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Giudizio davanti al Giudice di Pace di valore inferiore a euro 1000: limiti alla rifusione delle spese a favore del vincitore

Profili di illegittimità costituzionale del nuovo art. 91, ultimo comma, c.p.c., introdotto dal decreto-legge n. 212 del 2011, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 dicembre 2011
- Non manifesta infondatezza della questione

L’art. 13 del decreto in esame, nell’introdurre un nuovo comma all’art. 91, c.p.c., stabilisce che, nelle cause davanti al giudice di pace di valore fino a mille euro, per le quali non è obbligatoria l’assistenza di un legale (in virtù della modifica dell’art. 82, primo comma, c.p.c., operata dallo stesso decreto in esame, che ha elevato a mille euro il limite per l’autodifesa), il giudice non può condannare la parte soccombente alla refusione delle spese, diritti ed onorari di lite in favore del vincitore per una somma superiore al valore della domanda.

La conseguenza pratica del predetto limite è che ben può verificarsi l’ipotesi in cui, a causa dell’esiguità del valore della domanda, il giudice condanni il soccombente alla refusione delle spese legali sostenute dalla parte vincitrice per un importo insufficiente a risarcire completamente dette spese, sicché la parte vincitrice, da un lato, non potrebbe dolersi, in sede di impugnazione, dell’incongruità della somma liquidata dal giudice a titolo di refusione delle spese legali, avendo il magistrato operato in applicazione di una norma di legge e, dall’altro, dovrebbe corrispondere direttamente al proprio avvocato la residua parte delle competenze legali, in forza dell’art. 2, Capitolo 1, del decreto del Ministro della giustizia n. 127/2004 (tariffario forense), a mente del quale “Gli onorari e i diritti sono sempre dovuti all’avvocato dal cliente indipendentemente dalle statuizioni del giudice sulle spese giudiziali”.

La motivazione posta a base del provvedimento di urgenza, desumibile dalla relazione illustrativa, è che, nelle cause in cui la parte può ricorrere all’autodifesa ai sensi dell’art. 82 c.p.c., sarebbe giusto, per l’ipotesi normale in cui il giudice decida di applicare il principio della soccombenza, porre un limite all’importo della condanna del soccombente alla refusione delle spese legali sostenute dal vincitore, in quanto quest’ultimo si sarebbe potuto difendere da solo, evitando così tali spese.

Ebbene, la norma dà evidentemente luogo ad una ingiustificata compressione e mortificazione del diritto di difesa, violando così il combinato disposto degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., essendo dichiaratamente finalizzata a sanzionare la parte vincitrice, tramite il meccanismo della compensazione delle spese di lite, ancorché operante in modo indiretto, parziale ed eventuale, per il sol fatto che essa abbia preferito, nella cause innanzi al giudice di pace di valore fino a € 1.000,00, la difesa tecnica all’autodifesa.

La norma qui censurata, in sostanza, imputa alla parte vincitrice una colpa per il sol fatto di aver nominato un avvocato e, quindi, di non essere stata in grado di difendersi da sola.

La nomina di un difensore, tuttavia, non è un mero capriccio, come pare intendere il Governo nella motivazione ufficiale contenuta nella relazione illustrativa, ma è l’espressione di un diritto inviolabile finalizzato ad ottenere, tramite l’intervento del professionista, una migliore difesa e, quindi, maggiori probabilità di vittoria.

In altri termini, l’art. 82, primo comma, c.p.c., pur concedendo alla parte la facoltà di stare in giudizio di persona, le lascia comunque la possibilità di nominare un avvocato, proprio al fine di garantirle una miglior difesa, difesa a cui solo la parte può rinunciare, e che nessuna legge può sopprimere, stante l’inviolabilità del diritto alla difesa tecnica anche nei casi in cui tale diritto è rinunciabile, non sussistendo alcuna incompatibilità tra rinunziabilità ed inviolabilità di un diritto, come è confermato proprio dal fatto che, nelle predette cause, la legge non elide il diritto di difesa.

