x

x

Cenni sul mobbing

Il “mobbing” è stato originariamente studiato nell’ambito dell’etologia (Konrad Lorenz), per indagare sui meccanismi, collegati alla difesa del territorio, da parte degli animali; tale meccanismo si concretizza nell’aggressione a un singolo soggetto, per scopi di tutela del “branco”.

Si è successivamente (Leyman) collegato il mobbing al comportamento degli uccelli, nell’ipotesi di comportamenti aggressivi, riguardo a un singolo esemplare, che non si conformi alla “logica” del gruppo e si è poi rilevata l’osservazione di comportamenti affini negli ambienti di lavoro.

Questa sommaria ricostruzione fa comprendere come, nelle c.d. “comunità separate” sia ben possibile ipotizzare condotte siffatte, nei confronti di soggetti per certi versi “anticonformisti”, per il fatto che in esse la coesione di gruppo è particolarmente avvertita all’interno delle medesime.

Può rilevarsi la sovrapponibilità delle fasi di mobbing, distinte da Leyman ed Ege, che riprende e rielabora la classificazione in fasi del primo, e la vicenda, che ci occupa:

Fasi Leyman

1° fase - inizio del conflitto e dell’attacco; la vittima prova disagio

2° fase - aumenta il conflitto, le ostilità diventano più frequenti e più gravi, subentra il “terrore psicologico”: se le aggressioni perdurano per più di un anno, lo stato d’ansia può cronicizzare

3°fase - la gestione del personale commette errori ed irregolarità con negazione dei diritti della vittima; i superiori addossano la colpa alla vittima che si sente sempre più male

4°fase - dequalificazione delle mansioni, trasferimenti, cui consegue malattia anche di lunga durata, per cui il mobbizzato viene escluso dal mondo del lavoro e dopo un certo periodo di tempo o dà le dimissioni o viene licenziato

Fasi Ege

1) Condizione zero o condizione predisponente. E’ la potenziale e fisiologica situazione di conflitto nell’ambiente di lavoro italiano: un conflitto che è fisiologico, accettato; il conflitto è generalizzato, vede tutti contro tutti, non esiste una vittima designata; non c’è volontà di distruggere, ma solo una spinta ad emergere sugli altri

2) Fase 1 o del conflitto mirato La vittima è individuata; il conflitto generalizzato si dirige verso di essa; l’obiettivo non è solo emergere sugli altri, ma distruggere l’avversario individuato; il conflitto si allarga dal bersaglio lavoro al bersaglio “sfera privata”

3) Fase 2 o vero e proprio inizio del Mobbing. La vittima avverte disagio e fastidio; le relazioni con i colleghi diventano difficili e si inaspriscono; la vittima comincia a porsi domande sul cambiamento

4) Fase 3 o dei primi sintomi psico-somatici. Il soggetto travagliato, incredulo, isolato comincia a non dormire la notte, a non digerire, ad avere difficoltà a recarsi al lavoro per non dover affrontare il disagio, a sentirsi insicuro; l’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva; si manifestano i sintomi di una iniziale depressione: astenia, svogliatezza, demotivazione, sensi di colpa per non essere capace di migliorare la situazione

5) Fase 4 o degli errori ed abusi dell’amministrazione del personale. L’Ufficio del personale inizia ad occuparsi del caso giudicando male la vittima ed il suo scarso rendimento fino ad arrivare a sanzioni disciplinari; la vittima comincia a fare assenze per malattia, ciò viene notato dai superiori, che prenderanno di mira il soggetto; minaccia incombente sulla vittima, che peggiorerà i suoi sintomi; assentandosi sempre più dal lavoro e preparando il percorso del Mobbing

