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Cittadinanza e residenza dello straniero di discendenza italiana

1. La cittadinanza: normativa e procedura

La legge sulla cittadinanza (L. 5 febbraio 1992 n. 91[1]), nell’abrogare la precedente L. 555/1912, ne ha mantenuto il principio-guida dello jus sanguinis (= diritto per discendenza) in ordine al riconoscimento della cittadinanza italiana, lasciando in posizione di residualità il principio dello jus soli (= diritto per nascita sul territorio dello Stato).

 A norma dell’art. 1 della L. 91/92 è quindi riconosciuto cittadino italiano “il figlio di padre o di madre cittadini”. Riconoscimento, questo, che consiste nell’attribuzione non ex novo bensì dalla nascita, in quanto ricognizione del possesso dello status civitatisderivato al soggetto in virtù della discendenza da un cittadino italiano per nascita.

In sede di applicazione pratica della norma, il cittadino straniero discendente da emigrato italiano si vede riconoscere la cittadinanza italiana inevitabilmente secondo un procedimento a ritroso: ove un genitore (padre o madre) siano riconosciuti cittadini italiani, anch’egli godrà del medesimo status. Tuttavia, a seguito del fenomeno di emigrazione che ha colpito soprattutto il nostro meridione nel secolo scorso, precipuamente verso il continente sudamericano, il procedimento di riconoscimento a ritroso della cittadinanza necessariamente si sviluppa sovente in più passaggi generazionali. Ad esempio, nel caso in cui il più prossimo ascendente italiano sia, in ipotesi, un bisnonno, occorrerà riconoscere la cittadinanza jure sanguinis al di lui figlio (nonno dell’interessato), seppur nato in terra straniera (e quindi straniero per nascita). Allo stesso modo, la cittadinanza italiana si trasmetterà al figlio del nonno, ossia al genitore dell’interessato. E così, accertata la cittadinanza italiana del genitore, anche al figlio potrà essere applicato l’art. 1 della Legge.

Sotto il profilo operativo, lo straniero che intenda vedersi riconoscere la cittadinanza italiana deve, quindi, documentare e far certificare la cittadinanza dei propri ascendenti, uno per uno, risalendo nelle generazioni sino all’avo (emigrato) di nascita italiana. Ciò comporta, intuitivamente, la necessità di ricostruzione documentale di tutti i singoli passaggi nell’albero genealogico, non senza difficoltà: dopo aver accertato eventuali variazioni nei nomi, talora mal trascritti, talora deformati dalla lingua del paese di emigrazione (es., nei casi del sudamerica: Cella=Chella, Rossi=Rosi, Chirico=Quirico, Giovanni=Juan)[2], occorre acquisire la documentazione anagrafica di tutti gli ascendenti (per comprovare la continuità genealogica) e, in particolare dell’avo italiano la cui documentazione, però, è rimasta in Italia, presso il comune di nascita. Senonché la ricerca del documento cartaceo di vecchia data (per il quale non ha luogo parlare di informatizzazione) è sovente ostacolata dalla dispersione degli archivi pubblici, vuoi in conseguenza di distruzione bellica degli uffici, vuoi per avvenuta soppressione o accorpamenti di municipalità; e deve così dirigersi verso altre fonti quali, ad esempio, gli archivi di Stato, gli archivi parrocchiali, gli archivi delle caserme dove l’avo ha prestato servizio militare; e così via, progredendo o bloccandosi a seconda della minore o maggiore dispersione dei documenti.

   In tutto questo lavoro di ricerca, alla difficoltà logistica se ne aggiunge un’altra: ove fra gli avi figuri un’ascendente di sesso femminile, varia il cognome del figlio: il cognome dell’avo italiano si perde e l’oriundo assume un cognome per lo più straniero, del paese di nascita del padre. Quanti più sono i passaggi in linea femminile, tanto più i congiungimenti matrimoniali rendono complicato risalire all’avo (o all’antenata) di diretta nascita italiana, poiché il diverso cognome non ne agevola l’identificazione[3].

 Una volta acquisita l’intera documentazione, necessariamente con l’ausilio di un corrispondente in Italia, il cittadino straniero deve curare la traduzione giurata in lingua italiana delle certificazioni formatesi all’estero e sottoporle al vaglio del Comune italiano dove egli risiede o intenda stabilire la propria residenza (art. 23).

L’Ufficiale di stato civile deve quindi acquisire, dal Consolato italiano competente in base al luogo di nascita dell’interessato, la certificazione attestante che né questi, né alcuno dei suoi avi, abbiano mai rinunciato alla cittadinanza italiana.

Operativamente, secondo le direttive della Circ. Min. n. K.28.1 del 8.4.1991, tutto quanto appena detto avviene dietro presentazione di una specifica istanza corredata dei seguenti documenti:

1.   estratto dell’atto di nascita dell’avo italiano emigrato all’estero, rilasciato dal Comune italiano ove egli nacque;

2.   atti di nascita, muniti di traduzione ufficiale italiana, di tutti i discendenti in linea retta, compreso il soggetto rivendicante il possesso della cittadinanza italiana;

3.   atto di matrimonio dell’avo italiano emigrato all’estero, munito di traduzione ufficiale italiana se formato all’estero;

4.   atti di matrimonio dei discendenti, in linea retta, compreso quello dei genitori del soggetto rivendicante il possesso della cittadinanza italiana, anch’essi accompagnati da traduzione ufficiale italiana;

5. certificato rilasciato dalle competenti autorità dello Stato estero di emigrazione, munito di traduzione ufficiale in lingua italiana, attestante che l’avo italiano a suo tempo emigrato dall’Italia non acquistò la cittadinanza dello Stato estero di emigrazione anteriormente alla nascita dell’ascendente dell’interessato: ad esempio, in Argentina questo certificato è il c.d. Poder Judicial, rilasciato dalla Càmara Electoral, attestante che l’avo italiano non si iscrisse mai nelle liste elettorali dello stato estero; anch’esso deve essere tradotto in lingua italiana[4];

6.   certificato rilasciato dalla competente autorità consolare italiana attestante che né gli ascendenti in linea retta, né la persona rivendicante il possesso della cittadinanza italiana vi abbiano mai rinunciato[5];

7.   certificato di residenza.

Inoltre, se in uno dei passaggi lo stato di filiazione è stato dichiarato giudizialmente, occorre produrre anche la sentenza straniera[6], ovviamente anch’essa accompagnata da traduzione giurata.

In sostanza, i requisiti da provare sono: a) la discendenza; b) l’assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza; c) la mancata naturalizzazione straniera da parte dell’avo, quantomeno prima della nascita di suo/a figlio/a; d) l’assenza di dichiarazioni di rinuncia alla cittadinanza italiana da parte dei suoi discendenti.