In subordine, qualora si ritenesse, in via meramente ipotetica, che, nelle cause innanzi al giudice di pace di valore fino a mille euro, in astratto non sia di per sé incostituzionale sanzionare la parte vincitrice che opti per la nomina di un difensore, la norma lederebbe comunque il diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto, prevedendo sempre e comunque il rigido limite della liquidabilità delle spese legali entro il valore della domanda, senza alcuna possibilità di deroga, mostra di non aver operato alcun contemperamento degli opposti interessi in campo, non potendosi sanzionare allo stesso modo chi abbia deciso di nominare un avvocato, pur non essendovi alcuna necessità oggettiva o soggettiva di farlo, e chi sia ricorso alla nomina di un legale per giuste ragioni (ad esempio per la particolare difficoltà della causa, o per la totale ignoranza delle materie giuridiche).

Si precisa, comunque, al fine di evitare fraintendimenti, che queste ultime considerazioni presuppongono l’adesione alla tesi (assurda) secondo la quale il diritto di difesa, nelle cause davanti al giudice di pace di valore inferiore a 1.000,00 euro, sorga solo se via siano buone ragioni per farsi assistere da un legale, il che però significherebbe negare la stessa natura costituzionale ed inviolabile del diritto di difesa, il quale deve sussistere sempre e comunque, a prescindere dal motivo che ha indotto la parte a scegliere la difesa tecnica.

La norma introdotta dal decreto-legge in discorso è illegittima anche per contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, preservato dall’art. 24, primo comma, della Costituzione.

Essa, infatti, limitando le spese legali liquidabili in favore della parte vincitrice, nelle cause davanti al giudice di pace per le quali non è previsto l’obbligo di assistenza di un legale, ad un importo non superiore al valore della domanda, costituisce un possibile ostacolo alla soddisfazione del diritto alla tutela giurisdizionale soprattutto in quelle cause nelle quali la parte scelga di farsi difendere da un avvocato ed il valore della domanda sia talmente esiguo che il residuo importo delle spese legali che la parte vincitrice dovrebbe corrispondere al proprio avvocato per effetto del predetto limite, sarebbe sicuramente maggiore del valore del diritto sostanziale giudizialmente accertato, da cui deriverebbe, paradossalmente, una sostanziale sconfitta per il soggetto vincitore.

Questa situazione è gravemente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale, costituzionalmente garantito, il quale “si estende anche alle spese che devono essere sostenute per agire in giudizio” (vedi sentenza Corte cost. n. 223/2001).

La disposizione qui censurata, infatti, si applica indistintamente a tutte le cause di valore fino a € 1.000,00, senza distinguere tra quelle nelle quali il tetto alla liquidazione giudiziale delle spese legali a carico del soccombente, ed il conseguente onere del vincitore di corrispondere l’eventuale residua parte delle spese legali al proprio avvocato, comporti solo un affievolimento - e perciò costituzionalmente irrilevante - del diritto accertato dalla sentenza in favore della parte vincitrice, e quelle nelle quali il predetto limite determini il sacrificio totale del diritto consacrato dalla sentenza, pregiudicando così, questa volta in maniera rilevante sul piano costituzionale, il diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24, primo comma, Cost.

Se ad esempio Tizio agisce in giudizio per ottenere la condanna di Caio al pagamento di € 1.000,00, e preferisce, per qualsiasi ragione, farsi assistere da un avvocato, potrebbe ottenere comunque un beneficio dalla vittoria in giudizio, in quanto, se il giudice accogliesse la sua domanda, otterrebbe la condanna della controparte, oltre alla predetta somma, anche ad una somma a titolo di rimborso spese legali che, pur non potendo superare € 1.000,00, sarebbe presumibilmente satisfattiva delle spettanze del suo difensore e, comunque, laddove non lo fosse del tutto, la corresponsione della residua parte di tali spettanze troverebbe molto probabilmente ampia capienza nella sorta capitale riconosciuta in sentenza a Tizio.

In sostanza, nell’esempio appena fatto, Tizio, nella peggiore delle ipotesi, tariffario forense alla mano, potrebbe subire dall’applicazione della norma al vaglio una compressione soltanto parziale del diritto sostanziale fatto valere in giudizio, irrilevante sul piano costituzionale.

