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Criminalità d’impresa: discipline a confronto

L’esperienza nei Paesi di common law

La rinnovata consapevolezza della gravità e della dilagante estensione dei fenomeni delittuosi che possono annidarsi presso un’impresa porta a dover considerare criticamente il principio societas delinquere non potest e a ridefinire con assoluta coerenza sia i criteri di attribuzione della responsabilità sia le tipologia delle eventuali sanzioni da prefigurare a carico della persona giuridica.

L’analisi delle più importanti risposte normative di diritto comparato al problema della criminalità d’impresa ci permetterà di valutare meglio le indicazioni provenienti dal legislatore italiano; non si può, infatti, misurare la reale portata innovativa del D. Lgs. n. 231 del 2001 senza esaminare quali siano gli esempi cui far riferimento nel disciplinare questa materia.

Il tema della responsabilità penale delle persone giuridiche ci dimostra come sia in atto un processo di reciproco avvicinamento fra i sistemi di common law, sempre fedeli a soluzioni di stampo pragmatico, e di civil law, caratterizzati ed influenzati, invece, da una rigorosa elaborazione dogmatica.

Nel sistema inglese assistiamo ad un graduale ripensamento dei tradizionali criteri di attribuzione della responsabilità che nascono già nel corso del XIX secolo.

Le prime pronunce giurisprudenziali propendono per il riconoscimento di due tecniche di controllo della criminalità delle corporations: il principio della c.d. vicarious liability e l’identification theory.

Nella prima la responsabilità che ne deriva è di natura indiretta ed ha come presupposto il meccanismo della delegazione: si basa sull’imputazione all’ente del reato commesso da uno qualunque dei suoi agenti, consistente nella violazione di un dovere a lui delegato il cui adempimento è posto dallo statuto a carico dell’ente stesso.

Essa riguarda soltanto casi di strict liability, cioè situazioni non coperte da mens rea, e corrisponde alla responsabilità oggettiva del nostro ordinamento.

Terreno elettivo esclusivo di tale meccanismo sono le c.d. regulatory offences, disposizioni a tutela del consumatore, norme relative alla corretta gestione degli affari, disposizioni in materia di commercio, sicurezza pubblica, ambiente; si tratta di aree neutre dal punto di vista morale, nelle quali si hanno come obiettivi la prevenzione del danno derivante dall’esercizio dell’attività e lo sviluppo del benessere pubblico.

Tale responsabilità vicaria, però, lungi dal sostituire quella dell’autore materiale del reato, quasi sempre si aggiunge ad essa e trova giustificazione nella particolare efficacia deterrente tradizionalmente riconosciuta alla minaccia sanzionatoria nei confronti del vertice dell’impresa.

E’ sufficiente provare il semplice nesso di appartenenza dell’autore all’impresa ed il rapporto di autorità che lega i soggetti coinvolti, non consentendo, di regola, la defense della due diligence da parte dell’ente.

Pertanto, le uniche ipotesi di esclusione della responsabilità si hanno nel caso in cui manchi tale nesso o perché il dipendente agisce a proprio esclusivo profitto o perché realizza un fatto assolutamente estraneo alle mansioni affidategli oppure nel caso in cui venga meno alle istruzioni specifiche impartite dal datore di lavoro.

L’identification theory, invece, comincia a delinearsi soltanto dagli anni ’40; si fonda sull’idea che la corporation si identifica nel comportamento dei suoi dirigenti e si applica quindi alle fattispecie strutturate con elemento psicologico. Secondo tale criterio, anche detto principio dell’alter ego, una volta individuati i soggetti posti al vertice e che svolgono funzioni di management e provata l’esistenza del reato, quest’ultimo viene automaticamente imputato all’organizzazione.

Si presume, infatti, che si tratti di persone fisiche che “sono o hanno la mente direttrice della compagnia, la sua volontà, il suo ego e il suo cervello”.

Entrambe le soluzioni avanzate, però, denotano una “miopia” verso le procedure di controllo interno e le scelte di politica aziendale proprie di ogni singola organization; infatti il risultato cui pervengono è l’incapacità di includere fenomeni che sono lontani dagli schemi tipici della responsabilità penale degli individui. Infatti, il criterio della vicarious liability appare troppo esteso perché si applica nei confronti di tutti gli impiegati di una società, senza distinzioni di ruolo e di responsabilità, né tiene conto dei limiti della delega e dell’autoregolamentazione dell’azienda; l’identification theory non considera le differenti dimensioni che può avere una società, con una divisione e ripartizione dei compiti all’interno della stessa.