Ma non basta. La Circolare K.28.1 chiarisce che, “allo scopo di poter accertare in modo compiuto il mancato esercizio – da parte dei soggetti reclamanti il possesso della cittadinanza italiana – della facoltà di rinunziarvi… si rende necessario, da un lato, svolgere adeguate indagini presso il Comune italiano d’origine o di ultima residenza dell’avo italiano emigrato all’estero… e, dall’altro lato, contattare direttamente tutte le Rappresentanze consolari italiane competenti per le varie località estere ove gli individui in questione abbiano risieduto”. Ciò significa che, se l’avo italiano si era trasferito (parlando dell’Argentina), ad esempio, da Buenos Aires a Cordoba e poi a Mendoza, il certificato di cui al n. 6 dovrà essere richiesto a ciascun Consolato competente, nella cui giurisdizione ricade ogni singola località di residenza: e ciò non avviene d’ufficio, bensì su interessamento personale.

L’Ufficiale di stato civile, vagliata la documentazione in ordine alle certificazioni e alle indagini presso il comune italiano d’origine dell’avo, riscontrata la regolarità e la fondatezza della domanda, inoltra la richiesta di cittadinanza al Consolato italiano competente in base al luogo di nascita dell’interessato. Il Consolato, verificate le condizioni, emette il certificato di cui al p.to 6.

Compiuta l’istruttoria sulla scorta della documentazione presentata, a norma dell’art. 16 del DPR 12 ottobre 1993 n. 572 (Regolamento di esecuzione della L. 91/92) il Sindaco del comune di residenza (ovvero il Consolato italiano se la residenza è all’estero) emette la certificazione di cittadinanza e la trasmette all’Ufficiale di stato civile (comma 5) il quale, predisposta la trascrizione degli atti di stato civile, dà comunicazione della cittadinanza, oltre che all’interessato, anche alla Questura e al Ministero dell’Interno, Divisione Cittadinanza.

A questo punto, il cittadino – ormai definitivamente italiano – se ritiene può richiedere il rilascio del passaporto.

2. La residenza: normativa e rapporti con la cittadinanza

Comunemente si fa risalire il concetto di residenza all‘art. 43 del Codice civile, come luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Tuttavia, su questa norma prevale la legge anagrafica (L. 24 dicembre 1954 n. 1228), sia per il principio di successione nel tempo, sia per il principio secondo cui “lex specialis derogat legi generali“.

L‘art. 1 della Legge 1228/54, prevede espressamente che "Nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio, in conformità del regolamento per l’esecuzione della presente legge".

L’art. 2 della medesima legge statuisce che "la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune ove ha il domicilio, e in mancanza di questo nel comune di nascita" [7].

Occorre prestare attenzione a questo particolare istituto della residenza “senza fissa dimora“ per le sue implicazioni con la cittadinanza degli oriundi italiani.

La residenza "senza fissa dimora" non è una residenza falsa: ad essa non corrisponde un‘infedele rappresentazione della situazione giuridica in cui versa il residente, bensì la semplice attestazione di una domiciliazione che, se non registrata, non sarebbe valida ai fini anagrafici e priverebbe il soggetto della possibilità di godere di tutela e di assistenza sul territorio nazionale, facendolo considerare di fatto "irreperibile".

E’ ben vero che tale istituto giuridico può apparire, di primo acchito, linguisticamente contraddittorio, laddove contrappone un concetto di "residenza" squisitamente amministrativo all’analogo concetto civilistico previsto dall’art. 43 del codice civile. Ma appunto perché il legislatore ha inteso distinguere le due fattispecie, la norma ricorre ad una fictio juris: la persona si considera residente, pur senza esserlo fisicamente; anche il Ministro dell‘Interno, nel rispondere ad una interrogazione parlamentare che vedremo, ha parlato di “una conseguenza delle disposizioni normative in materia anagrafica“.

La ratio dell’istituto meriterebbe ben più profondo studio e, per brevità, rinviamo ad altri Autori[8], limitandoci in questa sede a rimarcare l’impossibilità, per chiunque si trovi sul territorio nazionale e sia privo di residenza, di accedere ai più comuni servizi sociali perché considerato ufficialmente "irreperibile". Per questa ragione nel 2002 il Comune di Roma ha persino istituito una via fittizia (denominata "via Modesta Valenti") sotto la quale registrare le residenze senza fissa dimora. A questo indirizzo virtuale, ossia non materialmente esistente, il Comune di Roma registra i residenti senza fissa dimora: ai numeri dispari i c.d. “senza tetto“ e i “senza fissa dimora“ che eleggono domicilio ma che in realtà non hanno un vero e proprio recapito nel Comune; e ai numeri pari i già residenti che abbiano perso la disponibilità di un’abitazione.

 Interessante la risalente Circolare n. 19120 del 14.2.1994 del Comune di Roma: “Quanto sopra premesso, gli Uffici Anagrafici circoscrizionali vorranno accogliere le richieste di residenza dei senza fissa dimora nelle seguenti ipotesi:

-       cittadini italiani in possesso dei requisiti necessari...;

-     cittadini stranieri extra comunitari identificati attraverso un valido titolo di viaggio (passaporto) e in grado di esibire anche un valido foglio di soggiorno rilasciato dalle Autorità di Pubblica Sicurezza“.

Da quest‘ultima disposizione sembra ricavarsi la conclusione che l’istituto del “senza fissa dimora“ non sarebbe applicabile soltanto a persone emarginate della società, quali mendicanti, senzatetto, etc.

Così prosegue la Circolare del Comune di Roma: “Per la pratica applicazione di tale direttiva sarà necessario che le persone senza fissa dimora all’atto della richiesta di iscrizione esibiscano una dichiarazione delle Associazioni o degli Enti di Volontariato nella quale viene precisata la disponibilità a fornire il proprio indirizzo come domicilio anagrafico dell’interessato. Tale iscrizione... non necessita di ulteriore verifica da parte dei VV.UU. giacché l’indirizzo fornito non rappresenta la dimora effettiva dell’interessato, ma il suo recapito ai soli fini anagrafici“.

In altre parole, sin dal 1994 il Comune di Roma, cui hanno fatto seguito numerose altre municipalità, ha concesso la residenza a cittadini nati all‘estero ma aventi diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana perché discendenti di cittadini italiani anticamente emigrati. Tuttavia, come precisato dalla disposizione capitolina, proprio perché manca un’effettiva dimora, il cittadino stranieroaspirante alla cittadinanza italiana iure sanguinis chiede e ottiene, per espresso suo diritto sancito dalla riportata legge anagrafica[9], la residenza "senza fissa dimora" e questa residenza, indipendentemente dalla costante presenza fisica in Italia del soggetto (presenza che potrebbe anche venir meno), fungerà da domiciliazione nel successivo iter burocratico finalizzato alla cittadinanza, non avendo altrimenti il Consolato un riferimento legato alla reperibilità del soggetto istante.