Ma se Tizio agisce fondatamente contro Caio per sentirlo condannare ad € 50,00, e preferisce farsi assistere da un avvocato, c’è la sicurezza matematica che, in applicazione dell’impugnata norma, il diritto fatto valere in giudizio patisca una totale mortificazione per effetto dalla non ripetibilità pressoché totale delle spese legali nei confronti del soccombente, in quanto Tizio, nonostante abbia vinto, dovrebbe sborsare in favore del proprio avvocato - tariffario forense alla mano - più di quanto otterrebbe da Caio in virtù dell’esecuzione della sentenza (appena € 100 = 50 + 50).

La norma in questione, pertanto, appare illegittima anche per contrasto con il primo comma dell’art. 24, Cost., non operando alcun contemperamento degli interessi in gioco, ma dando prevalenza assoluta all’esigenza di tutelare la parte soccombente nelle cause in cui non è necessaria l’assistenza di un legale, giustificando tale prevalenza con l’assurda considerazione che detta parte non avrebbe alcuna colpa se la parte vincitrice preferisca farsi difendere da un avvocato, senza preoccuparsi minimamente del fatto che la tutela indiscriminata del menzionato interesse della parte soccombente può comportare, in determinati casi, la lesione del diritto della controparte alla effettività della tutela giurisdizionale, protetto dall’art. 24, primo comma, Cost..

Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, sancito dal predetto 24, primo comma, infatti, non è da intendersi soltanto nella sua accezione formale, cioè quale diritto di agire in giudizio, ma anche nella sua valenza sostanziale, vale a dire quale diritto di ottenere una tutela effettiva della situazione giuridica accertata dalla sentenza: in questo senso la Corte costituzionale, in numerose sentenze, parla di “principio di effettività della tutela giurisdizionale”.

Ebbene, la parte che vedesse accolta la sua domanda non sarebbe effettivamente tutelata se, per il sol fatto di non essersi difesa da sola in una causa di esiguo valore, fosse costretta a versare al proprio legale, quale residua parte delle sue competenze professionali, un importo uguale o addirittura maggiore di quanto, in base alla sentenza, essa potrebbe ottenere dal soccombente.

Anche la Cassazione ritiene, peraltro, con orientamento costante, che l’esiguo valore della controversia non può essere un buon motivo per compensare le spese di lite (Cfr., tra le tante, Cass. n. 26580/11; 12893/2011; n. 8114/2011), proprio perché, diversamente opinando, il diritto di tutela giurisdizionale ed il diritto di difesa subirebbero un sostanziale ed intollerabile svuotamento di contenuto.

La fattispecie qui in esame, del resto, è molto simile a quella vagliata dalla Consulta nella sentenza n. 223/2001, più sopra citata, nella quale, analogamente, la norma veniva dichiarata incostituzionale, in quanto, nel prevedere la fondatezza delle pretese azionate contro un ente pubblico da una moltitudine di utenti e la conseguente estinzione dei giudizi in corso, aveva disposto indiscriminatamente la compensazione delle spese di lite, senza operare alcun discrimine al fine di bilanciare gli opposti interessi in gioco.

In essa, infatti, si legge che “Il legislatore, nell’introdurre fattispecie di estinzione ex lege di giudizi in corso, può anche eccezionalmente prevedere la compensazione delle spese legali, in un quadro di bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco.

Ma tale bilanciamento non è stato effettuato. La rigidità della regola della compensazione sacrifica sempre e comunque il diritto della parte, che abbia fondatamente adito il giudice, di ottenere il rimborso delle spese processuali”.

Tornando al nostro caso, dunque, può affermarsi, alla luce di quanto appena osservato, che, ove la parte decida, per qualsiasi motivo, di optare per la nomina di un difensore in una causa innanzi al giudice di pace di valore fino a mille euro, essa, in caso di vittoria, dovrebbe poter ottenere dal soccombente il rimborso delle spese legali almeno nella misura necessaria a preservare in capo ad essa un’utilità economica, ancorché minima, e ciò vale soprattutto in quelle ipotesi in cui il limite quantitativo alla condanna alle spese disposto dall’impugnata norma non le consenta, a causa del valore modesto della controversia, di trarre alcun vantaggio economico dalla vittoria giudiziale, o addirittura le procuri un nocumento, dovendo essa parte vincitrice corrispondere al proprio avvocato la residua parte delle competenze professionali per un importo addirittura maggiore di quanto abbia complessivamente ricevuto dal soccombente.

