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L’accertamento fiscale per il professionista che emette poche fatture

Sommario:

1. Premessa.

2. Accertamento ex art. 39 D.P.R. 600/1973. Soggetti passivi e requisiti necessari.

3. L’accertamento analitico-induttivo e la “qualificazione delle presunzioni”.

4. In particolare: l’accertamento induttivo effettuato nei confronti dell’avvocato che emette poche fatture. Giurisprudenza.

1) Premessa

L’Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento del reddito, ex art 39 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili (titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo[1]), prescindendo dai dati risultanti dalle scritture contabili.

Orbene, diviene necessario, anche se sinteticamente, dare conto di tale contraddizione in termini: possibilità per l’Amministrazione finanziaria di prescindere dalle scritture contabili per ricostruire il reddito dei soggetti che, obbligatoriamente, vi sono tenuti.

Conseguentemente è fondamentale individuare quali siano gli elementi, i dati, ecc., extracontabili, che l’Amministrazione finanziaria potrà adottare per giungere ad un risultato che porti alla rettifica della dichiarazione di questa peculiare categoria di contribuente.

Si ribadisce il punto: la dichiarazione dei redditi viene compilata, e inviata, sulla base dei dati risultati dalle scritture contabili (libro giornale, registri IVA, libro cespiti ammortizzabili, ecc…).

La stessa potrà essere rettificata dall’Amministrazione finanziaria senza che vengano considerate le componenti positive[2] e negative[3] che conducono al risultato economico (reddito o perdita) dell’esercizio, ma partendo dalla considerazione, o, meglio suggestione, di un giudizio di non verosimiglianza del reddito dichiarato con quello effettivo.

2) Accertamento ex art. 39 D.P.R. 600/1973. Soggetti passivi e requisiti necessari.

Il legislatore, all’art. 39 del D.P.R. 600/1973, ha previsto la possibilità che l’Amministrazione possa ricorrere a tre tipi di accertamento: analitico, analitico-induttivo ed induttivo “puro”.

Tale metodologia accertativa viene utilizzata dall’Ufficio per la ricostruzione del reddito o del volume d’affari, partendo dai dati contabili.

Il primo comma, in particolare, prevede che si possa procedere, nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili (in sostanza, imprenditori e lavoratori autonomi), ad accertamento di tipo:

- analitico[4]: in presenza di una contabilità corretta - in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti - qualora vi siano divergenze tra gli elementi documentali e la dichiarazione, in quanto:

- le componenti positive e negative di reddito indicate nella dichiarazione non corrispondano a quelle iscritte in bilancio (lett. a);

- non siano state correttamente applicate le disposizioni sul reddito di impresa (lett. b);

- la dichiarazione contenga dati incompleti[5], falsi[6] o inesatti[7] (lett. c), risultanti in modo certo e diretto dai verbali redatti in occasione della comparizione del contribuente presso gli Uffici, o dal questionario redatto dal contribuente su richiesta dell’Ufficio, o dai documenti esibiti in tale occasione, o dalle dichiarazioni di altri soggetti, o dai verbali relativi ad ispezioni presso altri soggetti;

- analitico-induttivo[8], in presenza di una contabilità corretta, qualora la dichiarazione contenga dati incompleti, falsi o inesatti[9], i quali risultino: dall’ispezione delle scritture contabili, o dalla verifica condotta presso il contribuente, o dal controllo delle fatture e della documentazione contabile, o dai dati e dalle notizie raccolte dagli Uffici ex art. 32 D.P.R. 600/1973; l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici[10], purché gravi, precise e concordanti (lett. d).

L’art 39, comma 2, prevede il c.d. accertamento induttivo “puro[11]”; con tale metodologia accertativa è previsto che, in deroga alle disposizioni di cui al primo comma – e, pertanto, in deroga alle scritture contabili tenute – l’Ufficio determini il reddito, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza[12], con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, e, all’uopo, possa avvalersi anche di presunzioni “semplicissime”, non qualificate[13], prive, cioè, dei requisiti della precisione, gravità e concordanza[14].

E’ bene precisare che l’Amministrazione finanziaria potrà procedere ad accertamento extracontabile solo in presenza di specifiche condizioni richieste dalla legge.

Difatti, per poter ricostruire complessivamente il reddito d’impresa del contribuente, sulla scorta del 2° co. dell’art. 39 (che permette di prescindere sia dall’impianto contabile sia dall’utilizzo di presunzioni dotate dei caratteri della precisione, gravità e concordanza), è necessaria ed indefettibile sussistenza di tassative condizioni:

a) quando il reddito d’impresa non è stato indicato in dichiarazione;

b) quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art 33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili prescritte dall’art 14 ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;

c) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni, accertate ai sensi del precedente comma, ovvero la irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica;

d) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli Uffici ai sensi dell’ art. 32, 1 comma, nn 3 e 4, del presente decreto o dell’art 51, 2 comma, nn 3 e 4 del D.P.R. 633 del 72.

3. L’accertamento analitico-induttivo e la “qualificazione delle presunzioni”.

L’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i corrispettivi e i compensi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis del D.L. n. 331 del 30 agosto 1993[15], potranno rappresentare delle presunzioni, per l’Amministrazione finanziaria, sulle quali costruire l’intero procedimento accertativo.

Il criterio della ragionevolezza era già stato sancito dalla Cassazione nel lontano 1995, la quale aveva precisato che la contabilità del contribuente professionista, pur se formalmente corretta, dovesse essere considerata essenzialmente inattendibile, allorché configgente con il normale senso comune, con conseguente legittimità dell’accertamento induttivo[16]. Allo stesso modo, la Suprema Corte, con sentenza n. 14292 del 30 ottobre 2000, aveva affermato che “il numero dei soggetti ad imposta che abbiano le proprie scritture contabili presso un professionista è un valido parametro per l’accertamento induttivo dei redditi del professionista stesso, ed anche per considerare inattendibile la eventuale contabilità tenuta dal professionista stesso”. Ed ancora, la stessa sentenza aveva enunciato un principio fondamentale: “il parametro secondo cui il numero dei clienti è uno degli elementi da cui è possibile trarre induttivamente il reddito di un soggetto è poi conforme ad una giurisprudenza ormai pacifica di questa Corte[17]”.

Sarà, pertanto, onere del contribuente-professionista addurre elementi in grado di superare tali presunzioni[18]. La presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare la propria opera a titolo gratuito, o dilazionando la richiesta di compenso, è agilmente superabile attraverso una prova puntuale e specifica (ma non attraverso una mera asserzione).

In un sistema che consente l’utilizzazione delle presunzioni a favore dell’Amministrazione, l’unico rimedio posto a carico del contribuente è quello dell’inversione dell’onere della prova[19]. A tale presunzione, potrà opporsi agevolmente che, per quanto riguarda la prestazione professionale, non rileva il momento iniziale o finale della stessa: il sistema di determinazione del reddito di lavoro autonomo applica il criterio c.d. “di cassa[20]”.