 Come illustrato nel § 1, la Legge 91/1992 consente di presentare la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana:

  • al Comune dove l’interessato risiede o intende stabilire la propria residenza;

  • all’Autorità diplomatica o consolare del luogo estero di residenza.

La Legge 91/1992, quindi, consente ma non impone la fissazione di una residenza del cittadino straniero in Italia. Il che equivale a dire che la previsione di una residenza in territorio italiano non è funzionalmente stabilita quale atto amministrativo prodromico al riconoscimento della cittadinanza, ben potendo il cittadino interessato adire il Consolato italiano competente in caso di sua residenza all’estero. Al contrario, la residenza in un Comune italiano è esclusivamente prevista ove l’interessato intenda far seguire l’istruttoria all’ufficio municipale, lasciando al Consolato la sola verifica che nessuno degli ascendenti emigrati abbia mai rinunciato all’originaria cittadinanza italiana; col vantaggio di vedersi riconoscere con meno ritardo il proprio diritto, attesa la maggior rapidità dell’istruttoria effettuata dai comuni rispetto a quella dei consolati. Da ciò discende che l’atto amministrativo di concessione della residenza è unicamente il passaggio solo eventuale di un iter amministrativo ma, in quanto privo di nesso teleologico rispetto al successivo atto amministrativo di riconoscimento della cittadinanza, non si pone come presupposto rispetto a quest’ultimo, rimanendo appunto la cittadinanza soggetta non alla residenza, bensì ai ben diversi presupposti dello jus sanguinis ovvero (nei casi previsti) dello jus soli.

Ciò è tanto più vero ove si consideri che la L. 28.5.2007 n. 68, sulla quale pure torneremo nel prosieguo, nell’abolire il permesso di soggiorno per permanenze in territorio italiano di durata non superiore a tre mesi, sostituendolo con semplice “dichiarazione di presenza”, consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in Italia per detto breve periodo (quindi, “senza fissa dimora”) utilizzando la ricevuta di presentazione della dichiarazione di presenza come “idoneo documento al fine di ottenere l’iscrizione anagrafica tesa al riacquisto della cittadinanza” (in tal senso testualmente la Circolare n. 32 del 13.6.2007 del Min. Interno, Dip. Affari Interni e Territoriali, Dir. Centr. per i Servizi Demografici).

Occorre quindi prendere in esame il problema della residenza, sulla quale, come accennato, è sorto un caso nazionale oggetto di interrogazione parlamentare[10]. In quella sede, l‘interrogante On. Rampelli poneva al Ministro dell‘Interno un quesito, rimarcando che “alcuni siti Internet consigliano agli oriundi italiani di recarsi direttamente a Roma per iscriversi come residenti, senza accertamento, dichiarandosi appunto senza fissa dimora, per poi chiedere di ottenere speditamente i documenti validi e di conseguenza la cittadinanza“. Nella seduta del 5 novembre 2008, il Ministro così contestualizzava la propria risposta: “Dico subito che la situazione particolare che si è creata a Roma, dove il fenomeno è più evidente, è una conseguenza delle disposizioni normative in materia anagrafica. L‘articolo 2 della legge n. 1228 del 1954 dispone, infatti, che ai fini dell‘obbligo di iscrizione anagrafica la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune dove ha il domicilio e, in mancanza di questo, nel comune di nascita. Il regolamento anagrafico - prosegue il Ministro - stabilisce che l‘anagrafe è costituita dalle persone che hanno fissato nel comune la propria residenza e da quelle che, senza fissa dimora, vi hanno stabilito il domicilio“.

Il Comune di Roma si è rivelato sensibile alla problematica fatta sorgere dalla sua iniziativa, consapevole che, pur nella tutela del diritto del cittadino[11], l‘applicazione della legge lasciava spazio a prassi discutibili. Per cui, nel 2008, ha ritenuto di circoscrivere quella possibilità ai cittadini provatamente in stato di disagio (ma chi lo valuta?). Però, ancora nel 2009, lo stesso Comune, con Circolare n. 44181 del 26.3.2009, sempre privilegiando l’iscrizione anagrafica presso private associazioni di volontariato (all’uopo istituendo un modello standard di nulla osta alla domiciliazione), ha ancora ammesso la possibilità che l’interessato, “pur avendo genericamente eletto il proprio domicilio nel territorio municipale, non abbia dichiarato alcun indirizzo specifico presso associazioni“, prevedendo, in tal caso, l’iscrizione d’ufficio all’indirizzo virtuale di Via Modesta Valenti.

Sino a qualche anno fa, non esisteva peraltro un vero e proprio registro per siffatte posizioni anagrafiche ed il vuoto normativo era colmato dalla prassi seguita dai comuni. Finché è intervenuta la L. 15 luglio 2009 n. 94 istituendo un apposito registro nazionale delle persone prive di fissa dimora attraverso il sistema INA (Indice Nazionale delle Anagrafi) già istituito nel 2000 col D.L. 27 dicembre 2000 n. 392. Il registro nazionale delle persone s.f.d. è tenuto dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero, Dir. Centrale per i servizi demografici, e le modalità di funzionamento sono dettate dal D.M. 6 luglio 2010: vale a dire che solo nell’anno del processo si è completata la normativa organica dell’istituto in questione.

Si direbbe quindi infondata la tesi secondo cui la residenza vada accompagnata da un obbligo di effettiva permanenza sul territorio comunale, come dimostra anche la sua incompatibilità con la L. 28 maggio 2007 n. 68, significativamente intitolata “Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio“. L’art. 1 della legge prevede che per soggiorni di durata inferiore a tre mesi non è richiesto il permesso di soggiorno, essendo sufficiente una dichiarazione di presenza che i cittadini extracomunitari presentano all’autorità di frontiera all’atto dell’ingresso[12]. La Circolare 13 giugno 2007 n. 32 del Ministero dell’Interno è chiara: “La ricevuta di tale dichiarazione... si ritiene che possa costituire titolo utile ai fini dell’iscrizione anagrafica di coloro che intendono avviare in Italia la procedura per il riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis... La dichiarazione, infatti, è l’adempimento che consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in Italia per un periodo di tre mesi o per il minor periodoeventualmente stabilito nel visto d’ingresso“. Il D.M. 26 luglio 2007 è ancora più chiaro, stabilendo che, ai fini dell’iscrizione anagrafica dei soggetti provenienti da Paesi che non applicano l’accordo di Schengen e che intendono richiedere il riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis, è sufficiente l’esibizione del timbro “Schengen“ sul documento di viaggio. In ultimo, la Circolare 28 settembre 2007 n. 52 del Ministero diffonde agli uffici periferici le istruzioni di cui al Decreto Ministeriale.