Questo appena fatto è solo un esempio di come si potrebbe realizzare un equo contemperamento degli interessi coinvolti dalla norma, e non si chiede affatto che la Consulta lo approvi, poiché ciò significherebbe chiederle di introdurre una norma eccezionale, il che è riservato al legislatore.

Esclusa la praticabilità di un intervento manipolativo della Corte costituzionale, dunque, l’unico modo per eliminare il contrasto con la Costituzione è una pronuncia di accoglimento totale della questione, che annulli radicalmente la norma.

In conclusione la norma introdotta dal decreto-legge in esame appare in contrasto con gli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione.

- Rilevanza della questione nel giudizio a quo

L’eventuale giudice che intendesse rimettere la questione alla Consulta dovrebbe premurarsi di indicare nell’ordinanza di remissione:

- la data di notifica della citazione, che dovrebbe essere successiva all’entrata in vigore della norma, pena l’inammissibilità della questione;

- che trattasi di controversia di valore non superiore a mille euro;

- che, essendo la causa giunta alla precisazione della conclusioni, o essendo stata riservata a sentenza, il giudice si è convinto della fondatezza della domanda;

- che il giudice non intende compensare le spese di lite, ma intende applicare pienamente il principio della soccombenza, ma che non è in grado di liquidare tali spese, dipendendo tale liquidazione dalla legittimità o meno del limite previsto a tal fine dall’impugnata norma;

- che trattasi di controversia di valore talmente esiguo che, in base al tariffario forense, l’applicazione del limite alla liquidazione delle spese legali a carico del soccombente implicherebbe il sacrificio totale del diritto accertato dalla sentenza in favore della parte vincitrice, dovendo quest’ultima corrispondere al proprio avvocato, quale residua parte delle competenze legali, una somma maggiore di quanto otterrebbe complessivamente dal soccombente in forza dell’esecuzione della sentenza.

- Non manifesta infondatezza della questione

L’art. 13 del decreto in esame, nell’introdurre un nuovo comma all’art. 91, c.p.c., stabilisce che, nelle cause davanti al giudice di pace di valore fino a mille euro, per le quali non è obbligatoria l’assistenza di un legale (in virtù della modifica dell’art. 82, primo comma, c.p.c., operata dallo stesso decreto in esame, che ha elevato a mille euro il limite per l’autodifesa), il giudice non può condannare la parte soccombente alla refusione delle spese, diritti ed onorari di lite in favore del vincitore per una somma superiore al valore della domanda.

La conseguenza pratica del predetto limite è che ben può verificarsi l’ipotesi in cui, a causa dell’esiguità del valore della domanda, il giudice condanni il soccombente alla refusione delle spese legali sostenute dalla parte vincitrice per un importo insufficiente a risarcire completamente dette spese, sicché la parte vincitrice, da un lato, non potrebbe dolersi, in sede di impugnazione, dell’incongruità della somma liquidata dal giudice a titolo di refusione delle spese legali, avendo il magistrato operato in applicazione di una norma di legge e, dall’altro, dovrebbe corrispondere direttamente al proprio avvocato la residua parte delle competenze legali, in forza dell’art. 2, Capitolo 1, del decreto del Ministro della giustizia n. 127/2004 (tariffario forense), a mente del quale “Gli onorari e i diritti sono sempre dovuti all’avvocato dal cliente indipendentemente dalle statuizioni del giudice sulle spese giudiziali”.

La motivazione posta a base del provvedimento di urgenza, desumibile dalla relazione illustrativa, è che, nelle cause in cui la parte può ricorrere all’autodifesa ai sensi dell’art. 82 c.p.c., sarebbe giusto, per l’ipotesi normale in cui il giudice decida di applicare il principio della soccombenza, porre un limite all’importo della condanna del soccombente alla refusione delle spese legali sostenute dal vincitore, in quanto quest’ultimo si sarebbe potuto difendere da solo, evitando così tali spese.