Così, nel caso del medico dentista, sarà possibile opporre alla presunzione siffatta, che il numero delle visite giornaliere[21] dichiarate non può implicare, di per sé solo, sotto il profilo delle presunzioni, un pagamento proporzionale: occorre, di converso, considerare il pagamento a cura completata[22]. Ciò accade anche all’ingegnere per la redazione di un progetto relativo ad opere importanti, e accade anche all’avvocato, soprattutto nelle cause la cui durata non è preventivabile.

4. In particolare: l’accertamento induttivo effettuato nei confronti dell’avvocato che emette poche fatture. Giurisprudenza.

Recentemente la Suprema Corte, sentenza n. 7460 del 27/03/2009, ha affermato che costituisce una valida presunzione, ai fini dell’accertamento induttivo effettuato nei confronti del professionista – avvocato, “l’emissione di un numero di fatture non congruo rispetto al decoro e all’onore della professione, oltre che rispetto al numero di ricorsi depositati in favore dei propri clienti”.

Nella sentenza in parola si è ribadita la legittimità dell’accertamento induttivo utilizzato dall’Amministrazione finanziaria per rettificare il reddito di lavoro autonomo dichiarato da un professionista, il quale aveva emesso un numero di fatture irrisorio.

Nella fattispecie in esame, in particolare, l’Ufficio delle Imposte Dirette di Roma aveva rettificato il reddito di lavoro autonomo per l’attività forense, a seguito di una verifica da cui era emerso che il ricorrente aveva emesso soltanto 25 fatture, a fronte della presentazione di un numero di ricorsi civili ed amministrativi pari ad oltre 200. Il professionista, in risposta, aveva eccepito che un notevole numero di tali ricorsi era stato presentato per gli iscritti ad un sindacato del cui ufficio legale egli faceva parte e per i quali aveva riscosso compensi irrisori solo all’esito favorevole delle relative vertenze. In particolare, il professionista aveva eccepito altri elementi da cui poter desumere il suo tenore di vita effettivo, quali la propria abitazione, il suo studio professionale, gli stessi accertamenti bancari eseguiti dalla G. di F. La Suprema Corte, tuttavia, ha confermato quanto affermato dai giudici della Commissione Tributaria Regionale, in quanto una dichiarazione annuale dei redditi di € 6.590,00 non appariva congrua rispetto alla mole di lavoro effettuata, che per quell’anno consisteva nella presentazione di ricorsi per oltre 200 clienti.

La sentenza richiamata pare inserirsi nell’orientamento della stessa Suprema Corte con Cass. Civ., Sez. Trib., 13/04/2007, n. 8886, secondo cui l’Amministrazione finanziaria può procedere, anche in via indiziaria, all’accertamento di maggiori ricavi in materia di reddito d’impresa o di lavoro autonomo, anche in presenza di una contabilità regolarmente tenuta. Ha inoltre ritenuto legittimo l’accertamento, operato nei confronti dei professionisti, sulla base dell’elenco clienti e del giro d’affari degli stessi.

Nella specie, l’Ufficio aveva proceduto alla determinazione dei compensi percepiti dalla contribuente sula base della lista dei suoi clienti e dei ricavi da loro dichiarati, tenuto conto delle tariffe professionali.

A sostegno di quanto sopra la stessa Suprema Corte con Cass. Civ., Sez. Trib., 24 novembre 2006, n. 25002, relativamente ad un ricorso presentato nell’interesse di un commercialista, per il quale si era proceduto alla rideterminazione induttiva del reddito, in quanto il numero dei clienti era notevolmente superiore al numero delle fatture emesse e al reddito dichiarato, aveva ribadito che: “giova preliminarmente ricordare che in mancanza di contrarie disposizioni di legge, la prova della percezione di un reddito può anche essere data per presunzioni e che la necessità, sul piano sostanziale, di tener conto dei soli compensi concretamente percepiti nel periodo di imposta, non esclude la possibilità, sul piano probatorio, di ritenere pagate, nell’anno stesso di esecuzione, tutte quelle prestazioni per le quali sussistono elementi capaci di giustificare simile convincimento. Tanto puntualizzato, rimane unicamente da aggiungere che nella fattispecie in questione, la Commissione Regionale ha desunto il tempestivo pagamento delle prestazioni dal numero delle stesse, dalla caratura dei beneficiari, dalla consistenza dell’opera prestata in loro favore, dalle caratteristiche della struttura utilizzata e dalla mancata indicazione, da parte del contribuente professionista, di elementi atti a dimostrare il contrario”[23].

Anche la giurisprudenza di merito, Commissione Tributaria Centrale, Sez. XXV, sentenza n. 799 del 04 marzo 1997, aveva sancito la correttezza dell’accertamento induttivo dei redditi, previsto dall’art. 39, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, promosso nei confronti dei soggetti esercenti arti e professioni, per cui aveva legittimato l’operato dell’ufficio che aveva proceduto nei confronti di un commercialista mediante lo strumento dell’accertamento induttivo, ponendo a fondamento di esso una ragionevole presunzione di inattendibilità della dichiarazione dei redditi del contribuente; a tale scopo demandava l’onere della valutazione estimativa dell’entità del volume d’affari alla competente Commissione tributaria regionale.

Il maggior numero dei clienti rispetto a quello delle fatture emesse e la sproporzione tra l’ammontare di queste ultime, anche in relazione al probabile impegno profuso dal professionista nella sua prestazione d’opera, costituiscono circostanze idonee a far sì che l’Ufficio presuma l’esistenza di attività non dichiarate e reputi inattendibile la documentazione contabile.

In tali casi, occorrerà dimostrare che il compenso del professionista è esattamente quello indicato in fattura, indipendentemente dal numero delle “pratiche” svolte o in trattazione.

Giova ribadire che la determinazione della base imponibile degli esercenti arti e professioni segue il criterio di cassa quindi rileva solo ed esclusivamente il momento della percezione del compenso, a nulla rilevando l’inizio della prestazione professionale.

Gli strumenti probatori dei quali potrà servirsi il professionista sono della stessa natura di quelli adottati dall’Amministrazione finanziaria, ovvero potrà avvalersi di presunzioni per confutare il ragionamento inferenziale dell’Ufficio fiscale.

Così, come ha affermato dalla giurisprudenza di merito, Commissione Tributaria Regionale Sicilia, Sez. 1, sentenza n. 13 dell’08.04.2008[24], è ragionevole ritenere che solo la conclusione della vertenza, con esito favorevole per il cliente, possa far legittimante concludere per la corresponsione del corrispettivo da parte di questi.