6) Fase 5 o fase dell’aggravamento della salute psicofisica della vittima. Il soggetto entra in depressione più grave per cui sentirà l’esigenza di consulti specialistici e terapia farmacologia; la diagnosi di “stato ansioso depressivo” non piace alle aziende, e ciò aggraverà la posizione del mobbizzato; la vittima comincia a sviluppare idee persecutorie, si convince di non poter più affrontare la situazione; si sviluppa una “Disturbo Postraumatico da Stress” con sentimenti di paura intensa, d’impotenza, di minaccia di morte o all’integrità fisica; o un “Disturbo dell’adattamento” con compromissione del funzionamento sociale o lavorativo; possono manifestarsi anche malattie fisiche: quali asma bronchiale, ulcera duodenale, vertigini, cefalee, disturbi del comportamento alimentare e della sfera sessuale; riduzione delle difese immunitarie con maggior facilità ad ammalarsi

7) Fase 6 o esclusione dal mondo del lavoro. Dimissioni volontarie; licenziamento; ricorso al prepensionamento; esiti traumatici: suicidio, omicidio, vendetta sul mobber.

Appare ormai consolidata la tendenza a considerare il mobbing come una forma di vessazioni psicologiche, esercitate nel tempo, tali da provocare uno stato di soggezione nel lavoratore, che nel tempo porta a una progressiva emarginazione del medesimo.

Il soggetto “mobbizzato”, originariamente fortemente interessato alla propria attività lavorativa, inizia a considerare la medesima come fonte di stress e, per queste ragioni, inizia ad assumere un atteggiamento di diffidenza nei confronti del gruppo di colleghi, spesso non rendendosi conto che il senso di frustrazione e diffidenza, nonché il disagio psichico, progressivamente più intenso, è causato dalle occulte e sotterranee vessazioni subìte.

Il mobbing è esito di un percorso, non sempre rettilineo, ma più spesso subdolo e occulto, il quale implica l’individuazione, all’interno di un gruppo, di un “capro espiatorio”, che diventa oggetto di vessazioni e il cui stato di salute progressivamente peggiora.

Lo sviluppo in negativo di questo percorso è il possibile pregiudizio ai rapporti personali e familiari del soggetto “mobbizzato”.

Assume rilievo la recente sentenza del Tribunale di Novara, Sezione lavoro dell’8 giugno 2010, n. 37, la quale si aggancia alle indagini sul fenomeno in esame, sviluppate da Harald Ege, specialista in relazioni industriali. Essa ripercorre le tappe significative di un percorso, che porta all’attuazione di mobbing, nei confronti di un soggetto, occultamente designato come vittima. Tale sentenza afferma che "Dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui s’individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale (...) la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nella quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio (…) La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute (…). La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale (...) La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione (…) La sesta fase, peraltro indicata solo come eventuale, porta la storia del mobbing ad un epilogo, nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti”.

Si comprende come, già sul piano psicologico e pre-giuridico, il mobbing riguardi il rapporto esistenziale fra individui, il quale può esser tradotto in termini giuridici attraverso il paradigma della responsabilità aquiliana, eventualmente adoperando in maniera complementare quello della responsabilità contrattuale, in quanto la responsabilità aquiliana prende in considerazione la dimensione globale dell’esistenza in atto dei singoli, sia isolatamente considerati, sia attraverso l’esame dei fenomeni aggregativi, in cui gli individui interagiscono nella quotidianità.

Appare appropriato configurare il mobbing come una fattispecie a formazione progressiva, in quanto la lesività della condotta prevaricatrice comporta, nel tempo, conseguenze sempre più gravi, allorché vi è un protrarsi della medesima. Tali osservazioni possono reputarsi più pertinenti, allorché il mobbing sia attuato da un soggetto gerarchicamente sovraordinato, rispetto alla vittima (in tal caso il mobbing assume la forma del c.d. “bossing”). Il carattere subdolo del mobbing è reso ancor più intenso dalla circostanza che il medesimo può esser realizzato con modalità diversissime e non sempre viene in un primo momento percepito come tale, potendo essere all’inizio il fine principale quello di disorientare la vittima, cercando di non farle comprendere con immediatezza la presenza di mobbing.

