copia. Con una modifica introdotta all’ultimo momento, su richiesta della Commissione Attività Produttive della Camera (e segnatamente grazie a un intervento dell’On. Torazzi, LNP), è stato possibile inserire nel decreto legislativo di revisione del Codice anche la riscrittura dell’art. 239 del Codice, stabilendo così finalmente con chiarezza che i prodotti-copia non sono legittimi, anche se a commercializzarli sono i medesimi soggetti che li producevano lecitamente prima del 19 aprile 2001, data di introduzione in Italia della protezione di diritto d’autore sulle opere di design.

La riformulazione dell’art. 239 del Codice della Proprietà Industriale era divenuta ormai indifferibile in relazione alle conclusioni recentissimamente depositate (il 24 giugno 2010, quando già lo schema di decreto legislativo era stato approntato) dall’Avvocato Generale dell’Unione Europea nella causa C-168/09, pendente avanti la Corte di Giustizia comunitaria. Tale causa ha ad oggetto la questione della compatibilità col diritto comunitario della normativa transitoria italiana sul design (contenuta appunto nell’art. 239 del Codice), che sembrava limitare la protezione di diritto d’autore sulle opere di design, consentendo ai soggetti che le imitavano prima dell’introduzione di tale protezione nel diritto italiano (a seguito dell’attuazione della Direttiva n. 98/71/CE), di continuare senza limiti di tempo questa loro attività, benché oggi essa dovrebbe ritenersi contraffattoria e quindi illecita; la questione era stata sollevata dal Tribunale di Milano su istanza di Assoluce – l’Associazione delle imprese italiane dell’illuminazione, da me assistita, che riteneva giustamente tale disciplina penalizzante per l’industria italiana del settore –, nell’ambito di un giudizio promosso dalla Flos contro la Semeraro per contraffazione della celebre lampada “Arco”, disegnata negli anni sessanta dai fratelli Castiglioni.

Già nel corso della discussione orale della causa, tenutasi il 22 aprile scorso, la Commissione Europea aveva preso posizione nel senso della contrarietà al diritto comunitario delle norme transitorie italiane contestate, anche sulla base del contrasto di esse con la Direttiva n. 2001/29/CE, che ha armonizzato a livello comunitario la normativa sul diritto d’autore, limitando la tutela dell’affidamento dei soggetti che operavano in precedenza nel regime di assenza di protezione agli atti conclusi e ai diritti acquisiti prima del 22 dicembre 2002, ed escludendo espressamente che in base al diritto comunitario potesse essere loro consentito di continuare la loro attività dopo tale data.

Le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale hanno ripreso ed ampliato queste considerazioni, giungendo ad affermare, con estrema chiarezza che «L’art. 17 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 1998, 98/71/CE, sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli, dev’essere interpretato nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro la quale preveda che i disegni e i modelli divenuti di pubblico dominio anteriormente alla data di entrata in vigore delle disposizioni nazionali di trasposizione di tale direttiva non beneficino della protezione del diritto d’autore», e che ai soggetti che già legittimamente fabbricavano questi prodotti prima dell’introduzione della protezione nel 2001 poteva essere accordato unicamente «un ragionevole periodo transitorio durante il quale… possono continuare a commercializzare detto prodotto», precisando anche che il termine di dieci anni decorrenti dal 2001 originariamente previsto dalla legge italiana era «eccessivo» e ricordando come già in relazione a tale previsione la Commissione Europea avesse avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia.

A queste indicazioni si è esattamente attenuto il nuovo art. 239 ora introdotto, che ha appunto previsto che «i terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori al 19 aprile 2001, prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno industriale allora in pubblico dominio non rispondono della violazione del diritto d’autore compiuta proseguendo questa attività anche dopo tale data, limitatamente ai prodotti da essi fabbricati o acquistati prima del 19 aprile 2001 e a quelli da essi fabbricati nei cinque anni successivi a tale data e purché detta attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso»: il che significa che tutti i prodotti-copia realizzati in Italia dopo il 19 aprile 2006 (e quelli importati dopo il 19 aprile 2001) sono perseguibili a tutti gli effetti di legge come contraffazioni, come appunto era prescritto dalla Direttiva.