Conseguentemente è prudente che il professionista adotti ogni cautela per salvaguardare il proprio credito professionale, non solo per il credito in sé, ma anche perché rinunciarvi, sic et simpliciter, potrebbe condurre l’Ufficio fiscale ad un giudizio di percezione “in nero” dello stesso. In definitiva ci si potrebbe trovare dinanzi alla mancata percezione del corrispettivo professionale e alla contestazione del mancato pagamento delle imposte ad esso relativo, ovviamente con la comminazione di sanzioni.



[1] L’art. 39, comma 3, D.P.R. 600/1973 estende la metodologia accertativa relativa alle imprese, di cui al primo comma, anche al reddito di lavoro autonomo, essendo identico il presupposto: la tenuta delle scritture contabili.

[2] ricavi, plusvalenze e sopravvenienze attive per le imprese e compensi per gli esercenti arti e professioni.

[3] costi, minusvalenze e sopravvenienze passive per le imprese e costi per gli esercenti arti e professioni.

[4] Definito anche analitico-contabile, in quanto “consiste nell’analisi della contabilità complessivamente e nelle singole poste e nel suo raffronto con le indicazioni contenute nella dichiarazione, o con le informazioni desunte dall’esercizio dei poteri istruttori”, cfr. A. FANTOZZI, Il diritto Tributario, UTET, 2003, p. 435.

[5] L’incompletezza dei dati attiene a situazioni in cui il contribuente, pur avendo l’obbligo di inserire in dichiarazione dati ed elementi, non ottempera a tale obbligo.

[6] La falsità attiene alla inesattezza dei dati rappresentati in dichiarazione, ma si differenzia dalla stessa, per l’animus del soggetto agente di alterare – con volontà – il contenuto della dichiarazione, al fine di evidenziare una rappresentazione distorta della propria attività economica o professionale.

[7] L’inesattezza attiene alla non conformità dei dati rappresentati nella dichiarazione, con i dati risultanti dalle scritture contabili e dalla documentazione obbligatoria ai fini fiscali.

[8] Questo metodo di accertamento rimane nell’ambito della contabilità del soggetto, per cui è definito induttivo-contabile, in quanto “si avvale di elementi inferenziali esterni alla contabilità (i fatti certi su cui si basano le presunzioni), per indurre conseguenze sulla determinazione del reddito, senza sovvertire o alterare l’impianto contabile”: cfr. A. FANTOZZI, cit., p. 436.

[9] Per le nozioni di incompletezza, inesattezza e falsità dei dati, v. note 2, 3 e 4.

[10] Il legislatore tributario non ha previsto una definizione di presunzione, ma ha operato un mero richiamo al concetto di presunzione disciplinato dal codice civile all’art. 2727, il quale qualifica la presunzione come “la conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. La presunzione viene definita da F. Gavioli, “Legittimo accertamento induttivo per l’avvocato che emette poche fatture”, in Pratica Fiscale e Professionale, n. 20 del 18 maggio 2009, come una “prova indiretta”, scaturente da qualsiasi argomento o congettura attraverso cui, partendo da un fatto noto, si perviene a considerare provata un’altra circostanza, sfornita, quest’ultima, di prova indiretta”. Ebbene, l’Amministrazione finanziaria in tal modo viene facilitata nel dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria, ed il contribuente che intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti avrà l’onere contrario di dover dimostrare l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi.

[11] Questo metodo di accertamento, definito in dottrina induttivo-extracontabile, presenta rilevanti conseguenze sotto il profilo della prova e della motivazione. “La maggiore difficoltà per il contribuente di opporsi ad un accertamento induttivo o extracontabile deriva soltanto dal necessario maggior argine di apprezzamento riservato all’ufficio nell’esercizio di una funzione pubblica di accertamento, privata del supporto della obbligatoria collaborazione da parte del privato”: così A. Fantozzi, op. cit., p. 437.

[12] La lettera d-bis) del secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973, consente l’accertamento induttivo anche qualora il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dall’ufficio ai sensi dell’art. 32, primo comma, nn. 3 e 4, del D.P.R. 600/1973. Le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente,. Si fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. Tale principio è affermato anche dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sez. 27, nella sentenza n. 38 del 13.04.2006, che legittima l’accertamento induttivo effettuato a fronte della mancata risposta del contribuente al questionario, regolarmente notificato. La sola mancata risposta al questionario consente all’ufficio – direttamente – di agire induttivamente, senza che sia necessario dimostrare di aver proceduto in altro modo a rintracciare il contribuente: così CAPUTI, L. n. 28/1999: maggiori poteri di accertamento per l’Amministrazione finanziaria e diritto di difesa, in “Il fisco”, n. 10/1999, p. 3377.

[13] La possibilità di utilizzo delle presunzioni in campo tributario è stata espressamente prevista dall’art. 39 del D.P.R. 600/73, in tema di imposte dirette, e dagli artt. 54 e 55 del D.P.R. 633/1972, in tema di IVA, al fine di ridurre l’onere probatorio in capo all’Amministrazione finanziaria nell’attività di accertamento. Sono consentite presunzioni solo a favore dell’Amministrazione finanziaria e non è consentito, nemmeno astrattamente, che esse operino a favore del contribuente. Tuttavia la loro operatività è vincolata all’esistenza di specifici riscontri nelle scritture contabili.

[14] L’utilizzo di presunzioni semplicissime è previsto se: nella dichiarazione non è stato indicato il reddito; per la dichiarazione dei redditi presentata prima del 1° gennaio 1998 non siano stati allegati il bilancio e il conto profitti e perdite; non sia stato possibile ispezionare le scritture contabili, purchè ciò risulti dal verbale di ispezione; le omissioni o le false o inesatte indicazioni accertate in contabilità e le irregolarità formali delle scritture contabili siano gravi, numerose e ripetute, tanto da rendere inattendibile la contabilità; il contribuente non abbia adempiuto all’invito ad esibire o trasmettere atti e documenti, o non abbia risposto ai questionari relativi alla richiesta di dati e notizie di carattere specifico.

[15] L’art. 62 sexies del D. L. 331/1993 enuclea il principio secondo cui l’accertamento induttivo possa essere fondato sull’esistenza di gravi incongruenze rispetto a quanto previsto dagli studi di settore, pur senza fissare un automatismo nell’attività di accertamento dell’ufficio, ma una mera facoltà. La Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, con sentenza n. 440 del 26/03/2007, ha statuito che l’accertamento del reddito, in linea di principio, deve essere ancorato alle risultanze delle scritture contabili, qualora l’impresa sia obbligata alla loro tenuta e la stessa sia regolarmente tenuta, in quanto essa “ha una sua preminente rilevanza ai fini fiscali, avendo il contribuente diritto a che essa sia posta a base dell’accertamento”. In tal modo, i giudici di codesta On.le Commissione hanno sancito l’inapplicabilità degli studi di settore in presenza di una contabilità fedele e in assenza di gravi incongruenze tra i ricavi rilevate dall’Ufficio, facendo desumere che per adottare in sede di accertamento le risultanze degli studi di settore occorra preventivamente l’accertamento della contabilità ordinaria, da cui risulti la sua inattendibilità, e l’esistenza di gravi incongruenze tra i dati dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore.