Soltanto con il caso Meridian del 1995 ci si sposta verso un approccio più realistico e legato ai meccanismi della gestione d’impresa dai quali scaturiscono i comportamenti offensivi dei beni giuridici.

Le corti inglesi si distaccano dal principio secondo il quale l’ente si identifica sempre e solo negli atti dei suoi dirigenti per adottare un criterio più flessibile e rispettoso dell’effettiva distribuzione del potere decisionale nelle organizzazioni complesse.

Nel caso giurisprudenziale appena menzionato due capi dell’ufficio della Compagnia agendo per conto della società ma all’insaputa del gruppo dei dirigenti della stessa, violano una disposizione del Securities Amendment Act del 1988 che “impone sia resa manifesta l’identità dei soggetti che divengono titolari effettivi nell’emissione di titoli pubblici”.

In tal modo viene strutturato un criterio d’imputazione che non ha come riferimento esclusivo la posizione ricoperta dall’individuo all’interno dell’organizzazione; viene avallato, invece, il concetto di “management failure”, che viene confermato l’anno successivo con il Law Commission Report n. 237 in relazione al nuovo reato di omicidio d’impresa.

Tale intervento, reso improcrastinabile dalla diffusione dei white collar crimes, introduce un’innovativa figura di manslaughter destinata in via esclusiva alla corporation, il corporate killing.

Entra così in crisi l’approccio tradizionale della dottrina che ipotizza una criminalità attuata da singoli soggetti e si lascia spazio, di conseguenza, all’illecito d’impresa, inteso come un fenomeno patologico che si insidia e nasce proprio nella struttura dell’organizzazione.

Tale nuova teorizzazione prende il nome di “corporate crime” e abbraccia una visione strutturale della criminalità, che vede il suo punto sorgente nei processi organizzativi e decisionali dell’impresa stessa.

Siamo ad una svolta epocale nel Regno Unito che segna una rottura con il passato e l’emersione di una concezione moderna della responsabilità penale delle persone giuridiche, ancorata alla sussistenza o meno di determinati standards organizzativi all’interno di una corporation.

Anche l’ordinamento federale australiano si contraddistingue per una riforma coraggiosa, elaborando soluzioni diverse rispetto all’iniziale dipendenza rispetto alle scelte dell’esperienza inglese.

Il Criminal Code Act del 1995 nella part. 2.5 prevede meccanismi di iscrizione della responsabilità degli enti, individuando in primis l’actus reus di un reato (s. 12.2) e, successivamente, l’autonoma colpevolezza della persona giuridica (s. 12.3).

La s. 12.2 si riferisce <>. La s. 12.3 prevede che l’elemento soggettivo <<[…] deve essere attribuito al body corporate che abbia espressamente o implicitamente autorizzato o permesso la commissione del reato>>.

Con tali disposizioni si sottolinea che la commissione di un reato deriva dal fallimento della corporation nel creare una cultura d’impresa improntata al rispetto della legalità.

Per i reati che richiedono, invece, la negligence, la s. 12.4 definisce negligente quella condotta che si allontana notevolmente da quella che ci si sarebbe attesi da una reasonable person. In particolar modo il Criminal Code Act del 1995 stigmatizza la mancanza di adeguati sistemi di gestione, controllo e supervisione della condotta dei dipendenti della persona giuridica.

La responsabilità degli enti nei sistemi di civil law

Lo stesso approccio pragmatico, evidenziato nella prassi dagli ordinamenti anglosassoni, si ritrova nel sistema olandese che sin dal 1976 accoglie un meccanismo molto semplificato sul punto: “La negligenza o l’intenzione della persona giuridica si presumono essere l’aggregazione ed il cumulo della negligenza e dell’intenzione dei singoli individui. In questo contesto, non vi sono problemi se un organo ufficiale dell’organizzazione ha deciso di porre in essere il reato. Ma anche quando gli autori materiali-persone fisiche sono ai gradini inferiori o addirittura operano fuori dall’organizzazione, è possibile trasferire l’elemento soggettivo da questi all’impresa se vi sono argomentazioni riconducibili al contesto sociale che consentano di operare in tal modo”.

Questa totale parificazione tra persone fisiche e persone giuridiche riguardo l’elemento psicologico ha il pregio di svincolarsi dai problemi dogmatici, ma si lega ad un concetto troppo labile quale quello del social context dell’organizzazione che non include tutte le fattispecie in cui il corporate crime si manifesta; anzi tende ad ammettere la responsabilità dell’ente anche quando il reato è riconducibile alla mera iniziativa del singolo.