Questa norma mette dunque la parola «fine» a un contenzioso quasi decennale, e rappresenta un doveroso atto di giustizia verso il mondo del design, oltre che un aiuto concreto al «Made in Italy» pulito, che con la contraffazione non vuole avere niente da spartire e mira anzi a sfatare il mito dell’Italia paradiso degli imitatori, che le norme ora superate rischiavano di accreditare anche a livello internazionale.

Il 30 luglio 2010 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo di revisione del Codice della Proprietà Industriale, di cui si attende ora la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale: centotrenta articoli, che vanno ben al di là di un semplice decreto correttivo, ma delineano un vero e proprio “nuovo” Codice, caratterizzato da un approccio realistico, che tende a commisurare la protezione dei diritti di proprietà industriale a ciò che ciascuno di essi rappresenta sul mercato e, prima ancora, nel “mondo della vita”, delineando in questo modo un equilibrio tra esclusive e concorrenza, che si distacca decisamente dall’impostazione “proprietaria” a cui la Relazione al testo originario del Codice dichiarava di ispirarsi.

Il rinnovo della delega per la revisione del Codice della Proprietà Industriale era stato operato dall’art.19, comma 15 della legge n. 99/2009, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso ed entrata in vigore il successivo 15 agosto, così riattivando il processo che si era interrotto nel 2006 per l’aggiornamento del C.P.I., previsto già al momento del suo varo (dall’art. 2 della legge n. 306/2004), sulla base dell’idea era cioè che il nuovo Codice avesse un anno di «rodaggio», per verificare se erano necessari mutamenti o adattamenti.

È stata così nuovamente insediata una Commissione di esperti, della quale, come già in quella nominata nel luglio 2005, sono stato anch’io chiamato a fare parte, e che ha rapidamente predisposto una bozza di decreto correttivo, sottoposto all’esame dei Ministeri ed delle Associazioni di categoria competenti e poi al Consiglio di Stato e alle competenti Commissioni parlamentari, per giungere infine – con alcuni cambiamenti, i più significativi dei quali sono stati l’inserimento di una nuova previsione sulla protezione del diritto d’autore sulle opere del design ed invece la cancellazione della norma predisposta dalla Commissione sulle invenzioni universitarie, la cui disciplina è stata quindi lasciata immutata – all’approvazione finale.

Le linee di base del lavoro della Commissione

Il testo del decreto era stato predisposto prendendo come punto di partenza il testo elaborato dalla Commissione insediata nel 2005, che già allora non si limitava alla correzione degli errori materiali contenuti nel Codice ed al recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice (ed in particolare della priorità interna, nel frattempo direttamente introdotta dalla legge n. 99/2009), ma aveva operato un approfondito ripensamento delle norme del Codice.

In effetti il lavoro della Commissione del 2005 si era concentrato su quattro filoni:

a) la correzione degli errori materiali e dei difetti di coordinamento, presenti specialmente tra le norme dedicate alla procedura di registrazione, inevitabili in un testo di 246 articoli che prendeva il posto di 35 diversi testi legislativi;

b) il recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice, ed in particolare della priorità interna e della nuova disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari;

c) una serie di aggiustamenti diretti a chiarire alcune disposizioni ambigue;

d) infine, la revisione vera e propria, nella prospettiva di rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, considerata elemento chiave per la competitività dell’«azienda Italia».

Quest’ultima prospettiva è stata alla base anche del lavoro svolto dalla nuova Commissione, che ha cercato di sfruttare nel modo migliore l’indicazione contenuta nella legge delega che indicava tra i criteri da seguire quello di “armonizzare” il nostro ordinamento alla disciplina “comunitaria ed internazionale”; ed in seno alla Commissione ho molto insistito sul fatto che la delega ha precisato che questa armonizzazione andava effettuata “in particolare con quella (normativa) intervenuta successivamente all’emanazione del medesimo codice”, il che implicava che anche la disciplina comunitaria e internazionale preesistente al Codice potesse essere utilizzata, e questo è appunto ciò che si è cercato di fare.