Prevedendo la possibilità di soggiorni in Italia di durata anche minima, la novella legislativa è la prova di come il legislatore abbia definitivamente disatteso il principio secondo cui debba permanere una connotazione di abitualità e stabilità della dimora nell’obbligo di residenza ai fini dell’avvio della pratica amministrativa di riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis.

3. L’A.I.R.E. – Anagrafe Italiana dei Residenti all‘Estero

L’A.I.R.E. (disciplinata dalla L. 27 ottobre 1988 n. 470 e dal regolamento di esecuzione approvato con DPR 6 settembre 1989 n. 323) è l’Anagrafe della popolazione italiana all’estero. E’ parte integrante dell’anagrafe italiana e contiene i dati di tutti i cittadini che risiedono all’estero per un periodo superiore a 12 mesi.

Ovunque siano nati, i cittadini italiani sono tenuti a iscriversi all’AIRE, affinché siano consentiti: a) l’esercizio dei diritti politici; b) la programmazione degli interventi statali a favore delle comunità di italiani residenti all’estero; c) l’erogazione dei servizi amministrativi e gli interventi di assistenza previsti per i cittadini italiani residenti all’estero.

   I cittadini italiani che si trasferiscono all’estero ottengono l’iscrizione all’AIRE attraverso la compilazione di un apposito modello (CONS.01), in due diversi modi:

  • recandosi, entro 90 giorni dalla data di emigrazione, al Consolato italiano all’estero competente per territorio, che provvederà a inviare il modello CONS.01 al Comune di emigrazione, ove l’Ufficiale d’anagrafe procederà all’iscrizione all’AIRE;

  • in alternativa, il cittadino può rendere la dichiarazione di emigrazione già all’ufficio Anagrafe del Comune di residenza, almeno 20 giorni prima della partenza, fornendo l’indirizzo dello Stato estero di emigrazione. Il Comune inoltrerà la comunicazione al Consolato e al Ministero dell’Interno. Anche in questo caso l’interessato dovrà però poi recarsi al Consolato per denunciare il suo arrivo sul territorio dello Stato estero. Il Consolato invierà al Comune la conferma dell’avvenuto trasferimento e l’Ufficiale d’anagrafe provvederà così alla cancellazione del cittadino dall’anagrafe della popolazione residente.

Ad iscrizione avvenuta, il Consolato diviene il referente del cittadino italiano per tutte le formalità di carattere anagrafico, elettorale, etc.

[1]  Si aggiungono i regolamenti di esecuzione approvati con DPR 12 ottobre 1993 n. 572 e con DPR 18 aprile 1994 n. 362. Tralasciamo ovviamente normative specifiche, quali la L. 14 dicembre 2000 n. 379 sul riconoscimento della cittadinanza alle persone nate nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico, la L. 8 marzo 2006 n. 124 sul riconoscimento della cittadinanza ai discendenti di connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia; nonché la L. 27 maggio 1929 di ratifica del Trattato dell’11 febbraio 1929 tra l’Italia e la Santa Sede in ordine alla cittadinanza dei residenti nello Stato del Vaticano.

[2] Su questo problema, v. Circ. Min. Interno n. K.8/2/99 del 24.11.1999.

[3] Tralasciamo qui tutta la problematica legata alla situazione della donna coniugata con straniero prima del 1 gennaio 1948, risolta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 87 del 16 aprile 1975, dall’introduzione nel codice civile dell’art. 143 ter, dall’art. 215 della L. 151/75 (Riforma del diritto di famiglia) e, in sede amministrativa, dalla Circolare del Ministero dell’Interno n. K.60.1/5 del 8 gennaio 2001. Viene anche omessa la storica problematica, ormai superata, legata al mancato riconoscimento del diritto della madre italiana di trasmettere la cittadinanza al figlio: principio dichiarato incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 30 del 9 febbraio 1983; incostituzionalità che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 12091 del 26 giugno 1998, stabilirono avere efficacia retroattiva sino al 1 gennaio 1948, data di entrata in vigore della carta costituzionale.

[4] E’ opportuno aggiungere che in Argentina, così come in altri paesi sudamericani, l’acquisto della cittadinanza non comporta l’automatica obbligatorietà della rinuncia all’originaria cittadinanza dello straniero. Per questo motivo, nessun italiano naturalizzato argentino si è visto costretto a rinunciare all’originaria cittadinanza italiana. Per dimostrare la non adozione della cittadinanza argentina, quindi, è sufficiente presentare il certificato del Poder Judicial, ossia l’attestazione di non acquisto volontario della cittadinanza rilasciata dalla Camera Elettorale argentina. La donna italiana sposata con cittadino argentino non acquista la cittadinanza del coniuge, in quanto la legge argentina non prevede questa ipotesi.

[5] Questo certificato non è sostituibile da atto notorio o da autocertificazione, per l’impossibilità di verifica da parte dell’autorità italiana: v. Min. Interno, Dip. per le Libertà Civili e l’Immigrazione, Dir. Centr. per i Diritti Civili, prot. n. K.7.29058 del 8 agosto 2003.

[6] Tralasciamo l’esame del caso del figlio adottato, al quale – prima della L. 5 giugno 1967 n. 431 che lo equiparò al figlio legittimo – era negata la cittadinanza. Sul tema, vedasi anche la L. 31 dicembre 1998 n. 476 che ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993.

[7] Nulla aggiunge il regolamento di esecuzione, approvato con DPR 30 maggio 1989 n. 223.

[8] MINARDI Romano, Senza fissa dimora, in “I Servizi Demografici” n. 4/2005, Ed. Maggioli; MOROZZO DELLA ROCCA Paolo, Le nuove regole sull’iscrizione anagrafica dei senza fissa dimora, in “Lo Stato Civile”, novembre 2009, pag. 834 (entrambi prodotti agli atti dalle difese di entrambe le imputate).

[9] Diritto ulteriormente riconosciutogli dall’art. 6 del D.Lgs. 286/98, T.U. Immigrazione.

[10] Interrogazione n. 3-00214, seduta n. 79 del 5 novembre 2008 della Camera dei Deputati, prodotta agli atti dalla difesa in allegato alla memoria del 25-29 ottobre 2010.

[11] L’iscrizione anagrafica non è un provvedimento concessorio, ma è un diritto soggettivo del cittadino e un obbligo per l’ufficiale d’anagrafe (Cass. SS.UU., 19 giugno 2000 n. 449). Il Comune, quale ufficiale del Governo, è tenuto esclusivamente a dare applicazione alle norme regolanti la materia, sicché in capo al cittadino richiedente si configura un vero e proprio diritto soggettivo all’iscrizione (Trib. Milano, 2 giugno 2003 n. 10257).

[12] In precedenza era invece necessario il permesso di soggiorno per motivo di attesa di cittadinanza: art. 11, comma 1 lett. c, DPR 31 agosto 1999 n. 394 (Regolamento di esecuzione del T.U. Immigrazione).