Con l’evoluzione della prassi giurisprudenziale, però, si delineano criteri più restrittivi in relazione all’imputazione dell’elemento materiale e psicologico: in caso di dolo, è necessario valutare se la persona giuridica diriga direttamente l’“illegal corporate culture”; quando si tratta di colpa, si accerta se ricorre una circostanza nel corso della quale, nonostante vi siano le condizioni per intervenire ovvero comunque vi sia la conoscenza di una determinata condotta illecita, il soggetto collettivo, senza attivarsi, accetta di fatto la situazione esistente.

L’ordinamento francese, invece, ha per lungo tempo negato che un ente potesse essere chiamato a rispondere in prima persona in sede penale di un fatto di reato.

Le pregiudiziali ideologiche in tema di societas delinquere non potest sono essenzialmente tre: l’ente collettivo è considerato una finzione, “svuotato di ogni volontà propria, mentre il diritto penale non può che fondarsi sulla colpevolezza”; il c.d. principio di specialità di stampo civilistico, secondo il quale l’attribuzione all’ente della personalità giuridica trova la propria ragion d’essere solo nel perseguimento dei fini sociali che per loro natura non possono consistere nella realizzazione di fatti antigiuridici; le sanzioni applicabili sono rivolte esclusivamente alle persone fisiche.

Soltanto con l’emanazione del nuovo Codice penale francese del 1994, che sostituisce il Codice penale Napoleonico del 1810, si superano tali visioni aprioristiche e viene così introdotto l’art. 121-2, il cui primo comma recita testualmente: <>. Riguardo gli enti pubblici territoriali e i loro groupements, ovvero consorzi, si limita la responsabilità alle <> (art. 121-2, comma 2).

A differenza del sistema italiano, quello francese non è dotato di un micro-sistema di norme ad hoc per la responsabilità penale degli enti e soprattutto non prevede una codificazione del concetto di colpa del soggetto collettivo.

Il meccanismo di imputazione è molto semplice: il reato commesso dagli organi o dai rappresentanti si riflette sulla persona giuridica.

Si parla infatti, di responsabilità per rappresentazione, par reflex o par ricochet; la dottrina afferma che “dietro lo schermo della persona giuridica ci sono sempre le persone fisiche”.

I primi anni di applicazione dell’art. 121-2 c.p. si distinguono per una ritrosia nell’affrontare i fondamenti teorici della materia e una tendenza all’imputazione automatica della responsabilità.

Tale soluzione emerge per la mancata tipizzazione legislativa di altri criteri di ascrizione, quali ad esempio una difettosa organizzazione aziendale o la mancata adozione di un organismo di controllo interno, che, invece, fungerebbero da punti di riferimento per l’organo giudicante in modo da evitare il sorgere di responsabilità oggettiva o “da posizione”.

Quest’effetto distorsivo viene ad essere acuito ancora di più dalla emanazione della legge 204/2004, cd. Loi Perben II, entrata in vigore il 31 settembre 2005, con la quale il legislatore ha abolito la clausola di specialità, optando per una piena comparazione tra persone fisiche e persone giuridiche. Il reato commesso “pour le compte” della persona giuridica, inoltre, non esclude l’applicazione dell’art. 121-2 c.p. quando l’organizzazione è utilizzata per soddisfare interessi esclusivamente personali o comunque estranei all’attività dell’ente.

Situazioni che ai sensi del secondo comma dell’art. 5 sono opportunamente escluse dall’ambito di applicazione del D. Lgs. n. 231 del 2001.

Interessante è notare come la Cassazione francese, ad un’iniziale chiusura verso la necessità di accertare un fatto autonomo in capo alla persona giuridica, abbia aperto qualche spiraglio nel principio della responsabilità par ricochet, ammettendo la condanna esclusiva dell’ente per i reati colposi “senza autore”. Possiamo evidenziare, quindi, che la teoria par reflex si dimostra insoddisfacente se applicata ai reati che provengono da una decisione collegiale o ai reati colposi d’impresa, caratterizzati da anonimia del danno e della responsabilità.

Nella maggioranza dei casi la condotta della persona giuridica trascende quella dei suoi componenti, comprimendo i contenuti tradizionali del principio di responsabilità e rendendo di fatto difficilmente rintracciabile la singola condotta e volontà colpevole.

E’ auspicabile che per contrastare rischi qualificati si adottino meccanismi che prescindano dall’individuazione del reo e dalla prova della sua colpevolezza a favore dell’accertamento di un difetto di sorveglianza o di organizzazione direttamente in capo all’ente.

In questa direzione sembra muoversi una sentenza del Tribunale di Versailles in materia di subappalto di manodopera, nella quale si rileva come il reato commesso sia il risultato << di una politica deliberata dell’impresa […], di una strategia adottata allo scopo di evitare di perdere fasce di mercato>>.