Aggiungo ancora che il mio sforzo è stato anche quello di valorizzare le linee di tendenza emerse in questi anni a livello comunitario e internazionale, che, in evidente contrasto con le tendenze neo-protezioniste presenti anche nella legge n. 99/2009 (ad esempio con l’assurda disciplina di marchi e Made in Italy, poi modificata, ma sempre in modo estremamente carente, e portata al parossismo con la legge n. 55/2010, c.d. Reguzzoni-Versace, non a caso già censurata in szede comunitaria), registrano la positiva evoluzione dei diritti della proprietà intellettuale verso un approccio realistico e concreto alla protezione di essi, fondato sulla considerazione di ciò che le realtà che ne formano oggetto realmente rappresentano sul mercato e, prima ancora, nelle dinamiche dell’attività economica e quindi della comunicazione d’impresa e della ricerca. Questo approccio realistico, o, se si preferisce, fenomenologico, trova tra l’altro una precisa base normativa proprio nelle convenzioni internazionali vigenti nella nostra materia e nello stesso diritto comunitario, che delinea un equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l’esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.

I criteri della delega e la loro interpretazione

Naturalmente in questa impostazione è stato necessario fare i conti con gli altri criteri della legge delega, alcuni dei quali (in particolare quello verso la semplificazione e quello che consentiva di agire anche sulle norme processuali) andavano appunto in questa direzione; mentre altri apparivano più stringenti e tali da lasciare alla Commissione una ridotta libertà di movimento. Mi riferisco in particolare ai criteri di cui alle lettere b (nella parte in cui dispone di “definire le sanzioni da applicare in caso di violazione delle disposizioni recate in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche”), d (che prescrive che “nel caso di invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca, l’università o l’amministrazione attui la procedura di brevettazione, acquisendo il relativo diritto sull’invenzione”) ed e (in base al quale deve essere riconosciuta “ai comuni la possibilità di ottenere il riconoscimento di un marchio e utilizzarlo per fini commerciali per identificare con elementi grafici distintivi il patrimonio culturale, storico, architettonico, ambientale del relativo territorio” e in tal caso “lo sfruttamento del marchio a fini commerciali può essere esercitato direttamente dal comune anche attraverso lo svolgimento di attività di merchandising, vincolando in ogni caso la destinazione dei proventi ad esso connessi al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura dei disavanzi pregressi dell’ente”).

Anche nell’attuazione di questi criteri si è privilegiato un approccio realistico, che eliminasse o comunque riducesse, per quanto possibile, le contraddizioni con l’impostazione sistematica che si è voluto dare al Codice. Tuttavia da essi non è stato possibile discostarsi, giacché rappresentavano un passaggio obbligato e ineludibile, anche per evitare rischi di incostituzionalità per eccesso di delega, che minerebbero la certezza del diritto e che sono stati tenuti ben presenti, anche sulla base dell’esperienza fatta con il Codice.

I punti qualificanti della riforma del Codice:

1. Marchi e altri segni distintivi

Naturalmente è difficile riassumere in questa sede tutto il lavoro che è stato svolto, della cui intensità fa fede la circostanza che esso ha interessato la metà degli articoli del Codice, che ne esce dunque profondamente rinnovato. E dunque mi soffermerò soprattutto sulle disposizioni più significative dal punto di vista sistematico, e quindi in grado di riverberarsi anche sull’interpretazione delle norme non interessate dalle modifiche operate.

In quest’ultima prospettiva, in particolare, le novità apportate dal Codice al diritto dei segni distintivi si caratterizzano per una forte attenzione a ciò che questi segni rappresentano nella realtà di mercato, come elementi cardine della comunicazione d’impresa, e più in generale nel “mondo della vita”. Nel loro complesso le modifiche inserite nel Codice in questo campo appaiono dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, nella prospettiva generale – che con questa riforma è divenuta uno degli assi portanti del Codice – di attribuire alle imprese la possibilità di valorizzare tutte le esternalità positive derivanti dall’uso dei loro diritti di proprietà industriale, vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario dei loro investimenti.

Appunto in questa chiave, particolarmente significativa, è la previsione espressa dei «nomi a dominio di siti usati nell’attività economica» come oggetto di possibile protezione (ma anche di possibile interferenza con altrui diritti di marchio, ditta o insegna), sostituendo l’ambigua definizione precedente di «nomi a dominio aziendali». L’espressione scelta riprende quella usata all’art. 20 C.P.I. per definire l’ambito di protezione dei marchi e rende quindi evidente che la protezione riguarda tutti i casi in cui un segno sia utilizzato per finalità economiche, anche al di fuori di un’attività d’impresa.