[16] Cassazione Civile, Sez. I, 17 ottobre 1995, n. 10823, nella quale era stata ritenuta inattendibile la contabilità di un professionista, nella specie, un commercialista, il quale aveva dichiarato perdite per tre periodi fiscali consecutivi; Commissione Tributaria Regionale Sicilia, sez. XIV, sentenza n. 47 del 2003, nella quale è stato dichiarata l’inattendibilità della contabilità del professionista, la quale configgeva con il senso comune, oltre che con le regole fondamentali di ragionevolezza. In tale fattispecie, in particolare, la Commissione aveva dichiarato legittimo l’operato dell’ufficio che aveva proceduto induttivamente, poiché il volume di affari dichiarato dal contribuente risultava incongruo rispetto al numero dei soggetti assistiti.

[17] A tal fine, la sentenza citata richiama la sentenza della Cassazione n. 51 del 7 gennaio 1999, secondo cui il reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero di coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati, oppure dalla quantità di materie prime utilizzate.

[18] Relativamente all’onere della prova nel processo tributario, L. Leo, Onere della prova nel processo tributario, Rassegna Tributaria 4/2006, p. 1305, secondo il quale “la dinamica che conduce all’instaurazione del processo tributario, sostanziandosi nella richiesta del contribuente di vedere annullata, o rettificata, la pretesa pecuniaria dell’Amministrazione finanziaria non muta le regole del giudizio sul fatto incerto. Il fatto che è il contribuente a doversi rivolgere al giudice tributario per sentire dichiarata la illegittimità della pretesa avanzatagli dall’Amministrazione finanziaria, non deve far ritenere che gravi in capo a costui la dimostrazione in sede processuale della insussistenza di detta pretesa. Questi, in definitiva, sarà attore solo in senso formale ma rimarrà convenuto in senso sostanziale dall’Amministrazione finanziaria, la quale deve indicare e provare i fatti costitutivi della pretesa avanzata. Solo quando l’Amministrazione finanziaria avrà dimostrato i fatti costitutivi della propria pretesa, il contribuente sarà onerato a provare o l’inefficacia dei fatti provati dall’attore o che il diritto da questa provato si è modificato o estinto”. Relativamente all’inversione dell’onere della prova, Cass. Sentenze n. 5794 del 19/04/2001, anche nella determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione del cosiddetto "redditometro" l’Amministrazione finanziaria è dispensata da qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti, indici di maggiore capacità contributiva, individuati dal redditometro stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere, pertanto, l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore è posto a carico del contribuente. Dello stesso avviso, Cassazione civile , sez. trib., 10 ottobre 2008 , n. 24912, nella quale si afferma che "I coefficienti presuntivi di reddito di cui al D. P. C. M. 29 gennaio 1996 (parametri) ... non costituiscono prove neppure presuntive di reddito e non possono da soli sostenere un avviso di accertamento di maggiore imponibile"; "in caso di discordanza tra quanto dichiarato e quanto risultante dai calcoli in forza ai c.d. parametri, non sussiste una presunzione iuris tantum a favore dell’Ufficio, con conseguente inversione dell’onere della prova") -, l’applicazione dei parametri pone (Cass. trib.: 14 marzo 2008 n. 6924; 14 febbraio 2007 n. 3223, tra le recenti) una presunzione legale relativa, superabile solo con la prova contraria, data dal contribuente, con la dimostrazione di circostanze specifiche le quali rivelino concretamente il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore in quanto i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statistica, ma non astratta, riferita a un determinato settore economico”. Ed inoltre, a conferma che non si tratta di presunzioni juris et de jure, ma di presunzioni contro cui graverà sul contribuente l’onere di provare il contrario; così anche la Commissione Tributaria Regionale Sicilia, sent. cit.

[19] Cassazione Civile, Sez. V, sentenza n. 2891 del 27 febbraio 2002, secondo cui “il contribuente ha l’onere (quanto ad allegazione ed a prova) di giustificare lo scostamento rilevato dall’Ufficio nell’avviso di accertamento”.

[20] Ai professionisti è applicabile il criterio di cassa e non quello di competenza, ragion per cui i costi sopportati in un anno potrebbero riferirsi a prestazioni fatte o pagate nell’anno successivo e, quindi, in un altro periodo di imposta.

[21] La Suprema Corte, con sentenza n. 4772 del 2001, ha asserito che i compensi tariffari minimi possono integrare presunzioni gravi, precise e concordanti sull’entità dei ricavi del professionista, conformemente al dettato di legge che disciplina le presunzioni stesse, considerando la rilevante probabilità, cioè l’id plerumque accidit, che i contraenti si siano conformati a disposizioni inderogabili. Tuttavia, tali presunzioni saranno atte a ricostruire i redditi di lavoro autonomo solo se le prestazioni in concreto svolte siano state identificate in maniera certa, poiché è questo il presupposto per poter individuare le voci tariffarie da applicare e gli onorari minimi da esse accordati.

[22] Cassazione Civile, sentenza n. 2744 del 10 marzo 2000, la quale accoglieva il ricorso del medico dentista avverso l’accertamento di tipo induttivo. In esso il ricorrente segnalava la peculiarità della prestazione odontoiatrica, la quale si articola in una pluralità di sedute, con normale erogazione dell’onorario all’esito, vincendo la presunzione dell’Ufficio.

[23] Già la Cassazione Civ., Sez. trib., 30 ottobre 2000, n. 14292, aveva affermato che: “Il parametro secondo cui il numero dei clienti è uno degli elementi da cui è possibile trarre induttivamente il reddito di un soggetto è poi conforme ad una giurisprudenza ormai pacifica di questa Corte”. Costituisce, quindi, un possibile parametro per l’accertamento induttivo dei redditi del professionista anche il numero dei soggetti ad imposta che hanno le proprie scritture contabili presso il professionista, anche per considerare inattendibile la eventuale contabilità tenuta dal professionista stesso.

[24] Commissione Tributaria Regionale Sicilia, Sez. 1, con sentenza n. 13 dell’08.04.2008: “Invero nel rapporto tra il professionista ed il cliente, capita spesso che il primo, per mantenersi buono il cliente, chiede, all’atto del conferimento dell’incarico, acconti limitatamente alle spese da sostenere, mentre il compenso vero e proprio viene procrastinato all’atto della cessazione del servizio professionale. [...] In sostanza, la vera e propria retribuzione del professionista si ha al momento della completa prestazione del servizio”.