Ciò dimostra come la giurisprudenza francese preferisca ormai non attestarsi sul dato testuale della norma e si impegni nella ricerca di criteri ascrittivi ulteriori, che consentano di rinvenire un collegamento più pregnante tra il reato e la voluntas societatis.

Il codice penale svizzero, invece, attribuisce al concetto della “carente organizzazione interna” il ruolo di elemento costitutivo della responsabilità dell’ente collettivo.

L’art. 100 quater evidenzia la vocazione spiccatamente preventiva della colpevolezza degli enti in quanto garantisce sempre e comunque un soggetto responsabile per reati commessi nell’impresa o dall’impresa.

La scelta del legislatore elvetico prescinde, quindi, dall’accertamento di un aspetto che potremmo definire “umano” della responsabilità, e cioè la realizzazione del reato da parte di una persona fisica, non di rado reso difficile dall’impersonalità delle decisioni e dalla ramificazione dei processi aziendali, e “rimprovera” l’ente per non essersi attivato per impedire l’evento.

Diversamente dai sistemi sinora illustrati, l’ordinamento tedesco non ammette la responsabilità penale diretta degli enti.

In tale Stato si è scelto di contrastare le condotte illecite dei soggetti collettivi attraverso il diverso strumento della responsabilità amministrativa dell’ente, lasciando conseguentemente da parte le valutazione di stampo dogmatico relative al principio societas delinquere non potest.

Il testo normativo di riferimento è la Ordnungswidrigkeitengesetz (legge sulle infrazioni amministrative) del 1968.

Il § 30 di questa legge prevede che sorga responsabilità amministrativa a carico dell’ente quando un reato o un illecito amministrativo viene realizzato da parte di un suo organo o di un suo componente oppure da parte di un “amministratore o rappresentante o procuratore generale di una persona giuridica, o di una società o associazione priva di capacità giuridica” e quando esso si concretizza nell’inadempimento degli obblighi facenti capo all’ente o in un atto volto a portare a quest’ultimo un vantaggio. La norma, quindi, si basa sull’identificazione dell’ente con i suoi esponenti di vertice.

A differenza della responsabilità della persona giuridica per l’illecito amministrativo, prevista nell’ordinamento italiano dall’art. 6, l. n. 689/1981, la responsabilità contemplata dal § 30 non ha carattere di solidarietà ed è diretta e concorrente con quella inerente la persona fisica autrice dell’illecito. Il § 130 della legge citata prevede un’ipotesi di illecito amministrativo dato dal non impedimento di illeciti altrui.

Il titolare dell’impresa (che può essere un imprenditore individuale, una persona giuridica o un organismo collettivo) è responsabile per le violazioni commesse nell’ambito dell’organizzazione che possono consistere nell’omissione dolosa o colposa delle misure di controllo necessarie.

Fra queste ultime vengono espressamente menzionate la designazione, la scelta accurata ed il controllo del personale con compiti di sorveglianza.

Nella previsione di tale figura generale di illecito non penale, la violazione operata dal singolo viene considerata solo come una condizione oggettiva per la responsabilità della società o dell’ente e quindi per l’irrogazione di una sanzione; quindi, il criterio di imputazione causale non viene inteso in termini rigorosamente condizionalistici, ma si atteggia come nesso di mera agevolazione.

I “compliance programs” negli USA

La responsabilità penale delle corporations nell’ordinamento americano si afferma nel corso dei primi decenni dell’Ottocento.

In questo periodo storico le Corti cominciano a farsi interpreti dell’esigenza, sorta nel tessuto economico e sociale, di sanzionare penalmente anche gli enti collettivi.

Dapprima le corporations vengono ritenute responsabili solo per le ipotesi di common law offences of nuisance aventi forma omissiva (non feasance): si tratta di fattispecie bagatellari e di strict liability, ovvero senza lo svolgimento di alcuna indagine in relazione all’elemento psicologico dell’agente o della persona giuridica stessa.

Ben presto si giunge ad estendere la responsabilità anche alle ipotesi commissive, ma la vera svolta è costituita da una decisione del 1909, relativa al caso New York Central Hudson River Railroad Co. vs. United States, in cui la Corte afferma l’applicabilità del principio civilistico del respondeat superior quale criterio di imputazione del reato al soggetto collettivo.

Per la prima volta viene imputata automaticamente all’ente non solo la condotta materiale, ma anche l’elemento psicologico del suo agente in modo da ricomprendervi i casi di mens rea offences.