Su questa base, in un caso famoso, la nostra giurisprudenza ha tutelato uno dei più famosi marchi di luxury goods del nostro Paese contro l’uso non autorizzato di esso come pseudonimo di un’attrice pornografica su calendari e per realizzare film e spettacoli erotici, ritenendo che tale uso sfruttasse indebitamente (e pregiudicasse, infangandoli) il “messaggio” di raffinatezza ed eleganza collegato a tale marchio. Applicata ai domain names, questa regola permetterà di contrastare i fenomeni di sfruttamento parassitario di altrui marchi famosi anche attraverso l’adozione di segni eguali o simili ad essi come nomi a dominio non autorizzati o come metatags, per promuovere la visita al proprio sito come veicolo per la vendita di prodotti contraffatti o anche solo per inserirvi a pagamento links o banners, avvantaggiandosi indebitamente della reputazione dei marchi imitati.

Non meno significative, sempre nella stessa chiave, sono la modifica dell’art. 8 del Codice, nel quale, oltre alla registrazione, verrà proibito anche l’uso non autorizzato dei segni notori in campo extracommerciale, appunto per impedire l’agganciamento parassitario ad essi da parte di terzi; l’aggiunta di ogni «altro segno distintivo» all’elencazione di segni che possono interferire con il marchio (e con cui il marchio può interferire) contenuta nell’art. 22 C.P.I. rubricato «Unitarietà dei segni distintivi»; e la previsione espressa, all’art. 30, della protezione delle indicazioni geografiche contro ogni uso non autorizzato di esse che «consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta», e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario, come già oggi è previsto da un Regolamento comunitario per DOP e IGP del settore agroalimentare.

Le nuove norme tendono dunque a valorizzare sempre di più la percezione del pubblico come elemento decisivo, sia per stabilire se un segno è tutelabile, sia per delimitarne l’ambito di tutela, offrendo alle imprese nuovi strrumenti di business e una protezione più efficace contro le forme più moderne e insidiose della contraffazione.

2. I brevetti e EPC 2000 – I segreti industriali e commerciali

Il settore dei brevetti, e in generale della protezione dell’innovazione tecnologica, è uno di quelle nelle quali si può maggiormente apprezzare come la revisione del Codice della Proprietà Industriale non si sia limitata ad una semplice correzione, ma si sia mossa nella prospettiva di porre le basi di una crescita del nostro Paese in questo campo, decisivo per la competitività delle nostre imprese.

La revisione si è così ispirata in larga misura alla più recente versione della Convenzione sul Brevetto Europeo, EPC 2000, nella prospettiva di evitare, per quanto possibile, ogni discriminazione tra il trattamento dei brevetti nazionali e di quelli europei. Particolarmente qualificanti, in questa prospettiva, appaiono l’inclusione nella nostra legge della nuova disposizione del protocollo interpretativo di EPC che precisa i limiti di applicazione della nozione di equivalenza, sulla quale la nostra giurisprudenza aveva manifestato pericolose incertezze, e la previsione espressa della possibilità per il Giudice di riformulare le rivendicazioni, naturalmente solo a istanza del titolare e purché le rivendicazioni riformulate si presentino “in una forma più ristretta che rimanga entro i limiti del contenuto della domanda di brevetto quale inizialmente depositata”, e cioè sostanzialmente entro i limiti in cui EPC ammette il ricorso alla procedura di limitazione. La centralità delle rivendicazioni nell’interpretazione del brevetto corrisponde infatti all’impostazione dell’Ufficio Europeo dei Brevetti, imperniata sul cosiddetto problem-solution approach, nel senso di obiettivare e ancorare alla realtà la valutazione dei requisiti per l’accesso alla protezione, ma in pari tempo di commisurare questa protezione a quanto il richiedente ha effettivamente fatto oggetto della sua domanda.

Per i segreti industriali e commerciali, la riformulazione operata della norma la ha messa anche formalmente in linea con il TRIPs Agreement, superando le interpretazioni devianti (e in realtà manifestamente erronee anche in riferimento al testo vigente, proprio perché incompatibili con il TRIPs Agreement, che costituiva comunque un vincolo per l’interprete), che sembravano dare ad essi una tutela “assoluta”, e non – come ora si è precisato – limitata alle ipotesi in cui l’acquisizione del segreto sia avvenuta mediante un’intrusione (“in modo abusivo”) nella sfera di riservatezza del legittimo detentore del segreto stesso.