Ebbene, la norma dà evidentemente luogo ad una ingiustificata compressione e mortificazione del diritto di difesa, violando così il combinato disposto degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., essendo dichiaratamente finalizzata a sanzionare la parte vincitrice, tramite il meccanismo della compensazione delle spese di lite, ancorché operante in modo indiretto, parziale ed eventuale, per il sol fatto che essa abbia preferito, nella cause innanzi al giudice di pace di valore fino a € 1.000,00, la difesa tecnica all’autodifesa.

La norma qui censurata, in sostanza, imputa alla parte vincitrice una colpa per il sol fatto di aver nominato un avvocato e, quindi, di non essere stata in grado di difendersi da sola.

La nomina di un difensore, tuttavia, non è un mero capriccio, come pare intendere il Governo nella motivazione ufficiale contenuta nella relazione illustrativa, ma è l’espressione di un diritto inviolabile finalizzato ad ottenere, tramite l’intervento del professionista, una migliore difesa e, quindi, maggiori probabilità di vittoria.

In altri termini, l’art. 82, primo comma, c.p.c., pur concedendo alla parte la facoltà di stare in giudizio di persona, le lascia comunque la possibilità di nominare un avvocato, proprio al fine di garantirle una miglior difesa, difesa a cui solo la parte può rinunciare, e che nessuna legge può sopprimere, stante l’inviolabilità del diritto alla difesa tecnica anche nei casi in cui tale diritto è rinunciabile, non sussistendo alcuna incompatibilità tra rinunziabilità ed inviolabilità di un diritto, come è confermato proprio dal fatto che, nelle predette cause, la legge non elide il diritto di difesa.

In subordine, qualora si ritenesse, in via meramente ipotetica, che, nelle cause innanzi al giudice di pace di valore fino a mille euro, in astratto non sia di per sé incostituzionale sanzionare la parte vincitrice che opti per la nomina di un difensore, la norma lederebbe comunque il diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto, prevedendo sempre e comunque il rigido limite della liquidabilità delle spese legali entro il valore della domanda, senza alcuna possibilità di deroga, mostra di non aver operato alcun contemperamento degli opposti interessi in campo, non potendosi sanzionare allo stesso modo chi abbia deciso di nominare un avvocato, pur non essendovi alcuna necessità oggettiva o soggettiva di farlo, e chi sia ricorso alla nomina di un legale per giuste ragioni (ad esempio per la particolare difficoltà della causa, o per la totale ignoranza delle materie giuridiche).

Si precisa, comunque, al fine di evitare fraintendimenti, che queste ultime considerazioni presuppongono l’adesione alla tesi (assurda) secondo la quale il diritto di difesa, nelle cause davanti al giudice di pace di valore inferiore a 1.000,00 euro, sorga solo se via siano buone ragioni per farsi assistere da un legale, il che però significherebbe negare la stessa natura costituzionale ed inviolabile del diritto di difesa, il quale deve sussistere sempre e comunque, a prescindere dal motivo che ha indotto la parte a scegliere la difesa tecnica.

La norma introdotta dal decreto-legge in discorso è illegittima anche per contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, preservato dall’art. 24, primo comma, della Costituzione.

Essa, infatti, limitando le spese legali liquidabili in favore della parte vincitrice, nelle cause davanti al giudice di pace per le quali non è previsto l’obbligo di assistenza di un legale, ad un importo non superiore al valore della domanda, costituisce un possibile ostacolo alla soddisfazione del diritto alla tutela giurisdizionale soprattutto in quelle cause nelle quali la parte scelga di farsi difendere da un avvocato ed il valore della domanda sia talmente esiguo che il residuo importo delle spese legali che la parte vincitrice dovrebbe corrispondere al proprio avvocato per effetto del predetto limite, sarebbe sicuramente maggiore del valore del diritto sostanziale giudizialmente accertato, da cui deriverebbe, paradossalmente, una sostanziale sconfitta per il soggetto vincitore.