1. La cittadinanza: normativa e procedura

La legge sulla cittadinanza (L. 5 febbraio 1992 n. 91[1]), nell’abrogare la precedente L. 555/1912, ne ha mantenuto il principio-guida dello jus sanguinis (= diritto per discendenza) in ordine al riconoscimento della cittadinanza italiana, lasciando in posizione di residualità il principio dello jus soli (= diritto per nascita sul territorio dello Stato).

 A norma dell’art. 1 della L. 91/92 è quindi riconosciuto cittadino italiano “il figlio di padre o di madre cittadini”. Riconoscimento, questo, che consiste nell’attribuzione non ex novo bensì dalla nascita, in quanto ricognizione del possesso dello status civitatisderivato al soggetto in virtù della discendenza da un cittadino italiano per nascita.

In sede di applicazione pratica della norma, il cittadino straniero discendente da emigrato italiano si vede riconoscere la cittadinanza italiana inevitabilmente secondo un procedimento a ritroso: ove un genitore (padre o madre) siano riconosciuti cittadini italiani, anch’egli godrà del medesimo status. Tuttavia, a seguito del fenomeno di emigrazione che ha colpito soprattutto il nostro meridione nel secolo scorso, precipuamente verso il continente sudamericano, il procedimento di riconoscimento a ritroso della cittadinanza necessariamente si sviluppa sovente in più passaggi generazionali. Ad esempio, nel caso in cui il più prossimo ascendente italiano sia, in ipotesi, un bisnonno, occorrerà riconoscere la cittadinanza jure sanguinis al di lui figlio (nonno dell’interessato), seppur nato in terra straniera (e quindi straniero per nascita). Allo stesso modo, la cittadinanza italiana si trasmetterà al figlio del nonno, ossia al genitore dell’interessato. E così, accertata la cittadinanza italiana del genitore, anche al figlio potrà essere applicato l’art. 1 della Legge.

Sotto il profilo operativo, lo straniero che intenda vedersi riconoscere la cittadinanza italiana deve, quindi, documentare e far certificare la cittadinanza dei propri ascendenti, uno per uno, risalendo nelle generazioni sino all’avo (emigrato) di nascita italiana. Ciò comporta, intuitivamente, la necessità di ricostruzione documentale di tutti i singoli passaggi nell’albero genealogico, non senza difficoltà: dopo aver accertato eventuali variazioni nei nomi, talora mal trascritti, talora deformati dalla lingua del paese di emigrazione (es., nei casi del sudamerica: Cella=Chella, Rossi=Rosi, Chirico=Quirico, Giovanni=Juan)[2], occorre acquisire la documentazione anagrafica di tutti gli ascendenti (per comprovare la continuità genealogica) e, in particolare dell’avo italiano la cui documentazione, però, è rimasta in Italia, presso il comune di nascita. Senonché la ricerca del documento cartaceo di vecchia data (per il quale non ha luogo parlare di informatizzazione) è sovente ostacolata dalla dispersione degli archivi pubblici, vuoi in conseguenza di distruzione bellica degli uffici, vuoi per avvenuta soppressione o accorpamenti di municipalità; e deve così dirigersi verso altre fonti quali, ad esempio, gli archivi di Stato, gli archivi parrocchiali, gli archivi delle caserme dove l’avo ha prestato servizio militare; e così via, progredendo o bloccandosi a seconda della minore o maggiore dispersione dei documenti.

   In tutto questo lavoro di ricerca, alla difficoltà logistica se ne aggiunge un’altra: ove fra gli avi figuri un’ascendente di sesso femminile, varia il cognome del figlio: il cognome dell’avo italiano si perde e l’oriundo assume un cognome per lo più straniero, del paese di nascita del padre. Quanti più sono i passaggi in linea femminile, tanto più i congiungimenti matrimoniali rendono complicato risalire all’avo (o all’antenata) di diretta nascita italiana, poiché il diverso cognome non ne agevola l’identificazione[3].

 Una volta acquisita l’intera documentazione, necessariamente con l’ausilio di un corrispondente in Italia, il cittadino straniero deve curare la traduzione giurata in lingua italiana delle certificazioni formatesi all’estero e sottoporle al vaglio del Comune italiano dove egli risiede o intenda stabilire la propria residenza (art. 23).

L’Ufficiale di stato civile deve quindi acquisire, dal Consolato italiano competente in base al luogo di nascita dell’interessato, la certificazione attestante che né questi, né alcuno dei suoi avi, abbiano mai rinunciato alla cittadinanza italiana.

Operativamente, secondo le direttive della Circ. Min. n. K.28.1 del 8.4.1991, tutto quanto appena detto avviene dietro presentazione di una specifica istanza corredata dei seguenti documenti:

1.   estratto dell’atto di nascita dell’avo italiano emigrato all’estero, rilasciato dal Comune italiano ove egli nacque;

2.   atti di nascita, muniti di traduzione ufficiale italiana, di tutti i discendenti in linea retta, compreso il soggetto rivendicante il possesso della cittadinanza italiana;

3.   atto di matrimonio dell’avo italiano emigrato all’estero, munito di traduzione ufficiale italiana se formato all’estero;

4.   atti di matrimonio dei discendenti, in linea retta, compreso quello dei genitori del soggetto rivendicante il possesso della cittadinanza italiana, anch’essi accompagnati da traduzione ufficiale italiana;

5. certificato rilasciato dalle competenti autorità dello Stato estero di emigrazione, munito di traduzione ufficiale in lingua italiana, attestante che l’avo italiano a suo tempo emigrato dall’Italia non acquistò la cittadinanza dello Stato estero di emigrazione anteriormente alla nascita dell’ascendente dell’interessato: ad esempio, in Argentina questo certificato è il c.d. Poder Judicial, rilasciato dalla Càmara Electoral, attestante che l’avo italiano non si iscrisse mai nelle liste elettorali dello stato estero; anch’esso deve essere tradotto in lingua italiana[4];

6.   certificato rilasciato dalla competente autorità consolare italiana attestante che né gli ascendenti in linea retta, né la persona rivendicante il possesso della cittadinanza italiana vi abbiano mai rinunciato[5];

7.   certificato di residenza.

Inoltre, se in uno dei passaggi lo stato di filiazione è stato dichiarato giudizialmente, occorre produrre anche la sentenza straniera[6], ovviamente anch’essa accompagnata da traduzione giurata.

In sostanza, i requisiti da provare sono: a) la discendenza; b) l’assenza di interruzioni nella trasmissione della cittadinanza; c) la mancata naturalizzazione straniera da parte dell’avo, quantomeno prima della nascita di suo/a figlio/a; d) l’assenza di dichiarazioni di rinuncia alla cittadinanza italiana da parte dei suoi discendenti.