Sommario:

1. Premessa.

2. Accertamento ex art. 39 D.P.R. 600/1973. Soggetti passivi e requisiti necessari.

3. L’accertamento analitico-induttivo e la “qualificazione delle presunzioni”.

4. In particolare: l’accertamento induttivo effettuato nei confronti dell’avvocato che emette poche fatture. Giurisprudenza.

1) Premessa

L’Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento del reddito, ex art 39 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili (titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo[1]), prescindendo dai dati risultanti dalle scritture contabili.

Orbene, diviene necessario, anche se sinteticamente, dare conto di tale contraddizione in termini: possibilità per l’Amministrazione finanziaria di prescindere dalle scritture contabili per ricostruire il reddito dei soggetti che, obbligatoriamente, vi sono tenuti.

Conseguentemente è fondamentale individuare quali siano gli elementi, i dati, ecc., extracontabili, che l’Amministrazione finanziaria potrà adottare per giungere ad un risultato che porti alla rettifica della dichiarazione di questa peculiare categoria di contribuente.

Si ribadisce il punto: la dichiarazione dei redditi viene compilata, e inviata, sulla base dei dati risultati dalle scritture contabili (libro giornale, registri IVA, libro cespiti ammortizzabili, ecc…).

La stessa potrà essere rettificata dall’Amministrazione finanziaria senza che vengano considerate le componenti positive[2] e negative[3] che conducono al risultato economico (reddito o perdita) dell’esercizio, ma partendo dalla considerazione, o, meglio suggestione, di un giudizio di non verosimiglianza del reddito dichiarato con quello effettivo.

2) Accertamento ex art. 39 D.P.R. 600/1973. Soggetti passivi e requisiti necessari.

Il legislatore, all’art. 39 del D.P.R. 600/1973, ha previsto la possibilità che l’Amministrazione possa ricorrere a tre tipi di accertamento: analitico, analitico-induttivo ed induttivo “puro”.

Tale metodologia accertativa viene utilizzata dall’Ufficio per la ricostruzione del reddito o del volume d’affari, partendo dai dati contabili.

Il primo comma, in particolare, prevede che si possa procedere, nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili (in sostanza, imprenditori e lavoratori autonomi), ad accertamento di tipo:

- analitico[4]: in presenza di una contabilità corretta - in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti - qualora vi siano divergenze tra gli elementi documentali e la dichiarazione, in quanto:

- le componenti positive e negative di reddito indicate nella dichiarazione non corrispondano a quelle iscritte in bilancio (lett. a);

- non siano state correttamente applicate le disposizioni sul reddito di impresa (lett. b);

- la dichiarazione contenga dati incompleti[5], falsi[6] o inesatti[7] (lett. c), risultanti in modo certo e diretto dai verbali redatti in occasione della comparizione del contribuente presso gli Uffici, o dal questionario redatto dal contribuente su richiesta dell’Ufficio, o dai documenti esibiti in tale occasione, o dalle dichiarazioni di altri soggetti, o dai verbali relativi ad ispezioni presso altri soggetti;

- analitico-induttivo[8], in presenza di una contabilità corretta, qualora la dichiarazione contenga dati incompleti, falsi o inesatti[9], i quali risultino: dall’ispezione delle scritture contabili, o dalla verifica condotta presso il contribuente, o dal controllo delle fatture e della documentazione contabile, o dai dati e dalle notizie raccolte dagli Uffici ex art. 32 D.P.R. 600/1973; l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici[10], purché gravi, precise e concordanti (lett. d).

L’art 39, comma 2, prevede il c.d. accertamento induttivo “puro[11]”; con tale metodologia accertativa è previsto che, in deroga alle disposizioni di cui al primo comma – e, pertanto, in deroga alle scritture contabili tenute – l’Ufficio determini il reddito, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza[12], con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, e, all’uopo, possa avvalersi anche di presunzioni “semplicissime”, non qualificate[13], prive, cioè, dei requisiti della precisione, gravità e concordanza[14].

E’ bene precisare che l’Amministrazione finanziaria potrà procedere ad accertamento extracontabile solo in presenza di specifiche condizioni richieste dalla legge.

Difatti, per poter ricostruire complessivamente il reddito d’impresa del contribuente, sulla scorta del 2° co. dell’art. 39 (che permette di prescindere sia dall’impianto contabile sia dall’utilizzo di presunzioni dotate dei caratteri della precisione, gravità e concordanza), è necessaria ed indefettibile sussistenza di tassative condizioni:

a) quando il reddito d’impresa non è stato indicato in dichiarazione;

b) quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art 33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili prescritte dall’art 14 ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;

c) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni, accertate ai sensi del precedente comma, ovvero la irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica;

d) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli Uffici ai sensi dell’ art. 32, 1 comma, nn 3 e 4, del presente decreto o dell’art 51, 2 comma, nn 3 e 4 del D.P.R. 633 del 72.

3. L’accertamento analitico-induttivo e la “qualificazione delle presunzioni”.

L’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i corrispettivi e i compensi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis del D.L. n. 331 del 30 agosto 1993[15], potranno rappresentare delle presunzioni, per l’Amministrazione finanziaria, sulle quali costruire l’intero procedimento accertativo.

Il criterio della ragionevolezza era già stato sancito dalla Cassazione nel lontano 1995, la quale aveva precisato che la contabilità del contribuente professionista, pur se formalmente corretta, dovesse essere considerata essenzialmente inattendibile, allorché configgente con il normale senso comune, con conseguente legittimità dell’accertamento induttivo[16]. Allo stesso modo, la Suprema Corte, con sentenza n. 14292 del 30 ottobre 2000, aveva affermato che “il numero dei soggetti ad imposta che abbiano le proprie scritture contabili presso un professionista è un valido parametro per l’accertamento induttivo dei redditi del professionista stesso, ed anche per considerare inattendibile la eventuale contabilità tenuta dal professionista stesso”. Ed ancora, la stessa sentenza aveva enunciato un principio fondamentale: “il parametro secondo cui il numero dei clienti è uno degli elementi da cui è possibile trarre induttivamente il reddito di un soggetto è poi conforme ad una giurisprudenza ormai pacifica di questa Corte[17]”.

Sarà, pertanto, onere del contribuente-professionista addurre elementi in grado di superare tali presunzioni[18]. La presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare la propria opera a titolo gratuito, o dilazionando la richiesta di compenso, è agilmente superabile attraverso una prova puntuale e specifica (ma non attraverso una mera asserzione).

In un sistema che consente l’utilizzazione delle presunzioni a favore dell’Amministrazione, l’unico rimedio posto a carico del contribuente è quello dell’inversione dell’onere della prova[19]. A tale presunzione, potrà opporsi agevolmente che, per quanto riguarda la prestazione professionale, non rileva il momento iniziale o finale della stessa: il sistema di determinazione del reddito di lavoro autonomo applica il criterio c.d. “di cassa[20]”.