Nella decisione si legge infatti che “dal momento che una persona giuridica agisce per mezzo dei suoi agenti e rappresentanti, gli obiettivi, gli scopi e la volontà di costoro d

L’esperienza nei Paesi di common law

La rinnovata consapevolezza della gravità e della dilagante estensione dei fenomeni delittuosi che possono annidarsi presso un’impresa porta a dover considerare criticamente il principio societas delinquere non potest e a ridefinire con assoluta coerenza sia i criteri di attribuzione della responsabilità sia le tipologia delle eventuali sanzioni da prefigurare a carico della persona giuridica.

L’analisi delle più importanti risposte normative di diritto comparato al problema della criminalità d’impresa ci permetterà di valutare meglio le indicazioni provenienti dal legislatore italiano; non si può, infatti, misurare la reale portata innovativa del D. Lgs. n. 231 del 2001 senza esaminare quali siano gli esempi cui far riferimento nel disciplinare questa materia.

Il tema della responsabilità penale delle persone giuridiche ci dimostra come sia in atto un processo di reciproco avvicinamento fra i sistemi di common law, sempre fedeli a soluzioni di stampo pragmatico, e di civil law, caratterizzati ed influenzati, invece, da una rigorosa elaborazione dogmatica.

Nel sistema inglese assistiamo ad un graduale ripensamento dei tradizionali criteri di attribuzione della responsabilità che nascono già nel corso del XIX secolo.

Le prime pronunce giurisprudenziali propendono per il riconoscimento di due tecniche di controllo della criminalità delle corporations: il principio della c.d. vicarious liability e l’identification theory.

Nella prima la responsabilità che ne deriva è di natura indiretta ed ha come presupposto il meccanismo della delegazione: si basa sull’imputazione all’ente del reato commesso da uno qualunque dei suoi agenti, consistente nella violazione di un dovere a lui delegato il cui adempimento è posto dallo statuto a carico dell’ente stesso.

Essa riguarda soltanto casi di strict liability, cioè situazioni non coperte da mens rea, e corrisponde alla responsabilità oggettiva del nostro ordinamento.

Terreno elettivo esclusivo di tale meccanismo sono le c.d. regulatory offences, disposizioni a tutela del consumatore, norme relative alla corretta gestione degli affari, disposizioni in materia di commercio, sicurezza pubblica, ambiente; si tratta di aree neutre dal punto di vista morale, nelle quali si hanno come obiettivi la prevenzione del danno derivante dall’esercizio dell’attività e lo sviluppo del benessere pubblico.

Tale responsabilità vicaria, però, lungi dal sostituire quella dell’autore materiale del reato, quasi sempre si aggiunge ad essa e trova giustificazione nella particolare efficacia deterrente tradizionalmente riconosciuta alla minaccia sanzionatoria nei confronti del vertice dell’impresa.

E’ sufficiente provare il semplice nesso di appartenenza dell’autore all’impresa ed il rapporto di autorità che lega i soggetti coinvolti, non consentendo, di regola, la defense della due diligence da parte dell’ente.

Pertanto, le uniche ipotesi di esclusione della responsabilità si hanno nel caso in cui manchi tale nesso o perché il dipendente agisce a proprio esclusivo profitto o perché realizza un fatto assolutamente estraneo alle mansioni affidategli oppure nel caso in cui venga meno alle istruzioni specifiche impartite dal datore di lavoro.

L’identification theory, invece, comincia a delinearsi soltanto dagli anni ’40; si fonda sull’idea che la corporation si identifica nel comportamento dei suoi dirigenti e si applica quindi alle fattispecie strutturate con elemento psicologico. Secondo tale criterio, anche detto principio dell’alter ego, una volta individuati i soggetti posti al vertice e che svolgono funzioni di management e provata l’esistenza del reato, quest’ultimo viene automaticamente imputato all’organizzazione.

Si presume, infatti, che si tratti di persone fisiche che “sono o hanno la mente direttrice della compagnia, la sua volontà, il suo ego e il suo cervello”.

Entrambe le soluzioni avanzate, però, denotano una “miopia” verso le procedure di controllo interno e le scelte di politica aziendale proprie di ogni singola organization; infatti il risultato cui pervengono è l’incapacità di includere fenomeni che sono lontani dagli schemi tipici della responsabilità penale degli individui. Infatti, il criterio della vicarious liability appare troppo esteso perché si applica nei confronti di tutti gli impiegati di una società, senza distinzioni di ruolo e di responsabilità, né tiene conto dei limiti della delega e dell’autoregolamentazione dell’azienda; l’identification theory non considera le differenti dimensioni che può avere una società, con una divisione e ripartizione dei compiti all’interno della stessa.

Soltanto con il caso Meridian del 1995 ci si sposta verso un approccio più realistico e legato ai meccanismi della gestione d’impresa dai quali scaturiscono i comportamenti offensivi dei beni giuridici.