Ma non basta. La Circolare K.28.1 chiarisce che, “allo scopo di poter accertare in modo compiuto il mancato esercizio – da parte dei soggetti reclamanti il possesso della cittadinanza italiana – della facoltà di rinunziarvi… si rende necessario, da un lato, svolgere adeguate indagini presso il Comune italiano d’origine o di ultima residenza dell’avo italiano emigrato all’estero… e, dall’altro lato, contattare direttamente tutte le Rappresentanze consolari italiane competenti per le varie località estere ove gli individui in questione abbiano risieduto”. Ciò significa che, se l’avo italiano si era trasferito (parlando dell’Argentina), ad esempio, da Buenos Aires a Cordoba e poi a Mendoza, il certificato di cui al n. 6 dovrà essere richiesto a ciascun Consolato competente, nella cui giurisdizione ricade ogni singola località di residenza: e ciò non avviene d’ufficio, bensì su interessamento personale.

L’Ufficiale di stato civile, vagliata la documentazione in ordine alle certificazioni e alle indagini presso il comune italiano d’origine dell’avo, riscontrata la regolarità e la fondatezza della domanda, inoltra la richiesta di cittadinanza al Consolato italiano competente in base al luogo di nascita dell’interessato. Il Consolato, verificate le condizioni, emette il certificato di cui al p.to 6.

Compiuta l’istruttoria sulla scorta della documentazione presentata, a norma dell’art. 16 del DPR 12 ottobre 1993 n. 572 (Regolamento di esecuzione della L. 91/92) il Sindaco del comune di residenza (ovvero il Consolato italiano se la residenza è all’estero) emette la certificazione di cittadinanza e la trasmette all’Ufficiale di stato civile (comma 5) il quale, predisposta la trascrizione degli atti di stato civile, dà comunicazione della cittadinanza, oltre che all’interessato, anche alla Questura e al Ministero dell’Interno, Divisione Cittadinanza.

A questo punto, il cittadino – ormai definitivamente italiano – se ritiene può richiedere il rilascio del passaporto.

2. La residenza: normativa e rapporti con la cittadinanza

Comunemente si fa risalire il concetto di residenza all‘art. 43 del Codice civile, come luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Tuttavia, su questa norma prevale la legge anagrafica (L. 24 dicembre 1954 n. 1228), sia per il principio di successione nel tempo, sia per il principio secondo cui “lex specialis derogat legi generali“.

L‘art. 1 della Legge 1228/54, prevede espressamente che "Nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze, che hanno fissato nel comune la residenza, nonché le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio, in conformità del regolamento per l’esecuzione della presente legge".

L’art. 2 della medesima legge statuisce che "la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune ove ha il domicilio, e in mancanza di questo nel comune di nascita" [7].

Occorre prestare attenzione a questo particolare istituto della residenza “senza fissa dimora“ per le sue implicazioni con la cittadinanza degli oriundi italiani.

La residenza "senza fissa dimora" non è una residenza falsa: ad essa non corrisponde un‘infedele rappresentazione della situazione giuridica in cui versa il residente, bensì la semplice attestazione di una domiciliazione che, se non registrata, non sarebbe valida ai fini anagrafici e priverebbe il soggetto della possibilità di godere di tutela e di assistenza sul territorio nazionale, facendolo considerare di fatto "irreperibile".

E’ ben vero che tale istituto giuridico può apparire, di primo acchito, linguisticamente contraddittorio, laddove contrappone un concetto di "residenza" squisitamente amministrativo all’analogo concetto civilistico previsto dall’art. 43 del codice civile. Ma appunto perché il legislatore ha inteso distinguere le due fattispecie, la norma ricorre ad una fictio juris: la persona si considera residente, pur senza esserlo fisicamente; anche il Ministro dell‘Interno, nel rispondere ad una interrogazione parlamentare che vedremo, ha parlato di “una conseguenza delle disposizioni normative in materia anagrafica“.

La ratio dell’istituto meriterebbe ben più profondo studio e, per brevità, rinviamo ad altri Autori[8], limitandoci in questa sede a rimarcare l’impossibilità, per chiunque si trovi sul territorio nazionale e sia privo di residenza, di accedere ai più comuni servizi sociali perché considerato ufficialmente "irreperibile". Per questa ragione nel 2002 il Comune di Roma ha persino istituito una via fittizia (denominata "via Modesta Valenti") sotto la quale registrare le residenze senza fissa dimora. A questo indirizzo virtuale, ossia non materialmente esistente, il Comune di Roma registra i residenti senza fissa dimora: ai numeri dispari i c.d. “senza tetto“ e i “senza fissa dimora“ che eleggono domicilio ma che in realtà non hanno un vero e proprio recapito nel Comune; e ai numeri pari i già residenti che abbiano perso la disponibilità di un’abitazione.

 Interessante la risalente Circolare n. 19120 del 14.2.1994 del Comune di Roma: “Quanto sopra premesso, gli Uffici Anagrafici circoscrizionali vorranno accogliere le richieste di residenza dei senza fissa dimora nelle seguenti ipotesi:

-       cittadini italiani in possesso dei requisiti necessari...;

-     cittadini stranieri extra comunitari identificati attraverso un valido titolo di viaggio (passaporto) e in grado di esibire anche un valido foglio di soggiorno rilasciato dalle Autorità di Pubblica Sicurezza“.

Da quest‘ultima disposizione sembra ricavarsi la conclusione che l’istituto del “senza fissa dimora“ non sarebbe applicabile soltanto a persone emarginate della società, quali mendicanti, senzatetto, etc.

Così prosegue la Circolare del Comune di Roma: “Per la pratica applicazione di tale direttiva sarà necessario che le persone senza fissa dimora all’atto della richiesta di iscrizione esibiscano una dichiarazione delle Associazioni o degli Enti di Volontariato nella quale viene precisata la disponibilità a fornire il proprio indirizzo come domicilio anagrafico dell’interessato. Tale iscrizione... non necessita di ulteriore verifica da parte dei VV.UU. giacché l’indirizzo fornito non rappresenta la dimora effettiva dell’interessato, ma il suo recapito ai soli fini anagrafici“.

In altre parole, sin dal 1994 il Comune di Roma, cui hanno fatto seguito numerose altre municipalità, ha concesso la residenza a cittadini nati all‘estero ma aventi diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana perché discendenti di cittadini italiani anticamente emigrati. Tuttavia, come precisato dalla disposizione capitolina, proprio perché manca un’effettiva dimora, il cittadino stranieroaspirante alla cittadinanza italiana iure sanguinis chiede e ottiene, per espresso suo diritto sancito dalla riportata legge anagrafica[9], la residenza "senza fissa dimora" e questa residenza, indipendentemente dalla costante presenza fisica in Italia del soggetto (presenza che potrebbe anche venir meno), fungerà da domiciliazione nel successivo iter burocratico finalizzato alla cittadinanza, non avendo altrimenti il Consolato un riferimento legato alla reperibilità del soggetto istante.