Anche in materia di invenzioni biotecnologiche, l’incorporazione del Codice delle norme adottate frettolosamente nel 2006 con un decreto legge sotto la pressione di una procedura d’infrazione comunitaria ha rappresentato l’occasione non solo per eliminare duplicazioni di norme che potevano determinare incertezze interpretative, ma anche per rendere chiaro il carattere facoltativo della presentazione all’Ufficio di dichiarazioni sulla provenienza del materiale biologico utilizzato per l’invenzione, che nessun altro Paese europeo richiede. Si è altresì curato che le sanzioni che la delega imponeva di inserire per le violazioni in questo campo non incidessero sulal validità del brevetto, ma dessero luogo soltanto ad illeciti amministrativi.

Un’occasione perduta (anche per il finanziamento della ricerca) ha invece rappresentato la scelta politica del Governo di disattendere la delega, nella parte in cui essa imponeva di restituire alle Università e alle altre istituzioni pubbliche di ricerca la titolarità delle invenzioni realizzate dai loro ricercatori, che era stata loro tolta nel 2001; è però almeno rimasta la regola introdotta nel 2005 che consente alle Università di disporre di queste invenzioni in caso di ricerche finanziate da terzi, per non scoraggiare le sinergie tra pubblico e privato particolarmente importanti in questo campo.

La Commissione aveva invece interpretato questa delega nel modo che era parso più rispondente alle esigenze della pratica, e cioè in buona sostanza ritornando alla regola generale, con le sole eccezioni che derivano dal fatto che le Università e le istituzioni pubbliche di ricerca non hanno un diretto interesse a sfruttare le invenzioni in regime di segreto e possono incontrare vincoli di bilancio che sconsigliano in determinati casi di procedere alla brevettazione: anche se, con una norma programmatica più che precettiva, esse venivano invitate a operare, se del caso consorziandosi (e il pensiero corre inevitabilmente a iniziative come Netval), in modo da essere in grado di far sfruttare i loro brevetti. Non si era invece inteso la norma come un obbligo per le Università di brevettare, che sarebbe stato eversivo del sistema e irrispettoso della loro autonomia. Ma tutto questo, come dicevo, è stato espunto all’ultimo momento dal testo della revisione.

Sempre in materia di invenzioni dei dipendenti, certamente farà discutere la scelta – peraltro costituzionalmente doverosa – di equiparare brevettazione e sfruttamento dell’invenzione in regime di segreto ai fini del riconoscimento del diritto all’equo premio al dipendente-inventore. I criteri per la determinazione dell’equo premio sono stati peraltro chiariti e resi concretamente applicabili, nel solco dell’insegnamento della migliore giurisprudenza.

E questo è in effetti il nucleo della riforma: il nuovo Codice si caratterizza per un approccio realistico al diritto dei brevetti, che unito alle novità processuali dirette a facilitare la protezione e ad incoraggiare il ricorso a soluzioni transattive delle controversie, potrà consolidare i positivi risultati già raggiunti dalla nostra giurisprudenza più recente, convincendo anche le nostre imprese che la brevettazione paga.

3. Le novità processuali: semplificazione ed efficacia della tutela

Le novità processuali contenute nella revisione del Codice possono riassumersi in quattro linee guida: maggiore facilità nell’ottenere misure d’urgenza contro i contraffattori dei diritti di proprietà industriale, semplificazione delle procedure, efficienza e rapidità della tutela, ma anche “parità delle armi” tra chi accusa e chi si difende.

Contrariamente a quanto spesso si sente ripetere, già oggi l’Italia ha raggiunto un alto livello di efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile. Specialmente a partire dal 2003, quando sono state istituite presso 12 Tribunali e Corti d’Appello altrettante Sezioni Specializzate in Diritto della Proprietà Intellettuale, con competenza esclusiva a conoscere delle azioni civili in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e fattispecie di concorrenza sleale legate a questi diritti e alla loro violazione, nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza (inibitoria, sequestro, ordine di ritiro dal commercio), che vengono esaminate e concesse con estrema rapidità (normalmente pochi giorni, nel caso di misure a tutela di marchi e design, molto spesso concesse inaudita altera parte; pochi mesi, nel caso delle misure a tutela di brevetti, compreso lo svolgimento di una fase di consulenza tecnica nel contraddittorio delle parti), e agli strumenti di ricerca giudiziaria delle prove (ordine di descrizione).