Questa situazione è gravemente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale, costituzionalmente garantito, il quale “si estende anche alle spese che devono essere sostenute per agire in giudizio” (vedi sentenza Corte cost. n. 223/2001).

La disposizione qui censurata, infatti, si applica indistintamente a tutte le cause di valore fino a € 1.000,00, senza distinguere tra quelle nelle quali il tetto alla liquidazione giudiziale delle spese legali a carico del soccombente, ed il conseguente onere del vincitore di corrispondere l’eventuale residua parte delle spese legali al proprio avvocato, comporti solo un affievolimento - e perciò costituzionalmente irrilevante - del diritto accertato dalla sentenza in favore della parte vincitrice, e quelle nelle quali il predetto limite determini il sacrificio totale del diritto consacrato dalla sentenza, pregiudicando così, questa volta in maniera rilevante sul piano costituzionale, il diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24, primo comma, Cost.

Se ad esempio Tizio agisce in giudizio per ottenere la condanna di Caio al pagamento di € 1.000,00, e preferisce, per qualsiasi ragione, farsi assistere da un avvocato, potrebbe ottenere comunque un beneficio dalla vittoria in giudizio, in quanto, se il giudice accogliesse la sua domanda, otterrebbe la condanna della controparte, oltre alla predetta somma, anche ad una somma a titolo di rimborso spese legali che, pur non potendo superare € 1.000,00, sarebbe presumibilmente satisfattiva delle spettanze del suo difensore e, comunque, laddove non lo fosse del tutto, la corresponsione della residua parte di tali spettanze troverebbe molto probabilmente ampia capienza nella sorta capitale riconosciuta in sentenza a Tizio.

In sostanza, nell’esempio appena fatto, Tizio, nella peggiore delle ipotesi, tariffario forense alla mano, potrebbe subire dall’applicazione della norma al vaglio una compressione soltanto parziale del diritto sostanziale fatto valere in giudizio, irrilevante sul piano costituzionale.

Ma se Tizio agisce fondatamente contro Caio per sentirlo condannare ad € 50,00, e preferisce farsi assistere da un avvocato, c’è la sicurezza matematica che, in applicazione dell’impugnata norma, il diritto fatto valere in giudizio patisca una totale mortificazione per effetto dalla non ripetibilità pressoché totale delle spese legali nei confronti del soccombente, in quanto Tizio, nonostante abbia vinto, dovrebbe sborsare in favore del proprio avvocato - tariffario forense alla mano - più di quanto otterrebbe da Caio in virtù dell’esecuzione della sentenza (appena € 100 = 50 + 50).

La norma in questione, pertanto, appare illegittima anche per contrasto con il primo comma dell’art. 24, Cost., non operando alcun contemperamento degli interessi in gioco, ma dando prevalenza assoluta all’esigenza di tutelare la parte soccombente nelle cause in cui non è necessaria l’assistenza di un legale, giustificando tale prevalenza con l’assurda considerazione che detta parte non avrebbe alcuna colpa se la parte vincitrice preferisca farsi difendere da un avvocato, senza preoccuparsi minimamente del fatto che la tutela indiscriminata del menzionato interesse della parte soccombente può comportare, in determinati casi, la lesione del diritto della controparte alla effettività della tutela giurisdizionale, protetto dall’art. 24, primo comma, Cost..

Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, sancito dal predetto 24, primo comma, infatti, non è da intendersi soltanto nella sua accezione formale, cioè quale diritto di agire in giudizio, ma anche nella sua valenza sostanziale, vale a dire quale diritto di ottenere una tutela effettiva della situazione giuridica accertata dalla sentenza: in questo senso la Corte costituzionale, in numerose sentenze, parla di “principio di effettività della tutela giurisdizionale”.

Ebbene, la parte che vedesse accolta la sua domanda non sarebbe effettivamente tutelata se, per il sol fatto di non essersi difesa da sola in una causa di esiguo valore, fosse costretta a versare al proprio legale, quale residua parte delle sue competenze professionali, un importo uguale o addirittura maggiore di quanto, in base alla sentenza, essa potrebbe ottenere dal soccombente.