Le corti inglesi si distaccano dal principio secondo il quale l’ente si identifica sempre e solo negli atti dei suoi dirigenti per adottare un criterio più flessibile e rispettoso dell’effettiva distribuzione del potere decisionale nelle organizzazioni complesse.

Nel caso giurisprudenziale appena menzionato due capi dell’ufficio della Compagnia agendo per conto della società ma all’insaputa del gruppo dei dirigenti della stessa, violano una disposizione del Securities Amendment Act del 1988 che “impone sia resa manifesta l’identità dei soggetti che divengono titolari effettivi nell’emissione di titoli pubblici”.

In tal modo viene strutturato un criterio d’imputazione che non ha come riferimento esclusivo la posizione ricoperta dall’individuo all’interno dell’organizzazione; viene avallato, invece, il concetto di “management failure”, che viene confermato l’anno successivo con il Law Commission Report n. 237 in relazione al nuovo reato di omicidio d’impresa.

Tale intervento, reso improcrastinabile dalla diffusione dei white collar crimes, introduce un’innovativa figura di manslaughter destinata in via esclusiva alla corporation, il corporate killing.

Entra così in crisi l’approccio tradizionale della dottrina che ipotizza una criminalità attuata da singoli soggetti e si lascia spazio, di conseguenza, all’illecito d’impresa, inteso come un fenomeno patologico che si insidia e nasce proprio nella struttura dell’organizzazione.

Tale nuova teorizzazione prende il nome di “corporate crime” e abbraccia una visione strutturale della criminalità, che vede il suo punto sorgente nei processi organizzativi e decisionali dell’impresa stessa.

Siamo ad una svolta epocale nel Regno Unito che segna una rottura con il passato e l’emersione di una concezione moderna della responsabilità penale delle persone giuridiche, ancorata alla sussistenza o meno di determinati standards organizzativi all’interno di una corporation.

Anche l’ordinamento federale australiano si contraddistingue per una riforma coraggiosa, elaborando soluzioni diverse rispetto all’iniziale dipendenza rispetto alle scelte dell’esperienza inglese.

Il Criminal Code Act del 1995 nella part. 2.5 prevede meccanismi di iscrizione della responsabilità degli enti, individuando in primis l’actus reus di un reato (s. 12.2) e, successivamente, l’autonoma colpevolezza della persona giuridica (s. 12.3).

La s. 12.2 si riferisce <>. La s. 12.3 prevede che l’elemento soggettivo <<[…] deve essere attribuito al body corporate che abbia espressamente o implicitamente autorizzato o permesso la commissione del reato>>.

Con tali disposizioni si sottolinea che la commissione di un reato deriva dal fallimento della corporation nel creare una cultura d’impresa improntata al rispetto della legalità.

Per i reati che richiedono, invece, la negligence, la s. 12.4 definisce negligente quella condotta che si allontana notevolmente da quella che ci si sarebbe attesi da una reasonable person. In particolar modo il Criminal Code Act del 1995 stigmatizza la mancanza di adeguati sistemi di gestione, controllo e supervisione della condotta dei dipendenti della persona giuridica.

La responsabilità degli enti nei sistemi di civil law

Lo stesso approccio pragmatico, evidenziato nella prassi dagli ordinamenti anglosassoni, si ritrova nel sistema olandese che sin dal 1976 accoglie un meccanismo molto semplificato sul punto: “La negligenza o l’intenzione della persona giuridica si presumono essere l’aggregazione ed il cumulo della negligenza e dell’intenzione dei singoli individui. In questo contesto, non vi sono problemi se un organo ufficiale dell’organizzazione ha deciso di porre in essere il reato. Ma anche quando gli autori materiali-persone fisiche sono ai gradini inferiori o addirittura operano fuori dall’organizzazione, è possibile trasferire l’elemento soggettivo da questi all’impresa se vi sono argomentazioni riconducibili al contesto sociale che consentano di operare in tal modo”.

Questa totale parificazione tra persone fisiche e persone giuridiche riguardo l’elemento psicologico ha il pregio di svincolarsi dai problemi dogmatici, ma si lega ad un concetto troppo labile quale quello del social context dell’organizzazione che non include tutte le fattispecie in cui il corporate crime si manifesta; anzi tende ad ammettere la responsabilità dell’ente anche quando il reato è riconducibile alla mera iniziativa del singolo.