Così, nel caso del medico dentista, sarà possibile opporre alla presunzione siffatta, che il numero delle visite giornaliere[21] dichiarate non può implicare, di per sé solo, sotto il profilo delle presunzioni, un pagamento proporzionale: occorre, di converso, considerare il pagamento a cura completata[22]. Ciò accade anche all’ingegnere per la redazione di un progetto relativo ad opere importanti, e accade anche all’avvocato, soprattutto nelle cause la cui durata non è preventivabile.

4. In particolare: l’accertamento induttivo effettuato nei confronti dell’avvocato che emette poche fatture. Giurisprudenza.

Recentemente la Suprema Corte, sentenza n. 7460 del 27/03/2009, ha affermato che costituisce una valida presunzione, ai fini dell’accertamento induttivo effettuato nei confronti del professionista – avvocato, “l’emissione di un numero di fatture non congruo rispetto al decoro e all’onore della professione, oltre che rispetto al numero di ricorsi depositati in favore dei propri clienti”.

Nella sentenza in parola si è ribadita la legittimità dell’accertamento induttivo utilizzato dall’Amministrazione finanziaria per rettificare il reddito di lavoro autonomo dichiarato da un professionista, il quale aveva emesso un numero di fatture irrisorio.

Nella fattispecie in esame, in particolare, l’Ufficio delle Imposte Dirette di Roma aveva rettificato il reddito di lavoro autonomo per l’attività forense, a seguito di una verifica da cui era emerso che il ricorrente aveva emesso soltanto 25 fatture, a fronte della presentazione di un numero di ricorsi civili ed amministrativi pari ad oltre 200. Il professionista, in risposta, aveva eccepito che un notevole numero di tali ricorsi era stato presentato per gli iscritti ad un sindacato del cui ufficio legale egli faceva parte e per i quali aveva riscosso compensi irrisori solo all’esito favorevole delle relative vertenze. In particolare, il professionista aveva eccepito altri elementi da cui poter desumere il suo tenore di vita effettivo, quali la propria abitazione, il suo studio professionale, gli stessi accertamenti bancari eseguiti dalla G. di F. La Suprema Corte, tuttavia, ha confermato quanto affermato dai giudici della Commissione Tributaria Regionale, in quanto una dichiarazione annuale dei redditi di € 6.590,00 non appariva congrua rispetto alla mole di lavoro effettuata, che per quell’anno consisteva nella presentazione di ricorsi per oltre 200 clienti.

La sentenza richiamata pare inserirsi nell’orientamento della stessa Suprema Corte con Cass. Civ., Sez. Trib., 13/04/2007, n. 8886, secondo cui l’Amministrazione finanziaria può procedere, anche in via indiziaria, all’accertamento di maggiori ricavi in materia di reddito d’impresa o di lavoro autonomo, anche in presenza di una contabilità regolarmente tenuta. Ha inoltre ritenuto legittimo l’accertamento, operato nei confronti dei professionisti, sulla base dell’elenco clienti e del giro d’affari degli stessi.

Nella specie, l’Ufficio aveva proceduto alla determinazione dei compensi percepiti dalla contribuente sula base della lista dei suoi clienti e dei ricavi da loro dichiarati, tenuto conto delle tariffe professionali.

A sostegno di quanto sopra la stessa Suprema Corte con Cass. Civ., Sez. Trib., 24 novembre 2006, n. 25002, relativamente ad un ricorso presentato nell’interesse di un commercialista, per il quale si era proceduto alla rideterminazione induttiva del reddito, in quanto il numero dei clienti era notevolmente superiore al numero delle fatture emesse e al reddito dichiarato, aveva ribadito che: “giova preliminarmente ricordare che in mancanza di contrarie disposizioni di legge, la prova della percezione di un reddito può anche essere data per presunzioni e che la necessità, sul piano sostanziale, di tener conto dei soli compensi concretamente percepiti nel periodo di imposta, non esclude la possibilità, sul piano probatorio, di ritenere pagate, nell’anno stesso di esecuzione, tutte quelle prestazioni per le quali sussistono elementi capaci di giustificare simile convincimento. Tanto puntualizzato, rimane unicamente da aggiungere che nella fattispecie in questione, la Commissione Regionale ha desunto il tempestivo pagamento delle prestazioni dal numero delle stesse, dalla caratura dei beneficiari, dalla consistenza dell’opera prestata in loro favore, dalle caratteristiche della struttura utilizzata e dalla mancata indicazione, da parte del contribuente professionista, di elementi atti a dimostrare il contrario”[23].

Anche la giurisprudenza di merito, Commissione Tributaria Centrale, Sez. XXV, sentenza n. 799 del 04 marzo 1997, aveva sancito la correttezza dell’accertamento induttivo dei redditi, previsto dall’art. 39, comma 2, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, promosso nei confronti dei soggetti esercenti arti e professioni, per cui aveva legittimato l’operato dell’ufficio che aveva proceduto nei confronti di un commercialista mediante lo strumento dell’accertamento induttivo, ponendo a fondamento di esso una ragionevole presunzione di inattendibilità della dichiarazione dei redditi del contribuente; a tale scopo demandava l’onere della valutazione estimativa dell’entità del volume d’affari alla competente Commissione tributaria regionale.

Il maggior numero dei clienti rispetto a quello delle fatture emesse e la sproporzione tra l’ammontare di queste ultime, anche in relazione al probabile impegno profuso dal professionista nella sua prestazione d’opera, costituiscono circostanze idonee a far sì che l’Ufficio presuma l’esistenza di attività non dichiarate e reputi inattendibile la documentazione contabile.

In tali casi, occorrerà dimostrare che il compenso del professionista è esattamente quello indicato in fattura, indipendentemente dal numero delle “pratiche” svolte o in trattazione.

Giova ribadire che la determinazione della base imponibile degli esercenti arti e professioni segue il criterio di cassa quindi rileva solo ed esclusivamente il momento della percezione del compenso, a nulla rilevando l’inizio della prestazione professionale.

Gli strumenti probatori dei quali potrà servirsi il professionista sono della stessa natura di quelli adottati dall’Amministrazione finanziaria, ovvero potrà avvalersi di presunzioni per confutare il ragionamento inferenziale dell’Ufficio fiscale.

Così, come ha affermato dalla giurisprudenza di merito, Commissione Tributaria Regionale Sicilia, Sez. 1, sentenza n. 13 dell’08.04.2008[24], è ragionevole ritenere che solo la conclusione della vertenza, con esito favorevole per il cliente, possa far legittimante concludere per la corresponsione del corrispettivo da parte di questi.