 Come illustrato nel § 1, la Legge 91/1992 consente di presentare la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana:

  • al Comune dove l’interessato risiede o intende stabilire la propria residenza;

  • all’Autorità diplomatica o consolare del luogo estero di residenza.

La Legge 91/1992, quindi, consente ma non impone la fissazione di una residenza del cittadino straniero in Italia. Il che equivale a dire che la previsione di una residenza in territorio italiano non è funzionalmente stabilita quale atto amministrativo prodromico al riconoscimento della cittadinanza, ben potendo il cittadino interessato adire il Consolato italiano competente in caso di sua residenza all’estero. Al contrario, la residenza in un Comune italiano è esclusivamente prevista ove l’interessato intenda far seguire l’istruttoria all’ufficio municipale, lasciando al Consolato la sola verifica che nessuno degli ascendenti emigrati abbia mai rinunciato all’originaria cittadinanza italiana; col vantaggio di vedersi riconoscere con meno ritardo il proprio diritto, attesa la maggior rapidità dell’istruttoria effettuata dai comuni rispetto a quella dei consolati. Da ciò discende che l’atto amministrativo di concessione della residenza è unicamente il passaggio solo eventuale di un iter amministrativo ma, in quanto privo di nesso teleologico rispetto al successivo atto amministrativo di riconoscimento della cittadinanza, non si pone come presupposto rispetto a quest’ultimo, rimanendo appunto la cittadinanza soggetta non alla residenza, bensì ai ben diversi presupposti dello jus sanguinis ovvero (nei casi previsti) dello jus soli.

Ciò è tanto più vero ove si consideri che la L. 28.5.2007 n. 68, sulla quale pure torneremo nel prosieguo, nell’abolire il permesso di soggiorno per permanenze in territorio italiano di durata non superiore a tre mesi, sostituendolo con semplice “dichiarazione di presenza”, consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in Italia per detto breve periodo (quindi, “senza fissa dimora”) utilizzando la ricevuta di presentazione della dichiarazione di presenza come “idoneo documento al fine di ottenere l’iscrizione anagrafica tesa al riacquisto della cittadinanza” (in tal senso testualmente la Circolare n. 32 del 13.6.2007 del Min. Interno, Dip. Affari Interni e Territoriali, Dir. Centr. per i Servizi Demografici).

Occorre quindi prendere in esame il problema della residenza, sulla quale, come accennato, è sorto un caso nazionale oggetto di interrogazione parlamentare[10]. In quella sede, l‘interrogante On. Rampelli poneva al Ministro dell‘Interno un quesito, rimarcando che “alcuni siti Internet consigliano agli oriundi italiani di recarsi direttamente a Roma per iscriversi come residenti, senza accertamento, dichiarandosi appunto senza fissa dimora, per poi chiedere di ottenere speditamente i documenti validi e di conseguenza la cittadinanza“. Nella seduta del 5 novembre 2008, il Ministro così contestualizzava la propria risposta: “Dico subito che la situazione particolare che si è creata a Roma, dove il fenomeno è più evidente, è una conseguenza delle disposizioni normative in materia anagrafica. L‘articolo 2 della legge n. 1228 del 1954 dispone, infatti, che ai fini dell‘obbligo di iscrizione anagrafica la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune dove ha il domicilio e, in mancanza di questo, nel comune di nascita. Il regolamento anagrafico - prosegue il Ministro - stabilisce che l‘anagrafe è costituita dalle persone che hanno fissato nel comune la propria residenza e da quelle che, senza fissa dimora, vi hanno stabilito il domicilio“.

Il Comune di Roma si è rivelato sensibile alla problematica fatta sorgere dalla sua iniziativa, consapevole che, pur nella tutela del diritto del cittadino[11], l‘applicazione della legge lasciava spazio a prassi discutibili. Per cui, nel 2008, ha ritenuto di circoscrivere quella possibilità ai cittadini provatamente in stato di disagio (ma chi lo valuta?). Però, ancora nel 2009, lo stesso Comune, con Circolare n. 44181 del 26.3.2009, sempre privilegiando l’iscrizione anagrafica presso private associazioni di volontariato (all’uopo istituendo un modello standard di nulla osta alla domiciliazione), ha ancora ammesso la possibilità che l’interessato, “pur avendo genericamente eletto il proprio domicilio nel territorio municipale, non abbia dichiarato alcun indirizzo specifico presso associazioni“, prevedendo, in tal caso, l’iscrizione d’ufficio all’indirizzo virtuale di Via Modesta Valenti.

Sino a qualche anno fa, non esisteva peraltro un vero e proprio registro per siffatte posizioni anagrafiche ed il vuoto normativo era colmato dalla prassi seguita dai comuni. Finché è intervenuta la L. 15 luglio 2009 n. 94 istituendo un apposito registro nazionale delle persone prive di fissa dimora attraverso il sistema INA (Indice Nazionale delle Anagrafi) già istituito nel 2000 col D.L. 27 dicembre 2000 n. 392. Il registro nazionale delle persone s.f.d. è tenuto dal Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero, Dir. Centrale per i servizi demografici, e le modalità di funzionamento sono dettate dal D.M. 6 luglio 2010: vale a dire che solo nell’anno del processo si è completata la normativa organica dell’istituto in questione.

Si direbbe quindi infondata la tesi secondo cui la residenza vada accompagnata da un obbligo di effettiva permanenza sul territorio comunale, come dimostra anche la sua incompatibilità con la L. 28 maggio 2007 n. 68, significativamente intitolata “Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio“. L’art. 1 della legge prevede che per soggiorni di durata inferiore a tre mesi non è richiesto il permesso di soggiorno, essendo sufficiente una dichiarazione di presenza che i cittadini extracomunitari presentano all’autorità di frontiera all’atto dell’ingresso[12]. La Circolare 13 giugno 2007 n. 32 del Ministero dell’Interno è chiara: “La ricevuta di tale dichiarazione... si ritiene che possa costituire titolo utile ai fini dell’iscrizione anagrafica di coloro che intendono avviare in Italia la procedura per il riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis... La dichiarazione, infatti, è l’adempimento che consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in Italia per un periodo di tre mesi o per il minor periodoeventualmente stabilito nel visto d’ingresso“. Il D.M. 26 luglio 2007 è ancora più chiaro, stabilendo che, ai fini dell’iscrizione anagrafica dei soggetti provenienti da Paesi che non applicano l’accordo di Schengen e che intendono richiedere il riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis, è sufficiente l’esibizione del timbro “Schengen“ sul documento di viaggio. In ultimo, la Circolare 28 settembre 2007 n. 52 del Ministero diffonde agli uffici periferici le istruzioni di cui al Decreto Ministeriale.