Con l’evoluzione della prassi giurisprudenziale, però, si delineano criteri più restrittivi in relazione all’imputazione dell’elemento materiale e psicologico: in caso di dolo, è necessario valutare se la persona giuridica diriga direttamente l’“illegal corporate culture”; quando si tratta di colpa, si accerta se ricorre una circostanza nel corso della quale, nonostante vi siano le condizioni per intervenire ovvero comunque vi sia la conoscenza di una determinata condotta illecita, il soggetto collettivo, senza attivarsi, accetta di fatto la situazione esistente.

L’ordinamento francese, invece, ha per lungo tempo negato che un ente potesse essere chiamato a rispondere in prima persona in sede penale di un fatto di reato.

Le pregiudiziali ideologiche in tema di societas delinquere non potest sono essenzialmente tre: l’ente collettivo è considerato una finzione, “svuotato di ogni volontà propria, mentre il diritto penale non può che fondarsi sulla colpevolezza”; il c.d. principio di specialità di stampo civilistico, secondo il quale l’attribuzione all’ente della personalità giuridica trova la propria ragion d’essere solo nel perseguimento dei fini sociali che per loro natura non possono consistere nella realizzazione di fatti antigiuridici; le sanzioni applicabili sono rivolte esclusivamente alle persone fisiche.

Soltanto con l’emanazione del nuovo Codice penale francese del 1994, che sostituisce il Codice penale Napoleonico del 1810, si superano tali visioni aprioristiche e viene così introdotto l’art. 121-2, il cui primo comma recita testualmente: <>. Riguardo gli enti pubblici territoriali e i loro groupements, ovvero consorzi, si limita la responsabilità alle <> (art. 121-2, comma 2).

A differenza del sistema italiano, quello francese non è dotato di un micro-sistema di norme ad hoc per la responsabilità penale degli enti e soprattutto non prevede una codificazione del concetto di colpa del soggetto collettivo.

Il meccanismo di imputazione è molto semplice: il reato commesso dagli organi o dai rappresentanti si riflette sulla persona giuridica.

Si parla infatti, di responsabilità per rappresentazione, par reflex o par ricochet; la dottrina afferma che “dietro lo schermo della persona giuridica ci sono sempre le persone fisiche”.

I primi anni di applicazione dell’art. 121-2 c.p. si distinguono per una ritrosia nell’affrontare i fondamenti teorici della materia e una tendenza all’imputazione automatica della responsabilità.

Tale soluzione emerge per la mancata tipizzazione legislativa di altri criteri di ascrizione, quali ad esempio una difettosa organizzazione aziendale o la mancata adozione di un organismo di controllo interno, che, invece, fungerebbero da punti di riferimento per l’organo giudicante in modo da evitare il sorgere di responsabilità oggettiva o “da posizione”.

Quest’effetto distorsivo viene ad essere acuito ancora di più dalla emanazione della legge 204/2004, cd. Loi Perben II, entrata in vigore il 31 settembre 2005, con la quale il legislatore ha abolito la clausola di specialità, optando per una piena comparazione tra persone fisiche e persone giuridiche. Il reato commesso “pour le compte” della persona giuridica, inoltre, non esclude l’applicazione dell’art. 121-2 c.p. quando l’organizzazione è utilizzata per soddisfare interessi esclusivamente personali o comunque estranei all’attività dell’ente.

Situazioni che ai sensi del secondo comma dell’art. 5 sono opportunamente escluse dall’ambito di applicazione del D. Lgs. n. 231 del 2001.

Interessante è notare come la Cassazione francese, ad un’iniziale chiusura verso la necessità di accertare un fatto autonomo in capo alla persona giuridica, abbia aperto qualche spiraglio nel principio della responsabilità par ricochet, ammettendo la condanna esclusiva dell’ente per i reati colposi “senza autore”. Possiamo evidenziare, quindi, che la teoria par reflex si dimostra insoddisfacente se applicata ai reati che provengono da una decisione collegiale o ai reati colposi d’impresa, caratterizzati da anonimia del danno e della responsabilità.

Nella maggioranza dei casi la condotta della persona giuridica trascende quella dei suoi componenti, comprimendo i contenuti tradizionali del principio di responsabilità e rendendo di fatto difficilmente rintracciabile la singola condotta e volontà colpevole.

E’ auspicabile che per contrastare rischi qualificati si adottino meccanismi che prescindano dall’individuazione del reo e dalla prova della sua colpevolezza a favore dell’accertamento di un difetto di sorveglianza o di organizzazione direttamente in capo all’ente.

In questa direzione sembra muoversi una sentenza del Tribunale di Versailles in materia di subappalto di manodopera, nella quale si rileva come il reato commesso sia il risultato << di una politica deliberata dell’impresa […], di una strategia adottata allo scopo di evitare di perdere fasce di mercato>>.