Conseguentemente è prudente che il professionista adotti ogni cautela per salvaguardare il proprio credito professionale, non solo per il credito in sé, ma anche perché rinunciarvi, sic et simpliciter, potrebbe condurre l’Ufficio fiscale ad un giudizio di percezione “in nero” dello stesso. In definitiva ci si potrebbe trovare dinanzi alla mancata percezione del corrispettivo professionale e alla contestazione del mancato pagamento delle imposte ad esso relativo, ovviamente con la comminazione di sanzioni.



[1] L’art. 39, comma 3, D.P.R. 600/1973 estende la metodologia accertativa relativa alle imprese, di cui al primo comma, anche al reddito di lavoro autonomo, essendo identico il presupposto: la tenuta delle scritture contabili.

[2] ricavi, plusvalenze e sopravvenienze attive per le imprese e compensi per gli esercenti arti e professioni.

[3] costi, minusvalenze e sopravvenienze passive per le imprese e costi per gli esercenti arti e professioni.

[4] Definito anche analitico-contabile, in quanto “consiste nell’analisi della contabilità complessivamente e nelle singole poste e nel suo raffronto con le indicazioni contenute nella dichiarazione, o con le informazioni desunte dall’esercizio dei poteri istruttori”, cfr. A. FANTOZZI, Il diritto Tributario, UTET, 2003, p. 435.

[5] L’incompletezza dei dati attiene a situazioni in cui il contribuente, pur avendo l’obbligo di inserire in dichiarazione dati ed elementi, non ottempera a tale obbligo.

[6] La falsità attiene alla inesattezza dei dati rappresentati in dichiarazione, ma si differenzia dalla stessa, per l’animus del soggetto agente di alterare – con volontà – il contenuto della dichiarazione, al fine di evidenziare una rappresentazione distorta della propria attività economica o professionale.

[7] L’inesattezza attiene alla non conformità dei dati rappresentati nella dichiarazione, con i dati risultanti dalle scritture contabili e dalla documentazione obbligatoria ai fini fiscali.

[8] Questo metodo di accertamento rimane nell’ambito della contabilità del soggetto, per cui è definito induttivo-contabile, in quanto “si avvale di elementi inferenziali esterni alla contabilità (i fatti certi su cui si basano le presunzioni), per indurre conseguenze sulla determinazione del reddito, senza sovvertire o alterare l’impianto contabile”: cfr. A. FANTOZZI, cit., p. 436.

[9] Per le nozioni di incompletezza, inesattezza e falsità dei dati, v. note 2, 3 e 4.

[10] Il legislatore tributario non ha previsto una definizione di presunzione, ma ha operato un mero richiamo al concetto di presunzione disciplinato dal codice civile all’art. 2727, il quale qualifica la presunzione come “la conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. La presunzione viene definita da F. Gavioli, “Legittimo accertamento induttivo per l’avvocato che emette poche fatture”, in Pratica Fiscale e Professionale, n. 20 del 18 maggio 2009, come una “prova indiretta”, scaturente da qualsiasi argomento o congettura attraverso cui, partendo da un fatto noto, si perviene a considerare provata un’altra circostanza, sfornita, quest’ultima, di prova indiretta”. Ebbene, l’Amministrazione finanziaria in tal modo viene facilitata nel dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria, ed il contribuente che intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti avrà l’onere contrario di dover dimostrare l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi.

[11] Questo metodo di accertamento, definito in dottrina induttivo-extracontabile, presenta rilevanti conseguenze sotto il profilo della prova e della motivazione. “La maggiore difficoltà per il contribuente di opporsi ad un accertamento induttivo o extracontabile deriva soltanto dal necessario maggior argine di apprezzamento riservato all’ufficio nell’esercizio di una funzione pubblica di accertamento, privata del supporto della obbligatoria collaborazione da parte del privato”: così A. Fantozzi, op. cit., p. 437.

[12] La lettera d-bis) del secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973, consente l’accertamento induttivo anche qualora il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dall’ufficio ai sensi dell’art. 32, primo comma, nn. 3 e 4, del D.P.R. 600/1973. Le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente,. Si fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. Tale principio è affermato anche dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sez. 27, nella sentenza n. 38 del 13.04.2006, che legittima l’accertamento induttivo effettuato a fronte della mancata risposta del contribuente al questionario, regolarmente notificato. La sola mancata risposta al questionario consente all’ufficio – direttamente – di agire induttivamente, senza che sia necessario dimostrare di aver proceduto in altro modo a rintracciare il contribuente: così CAPUTI, L. n. 28/1999: maggiori poteri di accertamento per l’Amministrazione finanziaria e diritto di difesa, in “Il fisco”, n. 10/1999, p. 3377.

[13] La possibilità di utilizzo delle presunzioni in campo tributario è stata espressamente prevista dall’art. 39 del D.P.R. 600/73, in tema di imposte dirette, e dagli artt. 54 e 55 del D.P.R. 633/1972, in tema di IVA, al fine di ridurre l’onere probatorio in capo all’Amministrazione finanziaria nell’attività di accertamento. Sono consentite presunzioni solo a favore dell’Amministrazione finanziaria e non è consentito, nemmeno astrattamente, che esse operino a favore del contribuente. Tuttavia la loro operatività è vincolata all’esistenza di specifici riscontri nelle scritture contabili.

[14] L’utilizzo di presunzioni semplicissime è previsto se: nella dichiarazione non è stato indicato il reddito; per la dichiarazione dei redditi presentata prima del 1° gennaio 1998 non siano stati allegati il bilancio e il conto profitti e perdite; non sia stato possibile ispezionare le scritture contabili, purchè ciò risulti dal verbale di ispezione; le omissioni o le false o inesatte indicazioni accertate in contabilità e le irregolarità formali delle scritture contabili siano gravi, numerose e ripetute, tanto da rendere inattendibile la contabilità; il contribuente non abbia adempiuto all’invito ad esibire o trasmettere atti e documenti, o non abbia risposto ai questionari relativi alla richiesta di dati e notizie di carattere specifico.

[15] L’art. 62 sexies del D. L. 331/1993 enuclea il principio secondo cui l’accertamento induttivo possa essere fondato sull’esistenza di gravi incongruenze rispetto a quanto previsto dagli studi di settore, pur senza fissare un automatismo nell’attività di accertamento dell’ufficio, ma una mera facoltà. La Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, con sentenza n. 440 del 26/03/2007, ha statuito che l’accertamento del reddito, in linea di principio, deve essere ancorato alle risultanze delle scritture contabili, qualora l’impresa sia obbligata alla loro tenuta e la stessa sia regolarmente tenuta, in quanto essa “ha una sua preminente rilevanza ai fini fiscali, avendo il contribuente diritto a che essa sia posta a base dell’accertamento”. In tal modo, i giudici di codesta On.le Commissione hanno sancito l’inapplicabilità degli studi di settore in presenza di una contabilità fedele e in assenza di gravi incongruenze tra i ricavi rilevate dall’Ufficio, facendo desumere che per adottare in sede di accertamento le risultanze degli studi di settore occorra preventivamente l’accertamento della contabilità ordinaria, da cui risulti la sua inattendibilità, e l’esistenza di gravi incongruenze tra i dati dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore.