Il “mobbing” è stato originariamente studiato nell’ambito dell’etologia (Konrad Lorenz), per indagare sui meccanismi, collegati alla difesa del territorio, da parte degli animali; tale meccanismo si concretizza nell’aggressione a un singolo soggetto, per scopi di tutela del “branco”.

Si è successivamente (Leyman) collegato il mobbing al comportamento degli uccelli, nell’ipotesi di comportamenti aggressivi, riguardo a un singolo esemplare, che non si conformi alla “logica” del gruppo e si è poi rilevata l’osservazione di comportamenti affini negli ambienti di lavoro.

Questa sommaria ricostruzione fa comprendere come, nelle c.d. “comunità separate” sia ben possibile ipotizzare condotte siffatte, nei confronti di soggetti per certi versi “anticonformisti”, per il fatto che in esse la coesione di gruppo è particolarmente avvertita all’interno delle medesime.

Può rilevarsi la sovrapponibilità delle fasi di mobbing, distinte da Leyman ed Ege, che riprende e rielabora la classificazione in fasi del primo, e la vicenda, che ci occupa:

Fasi Leyman

1° fase - inizio del conflitto e dell’attacco; la vittima prova disagio

2° fase - aumenta il conflitto, le ostilità diventano più frequenti e più gravi, subentra il “terrore psicologico”: se le aggressioni perdurano per più di un anno, lo stato d’ansia può cronicizzare

3°fase - la gestione del personale commette errori ed irregolarità con negazione dei diritti della vittima; i superiori addossano la colpa alla vittima che si sente sempre più male

4°fase - dequalificazione delle mansioni, trasferimenti, cui consegue malattia anche di lunga durata, per cui il mobbizzato viene escluso dal mondo del lavoro e dopo un certo periodo di tempo o dà le dimissioni o viene licenziato

Fasi Ege

1) Condizione zero o condizione predisponente. E’ la potenziale e fisiologica situazione di conflitto nell’ambiente di lavoro italiano: un conflitto che è fisiologico, accettato; il conflitto è generalizzato, vede tutti contro tutti, non esiste una vittima designata; non c’è volontà di distruggere, ma solo una spinta ad emergere sugli altri

2) Fase 1 o del conflitto mirato La vittima è individuata; il conflitto generalizzato si dirige verso di essa; l’obiettivo non è solo emergere sugli altri, ma distruggere l’avversario individuato; il conflitto si allarga dal bersaglio lavoro al bersaglio “sfera privata”

3) Fase 2 o vero e proprio inizio del Mobbing. La vittima avverte disagio e fastidio; le relazioni con i colleghi diventano difficili e si inaspriscono; la vittima comincia a porsi domande sul cambiamento

4) Fase 3 o dei primi sintomi psico-somatici. Il soggetto travagliato, incredulo, isolato comincia a non dormire la notte, a non digerire, ad avere difficoltà a recarsi al lavoro per non dover affrontare il disagio, a sentirsi insicuro; l’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva; si manifestano i sintomi di una iniziale depressione: astenia, svogliatezza, demotivazione, sensi di colpa per non essere capace di migliorare la situazione

5) Fase 4 o degli errori ed abusi dell’amministrazione del personale. L’Ufficio del personale inizia ad occuparsi del caso giudicando male la vittima ed il suo scarso rendimento fino ad arrivare a sanzioni disciplinari; la vittima comincia a fare assenze per malattia, ciò viene notato dai superiori, che prenderanno di mira il soggetto; minaccia incombente sulla vittima, che peggiorerà i suoi sintomi; assentandosi sempre più dal lavoro e preparando il percorso del Mobbing