Ciò dimostra come la giurisprudenza francese preferisca ormai non attestarsi sul dato testuale della norma e si impegni nella ricerca di criteri ascrittivi ulteriori, che consentano di rinvenire un collegamento più pregnante tra il reato e la voluntas societatis.

Il codice penale svizzero, invece, attribuisce al concetto della “carente organizzazione interna” il ruolo di elemento costitutivo della responsabilità dell’ente collettivo.

L’art. 100 quater evidenzia la vocazione spiccatamente preventiva della colpevolezza degli enti in quanto garantisce sempre e comunque un soggetto responsabile per reati commessi nell’impresa o dall’impresa.

La scelta del legislatore elvetico prescinde, quindi, dall’accertamento di un aspetto che potremmo definire “umano” della responsabilità, e cioè la realizzazione del reato da parte di una persona fisica, non di rado reso difficile dall’impersonalità delle decisioni e dalla ramificazione dei processi aziendali, e “rimprovera” l’ente per non essersi attivato per impedire l’evento.

Diversamente dai sistemi sinora illustrati, l’ordinamento tedesco non ammette la responsabilità penale diretta degli enti.

In tale Stato si è scelto di contrastare le condotte illecite dei soggetti collettivi attraverso il diverso strumento della responsabilità amministrativa dell’ente, lasciando conseguentemente da parte le valutazione di stampo dogmatico relative al principio societas delinquere non potest.

Il testo normativo di riferimento è la Ordnungswidrigkeitengesetz (legge sulle infrazioni amministrative) del 1968.

Il § 30 di questa legge prevede che sorga responsabilità amministrativa a carico dell’ente quando un reato o un illecito amministrativo viene realizzato da parte di un suo organo o di un suo componente oppure da parte di un “amministratore o rappresentante o procuratore generale di una persona giuridica, o di una società o associazione priva di capacità giuridica” e quando esso si concretizza nell’inadempimento degli obblighi facenti capo all’ente o in un atto volto a portare a quest’ultimo un vantaggio. La norma, quindi, si basa sull’identificazione dell’ente con i suoi esponenti di vertice.

A differenza della responsabilità della persona giuridica per l’illecito amministrativo, prevista nell’ordinamento italiano dall’art. 6, l. n. 689/1981, la responsabilità contemplata dal § 30 non ha carattere di solidarietà ed è diretta e concorrente con quella inerente la persona fisica autrice dell’illecito. Il § 130 della legge citata prevede un’ipotesi di illecito amministrativo dato dal non impedimento di illeciti altrui.

Il titolare dell’impresa (che può essere un imprenditore individuale, una persona giuridica o un organismo collettivo) è responsabile per le violazioni commesse nell’ambito dell’organizzazione che possono consistere nell’omissione dolosa o colposa delle misure di controllo necessarie.

Fra queste ultime vengono espressamente menzionate la designazione, la scelta accurata ed il controllo del personale con compiti di sorveglianza.

Nella previsione di tale figura generale di illecito non penale, la violazione operata dal singolo viene considerata solo come una condizione oggettiva per la responsabilità della società o dell’ente e quindi per l’irrogazione di una sanzione; quindi, il criterio di imputazione causale non viene inteso in termini rigorosamente condizionalistici, ma si atteggia come nesso di mera agevolazione.

I “compliance programs” negli USA

La responsabilità penale delle corporations nell’ordinamento americano si afferma nel corso dei primi decenni dell’Ottocento.

In questo periodo storico le Corti cominciano a farsi interpreti dell’esigenza, sorta nel tessuto economico e sociale, di sanzionare penalmente anche gli enti collettivi.

Dapprima le corporations vengono ritenute responsabili solo per le ipotesi di common law offences of nuisance aventi forma omissiva (non feasance): si tratta di fattispecie bagatellari e di strict liability, ovvero senza lo svolgimento di alcuna indagine in relazione all’elemento psicologico dell’agente o della persona giuridica stessa.

Ben presto si giunge ad estendere la responsabilità anche alle ipotesi commissive, ma la vera svolta è costituita da una decisione del 1909, relativa al caso New York Central Hudson River Railroad Co. vs. United States, in cui la Corte afferma l’applicabilità del principio civilistico del respondeat superior quale criterio di imputazione del reato al soggetto collettivo.

Per la prima volta viene imputata automaticamente all’ente non solo la condotta materiale, ma anche l’elemento psicologico del suo agente in modo da ricomprendervi i casi di mens rea offences.

Nella decisione si legge infatti che “dal momento che una persona giuridica agisce per mezzo dei suoi agenti e rappresentanti, gli obiettivi, gli scopi e la volontà di costoro d