Prevedendo la possibilità di soggiorni in Italia di durata anche minima, la novella legislativa è la prova di come il legislatore abbia definitivamente disatteso il principio secondo cui debba permanere una connotazione di abitualità e stabilità della dimora nell’obbligo di residenza ai fini dell’avvio della pratica amministrativa di riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis.

3. L’A.I.R.E. – Anagrafe Italiana dei Residenti all‘Estero

L’A.I.R.E. (disciplinata dalla L. 27 ottobre 1988 n. 470 e dal regolamento di esecuzione approvato con DPR 6 settembre 1989 n. 323) è l’Anagrafe della popolazione italiana all’estero. E’ parte integrante dell’anagrafe italiana e contiene i dati di tutti i cittadini che risiedono all’estero per un periodo superiore a 12 mesi.

Ovunque siano nati, i cittadini italiani sono tenuti a iscriversi all’AIRE, affinché siano consentiti: a) l’esercizio dei diritti politici; b) la programmazione degli interventi statali a favore delle comunità di italiani residenti all’estero; c) l’erogazione dei servizi amministrativi e gli interventi di assistenza previsti per i cittadini italiani residenti all’estero.

   I cittadini italiani che si trasferiscono all’estero ottengono l’iscrizione all’AIRE attraverso la compilazione di un apposito modello (CONS.01), in due diversi modi:

  • recandosi, entro 90 giorni dalla data di emigrazione, al Consolato italiano all’estero competente per territorio, che provvederà a inviare il modello CONS.01 al Comune di emigrazione, ove l’Ufficiale d’anagrafe procederà all’iscrizione all’AIRE;

  • in alternativa, il cittadino può rendere la dichiarazione di emigrazione già all’ufficio Anagrafe del Comune di residenza, almeno 20 giorni prima della partenza, fornendo l’indirizzo dello Stato estero di emigrazione. Il Comune inoltrerà la comunicazione al Consolato e al Ministero dell’Interno. Anche in questo caso l’interessato dovrà però poi recarsi al Consolato per denunciare il suo arrivo sul territorio dello Stato estero. Il Consolato invierà al Comune la conferma dell’avvenuto trasferimento e l’Ufficiale d’anagrafe provvederà così alla cancellazione del cittadino dall’anagrafe della popolazione residente.

Ad iscrizione avvenuta, il Consolato diviene il referente del cittadino italiano per tutte le formalità di carattere anagrafico, elettorale, etc.

[1]  Si aggiungono i regolamenti di esecuzione approvati con DPR 12 ottobre 1993 n. 572 e con DPR 18 aprile 1994 n. 362. Tralasciamo ovviamente normative specifiche, quali la L. 14 dicembre 2000 n. 379 sul riconoscimento della cittadinanza alle persone nate nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico, la L. 8 marzo 2006 n. 124 sul riconoscimento della cittadinanza ai discendenti di connazionali dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia; nonché la L. 27 maggio 1929 di ratifica del Trattato dell’11 febbraio 1929 tra l’Italia e la Santa Sede in ordine alla cittadinanza dei residenti nello Stato del Vaticano.

[2] Su questo problema, v. Circ. Min. Interno n. K.8/2/99 del 24.11.1999.

[3] Tralasciamo qui tutta la problematica legata alla situazione della donna coniugata con straniero prima del 1 gennaio 1948, risolta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 87 del 16 aprile 1975, dall’introduzione nel codice civile dell’art. 143 ter, dall’art. 215 della L. 151/75 (Riforma del diritto di famiglia) e, in sede amministrativa, dalla Circolare del Ministero dell’Interno n. K.60.1/5 del 8 gennaio 2001. Viene anche omessa la storica problematica, ormai superata, legata al mancato riconoscimento del diritto della madre italiana di trasmettere la cittadinanza al figlio: principio dichiarato incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 30 del 9 febbraio 1983; incostituzionalità che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 12091 del 26 giugno 1998, stabilirono avere efficacia retroattiva sino al 1 gennaio 1948, data di entrata in vigore della carta costituzionale.

[4] E’ opportuno aggiungere che in Argentina, così come in altri paesi sudamericani, l’acquisto della cittadinanza non comporta l’automatica obbligatorietà della rinuncia all’originaria cittadinanza dello straniero. Per questo motivo, nessun italiano naturalizzato argentino si è visto costretto a rinunciare all’originaria cittadinanza italiana. Per dimostrare la non adozione della cittadinanza argentina, quindi, è sufficiente presentare il certificato del Poder Judicial, ossia l’attestazione di non acquisto volontario della cittadinanza rilasciata dalla Camera Elettorale argentina. La donna italiana sposata con cittadino argentino non acquista la cittadinanza del coniuge, in quanto la legge argentina non prevede questa ipotesi.

[5] Questo certificato non è sostituibile da atto notorio o da autocertificazione, per l’impossibilità di verifica da parte dell’autorità italiana: v. Min. Interno, Dip. per le Libertà Civili e l’Immigrazione, Dir. Centr. per i Diritti Civili, prot. n. K.7.29058 del 8 agosto 2003.

[6] Tralasciamo l’esame del caso del figlio adottato, al quale – prima della L. 5 giugno 1967 n. 431 che lo equiparò al figlio legittimo – era negata la cittadinanza. Sul tema, vedasi anche la L. 31 dicembre 1998 n. 476 che ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993.

[7] Nulla aggiunge il regolamento di esecuzione, approvato con DPR 30 maggio 1989 n. 223.

[8] MINARDI Romano, Senza fissa dimora, in “I Servizi Demografici” n. 4/2005, Ed. Maggioli; MOROZZO DELLA ROCCA Paolo, Le nuove regole sull’iscrizione anagrafica dei senza fissa dimora, in “Lo Stato Civile”, novembre 2009, pag. 834 (entrambi prodotti agli atti dalle difese di entrambe le imputate).

[9] Diritto ulteriormente riconosciutogli dall’art. 6 del D.Lgs. 286/98, T.U. Immigrazione.

[10] Interrogazione n. 3-00214, seduta n. 79 del 5 novembre 2008 della Camera dei Deputati, prodotta agli atti dalla difesa in allegato alla memoria del 25-29 ottobre 2010.

[11] L’iscrizione anagrafica non è un provvedimento concessorio, ma è un diritto soggettivo del cittadino e un obbligo per l’ufficiale d’anagrafe (Cass. SS.UU., 19 giugno 2000 n. 449). Il Comune, quale ufficiale del Governo, è tenuto esclusivamente a dare applicazione alle norme regolanti la materia, sicché in capo al cittadino richiedente si configura un vero e proprio diritto soggettivo all’iscrizione (Trib. Milano, 2 giugno 2003 n. 10257).

[12] In precedenza era invece necessario il permesso di soggiorno per motivo di attesa di cittadinanza: art. 11, comma 1 lett. c, DPR 31 agosto 1999 n. 394 (Regolamento di esecuzione del T.U. Immigrazione).