[16] Cassazione Civile, Sez. I, 17 ottobre 1995, n. 10823, nella quale era stata ritenuta inattendibile la contabilità di un professionista, nella specie, un commercialista, il quale aveva dichiarato perdite per tre periodi fiscali consecutivi; Commissione Tributaria Regionale Sicilia, sez. XIV, sentenza n. 47 del 2003, nella quale è stato dichiarata l’inattendibilità della contabilità del professionista, la quale configgeva con il senso comune, oltre che con le regole fondamentali di ragionevolezza. In tale fattispecie, in particolare, la Commissione aveva dichiarato legittimo l’operato dell’ufficio che aveva proceduto induttivamente, poiché il volume di affari dichiarato dal contribuente risultava incongruo rispetto al numero dei soggetti assistiti.

[17] A tal fine, la sentenza citata richiama la sentenza della Cassazione n. 51 del 7 gennaio 1999, secondo cui il reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero di coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati, oppure dalla quantità di materie prime utilizzate.

[18] Relativamente all’onere della prova nel processo tributario, L. Leo, Onere della prova nel processo tributario, Rassegna Tributaria 4/2006, p. 1305, secondo il quale “la dinamica che conduce all’instaurazione del processo tributario, sostanziandosi nella richiesta del contribuente di vedere annullata, o rettificata, la pretesa pecuniaria dell’Amministrazione finanziaria non muta le regole del giudizio sul fatto incerto. Il fatto che è il contribuente a doversi rivolgere al giudice tributario per sentire dichiarata la illegittimità della pretesa avanzatagli dall’Amministrazione finanziaria, non deve far ritenere che gravi in capo a costui la dimostrazione in sede processuale della insussistenza di detta pretesa. Questi, in definitiva, sarà attore solo in senso formale ma rimarrà convenuto in senso sostanziale dall’Amministrazione finanziaria, la quale deve indicare e provare i fatti costitutivi della pretesa avanzata. Solo quando l’Amministrazione finanziaria avrà dimostrato i fatti costitutivi della propria pretesa, il contribuente sarà onerato a provare o l’inefficacia dei fatti provati dall’attore o che il diritto da questa provato si è modificato o estinto”. Relativamente all’inversione dell’onere della prova, Cass. Sentenze n. 5794 del 19/04/2001, anche nella determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione del cosiddetto "redditometro" l’Amministrazione finanziaria è dispensata da qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti, indici di maggiore capacità contributiva, individuati dal redditometro stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere, pertanto, l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore è posto a carico del contribuente. Dello stesso avviso, Cassazione civile , sez. trib., 10 ottobre 2008 , n. 24912, nella quale si afferma che "I coefficienti presuntivi di reddito di cui al D. P. C. M. 29 gennaio 1996 (parametri) ... non costituiscono prove neppure presuntive di reddito e non possono da soli sostenere un avviso di accertamento di maggiore imponibile"; "in caso di discordanza tra quanto dichiarato e quanto risultante dai calcoli in forza ai c.d. parametri, non sussiste una presunzione iuris tantum a favore dell’Ufficio, con conseguente inversione dell’onere della prova") -, l’applicazione dei parametri pone (Cass. trib.: 14 marzo 2008 n. 6924; 14 febbraio 2007 n. 3223, tra le recenti) una presunzione legale relativa, superabile solo con la prova contraria, data dal contribuente, con la dimostrazione di circostanze specifiche le quali rivelino concretamente il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore in quanto i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statistica, ma non astratta, riferita a un determinato settore economico”. Ed inoltre, a conferma che non si tratta di presunzioni juris et de jure, ma di presunzioni contro cui graverà sul contribuente l’onere di provare il contrario; così anche la Commissione Tributaria Regionale Sicilia, sent. cit.

[19] Cassazione Civile, Sez. V, sentenza n. 2891 del 27 febbraio 2002, secondo cui “il contribuente ha l’onere (quanto ad allegazione ed a prova) di giustificare lo scostamento rilevato dall’Ufficio nell’avviso di accertamento”.

[20] Ai professionisti è applicabile il criterio di cassa e non quello di competenza, ragion per cui i costi sopportati in un anno potrebbero riferirsi a prestazioni fatte o pagate nell’anno successivo e, quindi, in un altro periodo di imposta.

[21] La Suprema Corte, con sentenza n. 4772 del 2001, ha asserito che i compensi tariffari minimi possono integrare presunzioni gravi, precise e concordanti sull’entità dei ricavi del professionista, conformemente al dettato di legge che disciplina le presunzioni stesse, considerando la rilevante probabilità, cioè l’id plerumque accidit, che i contraenti si siano conformati a disposizioni inderogabili. Tuttavia, tali presunzioni saranno atte a ricostruire i redditi di lavoro autonomo solo se le prestazioni in concreto svolte siano state identificate in maniera certa, poiché è questo il presupposto per poter individuare le voci tariffarie da applicare e gli onorari minimi da esse accordati.

[22] Cassazione Civile, sentenza n. 2744 del 10 marzo 2000, la quale accoglieva il ricorso del medico dentista avverso l’accertamento di tipo induttivo. In esso il ricorrente segnalava la peculiarità della prestazione odontoiatrica, la quale si articola in una pluralità di sedute, con normale erogazione dell’onorario all’esito, vincendo la presunzione dell’Ufficio.

[23] Già la Cassazione Civ., Sez. trib., 30 ottobre 2000, n. 14292, aveva affermato che: “Il parametro secondo cui il numero dei clienti è uno degli elementi da cui è possibile trarre induttivamente il reddito di un soggetto è poi conforme ad una giurisprudenza ormai pacifica di questa Corte”. Costituisce, quindi, un possibile parametro per l’accertamento induttivo dei redditi del professionista anche il numero dei soggetti ad imposta che hanno le proprie scritture contabili presso il professionista, anche per considerare inattendibile la eventuale contabilità tenuta dal professionista stesso.

[24] Commissione Tributaria Regionale Sicilia, Sez. 1, con sentenza n. 13 dell’08.04.2008: “Invero nel rapporto tra il professionista ed il cliente, capita spesso che il primo, per mantenersi buono il cliente, chiede, all’atto del conferimento dell’incarico, acconti limitatamente alle spese da sostenere, mentre il compenso vero e proprio viene procrastinato all’atto della cessazione del servizio professionale. [...] In sostanza, la vera e propria retribuzione del professionista si ha al momento della completa prestazione del servizio”.