6) Fase 5 o fase dell’aggravamento della salute psicofisica della vittima. Il soggetto entra in depressione più grave per cui sentirà l’esigenza di consulti specialistici e terapia farmacologia; la diagnosi di “stato ansioso depressivo” non piace alle aziende, e ciò aggraverà la posizione del mobbizzato; la vittima comincia a sviluppare idee persecutorie, si convince di non poter più affrontare la situazione; si sviluppa una “Disturbo Postraumatico da Stress” con sentimenti di paura intensa, d’impotenza, di minaccia di morte o all’integrità fisica; o un “Disturbo dell’adattamento” con compromissione del funzionamento sociale o lavorativo; possono manifestarsi anche malattie fisiche: quali asma bronchiale, ulcera duodenale, vertigini, cefalee, disturbi del comportamento alimentare e della sfera sessuale; riduzione delle difese immunitarie con maggior facilità ad ammalarsi

7) Fase 6 o esclusione dal mondo del lavoro. Dimissioni volontarie; licenziamento; ricorso al prepensionamento; esiti traumatici: suicidio, omicidio, vendetta sul mobber.

Appare ormai consolidata la tendenza a considerare il mobbing come una forma di vessazioni psicologiche, esercitate nel tempo, tali da provocare uno stato di soggezione nel lavoratore, che nel tempo porta a una progressiva emarginazione del medesimo.

Il soggetto “mobbizzato”, originariamente fortemente interessato alla propria attività lavorativa, inizia a considerare la medesima come fonte di stress e, per queste ragioni, inizia ad assumere un atteggiamento di diffidenza nei confronti del gruppo di colleghi, spesso non rendendosi conto che il senso di frustrazione e diffidenza, nonché il disagio psichico, progressivamente più intenso, è causato dalle occulte e sotterranee vessazioni subìte.

Il mobbing è esito di un percorso, non sempre rettilineo, ma più spesso subdolo e occulto, il quale implica l’individuazione, all’interno di un gruppo, di un “capro espiatorio”, che diventa oggetto di vessazioni e il cui stato di salute progressivamente peggiora.

Lo sviluppo in negativo di questo percorso è il possibile pregiudizio ai rapporti personali e familiari del soggetto “mobbizzato”.

Assume rilievo la recente sentenza del Tribunale di Novara, Sezione lavoro dell’8 giugno 2010, n. 37, la quale si aggancia alle indagini sul fenomeno in esame, sviluppate da Harald Ege, specialista in relazioni industriali. Essa ripercorre le tappe significative di un percorso, che porta all’attuazione di mobbing, nei confronti di un soggetto, occultamente designato come vittima. Tale sentenza afferma che "Dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui s’individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale (...) la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nella quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio (…) La terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute (…). La quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori ed abusi dell’amministrazione del personale (...) La quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione (…) La sesta fase, peraltro indicata solo come eventuale, porta la storia del mobbing ad un epilogo, nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti”.

Si comprende come, già sul piano psicologico e pre-giuridico, il mobbing riguardi il rapporto esistenziale fra individui, il quale può esser tradotto in termini giuridici attraverso il paradigma della responsabilità aquiliana, eventualmente adoperando in maniera complementare quello della responsabilità contrattuale, in quanto la responsabilità aquiliana prende in considerazione la dimensione globale dell’esistenza in atto dei singoli, sia isolatamente considerati, sia attraverso l’esame dei fenomeni aggregativi, in cui gli individui interagiscono nella quotidianità.

Appare appropriato configurare il mobbing come una fattispecie a formazione progressiva, in quanto la lesività della condotta prevaricatrice comporta, nel tempo, conseguenze sempre più gravi, allorché vi è un protrarsi della medesima. Tali osservazioni possono reputarsi più pertinenti, allorché il mobbing sia attuato da un soggetto gerarchicamente sovraordinato, rispetto alla vittima (in tal caso il mobbing assume la forma del c.d. “bossing”). Il carattere subdolo del mobbing è reso ancor più intenso dalla circostanza che il medesimo può esser realizzato con modalità diversissime e non sempre viene in un primo momento percepito come tale, potendo essere all’inizio il fine principale quello di disorientare la vittima, cercando di non farle comprendere con immediatezza la presenza di mobbing.