La revisione del Codice è però intervenuta a sciogliere alcuni nodi che, in determinati casi, potevano minare questa efficienza. Tra le novità più significative in questa prospettiva si segnala anzitutto la riunificazione della competenza per l’emanazione di descrizione, sequestro e inibitoria in capo allo stesso giudice: il che implica anche il riesame delle descrizioni, come imposto dalla Direttiva n. 48/2004/C.E., la cosiddetta Direttiva enforcement. Sempre in materia di descrizione (ma anche di sequestro), la revisione del Codice ha esteso la possibilità di adottare provvedimenti cautelari inaudita altera parte (cioè senza previa convocazione del soggetto contro il quale sono chiesti), prevedendo che questa procedura debba essere seguita in tutti i«casi di speciale urgenza, e in particolare quando eventuali ritardi potrebbero causare un danno irreparabile al titolare dei diritti o quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento di descrizione o di sequestro», salvo ovviamente poi convocare l’altra parte entro 15 giorni, per il provvedimento di conferma o di revoca, così superando l’atteggiamento restrittivo che in passato era stato adottato al riguardo da alcune Sezioni specializzate.

La riunificazione della competenza su descrizione, sequestro e inibitoria cautelare ha dato anche l’occasione di chiarire che queste misure possono essere chieste congiuntamente, eventualmente l’una subordinatamente alle altre, e che in tal caso i risultati probatori della descrizione vanno valutati già nella fase cautelare (e quindi resi accessibili ai difensori e ai consulenti della parte procedente già in questa fase), superando così i dubbi interpretativi che si erano posti in dottrina al riguardo: il che consentirà alle imprese titolari dei diritti ed ai professionisti che le assistono di elaborare nuove e più efficaci strategie di tutela di questi diritti. A questo riguardo è stato anche introdotto un nuovo strumento processuale: la consulenza tecnica preventiva, utile nei casi in cui il titolare di un brevetto sia incerto sulla violazione di esso e voglia conseguire un rapido accertamento tecnico su validità e contraffazione, da utilizzare per poi agire in giudizio, ma anche per raggiungere più facilmente una transazione.

In pari tempo, però, anche chi si difende dalla contraffazione avrà a disposizione una possibilità in più: per superare le incertezze che talvolta i Giudici hanno manifestato al riguardo, è stata infatti espressamente codificata la possibilità di ottenere, anche in via d’urgenza, un accertamento di non contraffazione, utile per prevenire abusi e utilizzazioni strumentali dei diritti di proprietà industriale (e in particolare di brevetti per invenzione), frequenti particolarmente in sede penale. Sempre in materia brevettuale è stato poi chiarito (con una norma applicabile anche ai processi in corso) che in caso di azioni di nullità di brevetto è sufficiente citare il soggetto che risulta titolare del diritto e non anche gli inventori che questo diritto gli abbiano ceduto o i licenziatari, con una significativa semplificazione (e riduzione di durata e di costi) dei processi di merito in questa materia.

Si può dunque dire che con questa riforma sono state portate a compimento le innovazioni procedurali operate con successo nel 2006 con l’attuazione della Direttiva enforcement e che il processo di diritto industriale continua così la sua marcia di adeguamento verso gli standard europei.

4. L’allineamento alla Direttiva del regime transitorio delle opere del design proteggibili col diritto d’autore

Un’ultima notazione – positiva – riguarda il «famigerato» art. 239 C.P.I. sul Regime transitorio delle opere di design proteggibili col diritto d’autore. Ci sono voluti infatti nove anni e cinque successivi interventi legislativi, ma finalmente l’Italia – sotto la pressione di una causa portata da Assoluce alla Corte di Giustizia europea – ha concesso piena tutela alle opere di design coperte dal diritto d’autore contro i prodotti-copia. Con una modifica introdotta all’ultimo momento, su richiesta della Commissione Attività Produttive della Camera (e segnatamente grazie a un intervento dell’On. Torazzi, LNP), è stato possibile inserire nel decreto legislativo di revisione del Codice anche la riscrittura dell’art. 239 del Codice, stabilendo così finalmente con chiarezza che i prodotti-copia non sono legittimi, anche se a commercializzarli sono i medesimi soggetti che li producevano lecitamente prima del 19 aprile 2001, data di introduzione in Italia della protezione di diritto d’autore sulle opere di design.