Anche la Cassazione ritiene, peraltro, con orientamento costante, che l’esiguo valore della controversia non può essere un buon motivo per compensare le spese di lite (Cfr., tra le tante, Cass. n. 26580/11; 12893/2011; n. 8114/2011), proprio perché, diversamente opinando, il diritto di tutela giurisdizionale ed il diritto di difesa subirebbero un sostanziale ed intollerabile svuotamento di contenuto.

La fattispecie qui in esame, del resto, è molto simile a quella vagliata dalla Consulta nella sentenza n. 223/2001, più sopra citata, nella quale, analogamente, la norma veniva dichiarata incostituzionale, in quanto, nel prevedere la fondatezza delle pretese azionate contro un ente pubblico da una moltitudine di utenti e la conseguente estinzione dei giudizi in corso, aveva disposto indiscriminatamente la compensazione delle spese di lite, senza operare alcun discrimine al fine di bilanciare gli opposti interessi in gioco.

In essa, infatti, si legge che “Il legislatore, nell’introdurre fattispecie di estinzione ex lege di giudizi in corso, può anche eccezionalmente prevedere la compensazione delle spese legali, in un quadro di bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco.

Ma tale bilanciamento non è stato effettuato. La rigidità della regola della compensazione sacrifica sempre e comunque il diritto della parte, che abbia fondatamente adito il giudice, di ottenere il rimborso delle spese processuali”.

Tornando al nostro caso, dunque, può affermarsi, alla luce di quanto appena osservato, che, ove la parte decida, per qualsiasi motivo, di optare per la nomina di un difensore in una causa innanzi al giudice di pace di valore fino a mille euro, essa, in caso di vittoria, dovrebbe poter ottenere dal soccombente il rimborso delle spese legali almeno nella misura necessaria a preservare in capo ad essa un’utilità economica, ancorché minima, e ciò vale soprattutto in quelle ipotesi in cui il limite quantitativo alla condanna alle spese disposto dall’impugnata norma non le consenta, a causa del valore modesto della controversia, di trarre alcun vantaggio economico dalla vittoria giudiziale, o addirittura le procuri un nocumento, dovendo essa parte vincitrice corrispondere al proprio avvocato la residua parte delle competenze professionali per un importo addirittura maggiore di quanto abbia complessivamente ricevuto dal soccombente.

Questo appena fatto è solo un esempio di come si potrebbe realizzare un equo contemperamento degli interessi coinvolti dalla norma, e non si chiede affatto che la Consulta lo approvi, poiché ciò significherebbe chiederle di introdurre una norma eccezionale, il che è riservato al legislatore.

Esclusa la praticabilità di un intervento manipolativo della Corte costituzionale, dunque, l’unico modo per eliminare il contrasto con la Costituzione è una pronuncia di accoglimento totale della questione, che annulli radicalmente la norma.

In conclusione la norma introdotta dal decreto-legge in esame appare in contrasto con gli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione.

- Rilevanza della questione nel giudizio a quo

L’eventuale giudice che intendesse rimettere la questione alla Consulta dovrebbe premurarsi di indicare nell’ordinanza di remissione:

- la data di notifica della citazione, che dovrebbe essere successiva all’entrata in vigore della norma, pena l’inammissibilità della questione;

- che trattasi di controversia di valore non superiore a mille euro;

- che, essendo la causa giunta alla precisazione della conclusioni, o essendo stata riservata a sentenza, il giudice si è convinto della fondatezza della domanda;

- che il giudice non intende compensare le spese di lite, ma intende applicare pienamente il principio della soccombenza, ma che non è in grado di liquidare tali spese, dipendendo tale liquidazione dalla legittimità o meno del limite previsto a tal fine dall’impugnata norma;

- che trattasi di controversia di valore talmente esiguo che, in base al tariffario forense, l’applicazione del limite alla liquidazione delle spese legali a carico del soccombente implicherebbe il sacrificio totale del diritto accertato dalla sentenza in favore della parte vincitrice, dovendo quest’ultima corrispondere al proprio avvocato, quale residua parte delle competenze legali, una somma maggiore di quanto otterrebbe complessivamente dal soccombente in forza dell’esecuzione della sentenza.