La riformulazione dell’art. 239 del Codice della Proprietà Industriale era divenuta ormai indifferibile in relazione alle conclusioni recentissimamente depositate (il 24 giugno 2010, quando già lo schema di decreto legislativo era stato approntato) dall’Avvocato Generale dell’Unione Europea nella causa C-168/09, pendente avanti la Corte di Giustizia comunitaria. Tale causa ha ad oggetto la questione della compatibilità col diritto comunitario della normativa transitoria italiana sul design (contenuta appunto nell’art. 239 del Codice), che sembrava limitare la protezione di diritto d’autore sulle opere di design, consentendo ai soggetti che le imitavano prima dell’introduzione di tale protezione nel diritto italiano (a seguito dell’attuazione della Direttiva n. 98/71/CE), di continuare senza limiti di tempo questa loro attività, benché oggi essa dovrebbe ritenersi contraffattoria e quindi illecita; la questione era stata sollevata dal Tribunale di Milano su istanza di Assoluce – l’Associazione delle imprese italiane dell’illuminazione, da me assistita, che riteneva giustamente tale disciplina penalizzante per l’industria italiana del settore –, nell’ambito di un giudizio promosso dalla Flos contro la Semeraro per contraffazione della celebre lampada “Arco”, disegnata negli anni sessanta dai fratelli Castiglioni.

Già nel corso della discussione orale della causa, tenutasi il 22 aprile scorso, la Commissione Europea aveva preso posizione nel senso della contrarietà al diritto comunitario delle norme transitorie italiane contestate, anche sulla base del contrasto di esse con la Direttiva n. 2001/29/CE, che ha armonizzato a livello comunitario la normativa sul diritto d’autore, limitando la tutela dell’affidamento dei soggetti che operavano in precedenza nel regime di assenza di protezione agli atti conclusi e ai diritti acquisiti prima del 22 dicembre 2002, ed escludendo espressamente che in base al diritto comunitario potesse essere loro consentito di continuare la loro attività dopo tale data.

Le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale hanno ripreso ed ampliato queste considerazioni, giungendo ad affermare, con estrema chiarezza che «L’art. 17 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 1998, 98/71/CE, sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli, dev’essere interpretato nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro la quale preveda che i disegni e i modelli divenuti di pubblico dominio anteriormente alla data di entrata in vigore delle disposizioni nazionali di trasposizione di tale direttiva non beneficino della protezione del diritto d’autore», e che ai soggetti che già legittimamente fabbricavano questi prodotti prima dell’introduzione della protezione nel 2001 poteva essere accordato unicamente «un ragionevole periodo transitorio durante il quale… possono continuare a commercializzare detto prodotto», precisando anche che il termine di dieci anni decorrenti dal 2001 originariamente previsto dalla legge italiana era «eccessivo» e ricordando come già in relazione a tale previsione la Commissione Europea avesse avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia.

A queste indicazioni si è esattamente attenuto il nuovo art. 239 ora introdotto, che ha appunto previsto che «i terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori al 19 aprile 2001, prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno industriale allora in pubblico dominio non rispondono della violazione del diritto d’autore compiuta proseguendo questa attività anche dopo tale data, limitatamente ai prodotti da essi fabbricati o acquistati prima del 19 aprile 2001 e a quelli da essi fabbricati nei cinque anni successivi a tale data e purché detta attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso»: il che significa che tutti i prodotti-copia realizzati in Italia dopo il 19 aprile 2006 (e quelli importati dopo il 19 aprile 2001) sono perseguibili a tutti gli effetti di legge come contraffazioni, come appunto era prescritto dalla Direttiva.

Questa norma mette dunque la parola «fine» a un contenzioso quasi decennale, e rappresenta un doveroso atto di giustizia verso il mondo del design, oltre che un aiuto concreto al «Made in Italy» pulito, che con la contraffazione non vuole avere niente da spartire e mira anzi a sfatare il mito dell’Italia paradiso degli imitatori, che le norme ora superate rischiavano di accreditare anche a livello internazionale.