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SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali

[Estratto dal libro "SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali" scaricabile gratuitamente dal sito di Filodiritto Editore]

Parte I

4) La violazione dei doveri di controllo sulla SCIA quale abuso d’ufficio

Al fine di delimitare il sindacato dell’autorità giudiziaria penale sulle condotte abusive degli operatori pubblici (pubblici ufficiali o incaricati di servizio pubblico), la legge n. 234 del 1997, voluta con decisione dalla maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento, in quel momento scosse dalle indagini sui fenomeni di degenerazione del tessuto politico-amministrativo del Paese, che negli anni precedenti si erano sviluppate su tutto il territorio nazionale, talora trasbordando in un non consentito controllo sul merito dell’azione amministrativa, ha riscritto la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale[1], trasformandola da reato di pura condotta e a dolo specifico in reato di evento e a dolo intenzionale, utilizzando i seguenti termini: «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. - La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità»[2].

Dall’attenta lettura del testo, si desume chiaramente che la norma mira, in primo luogo, a tutelare i valori fondamentali, espressi dall’art. 97 Costituzione, del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione[3], che ha l’obbligo di agire effettuando sempre, secondo le modalità legali di esercizio del potere, una valutazione oggettiva degli interessi contrapposti, così da evitare discriminazioni o favoritismi[4].

L’art. 323 codice penale, difatti, da un lato, prevede, come elemento oggettivo del reato, l’esercizio dell’ufficio o del servizio pubblico in contrasto con norme di legge o di regolamento o con l’obbligo giuridico di astensione, che costituisce violazione della regola costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa; e dall’altro lato, contempla, come evento del reato, l’intenzionale produzione di un danno o di un vantaggio patrimoniale ingiusto, che comporta la lesione del principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa[5].

Secondo Pagliaro, soggetto passivo del reato in esame sarebbe esclusivamente il titolare dell’interesse tutelato dalla norma come oggetto giuridico del reato, ossia la Pubblica Amministrazione, con esclusione di colui che subisca un danno dal reato, che diverrebbe eventualmente danneggiato civile, in quanto «la tutela della imparzialità è una tutela della Pubblica Amministrazione», e solo indirettamente del privato[6]. E in questo senso era intervenuta pure la Cassazione, nei primi tempi dell’entrata in vigore della riforma del 1997, quando aveva sostenuto che nel reato in esame «la parte offesa è solo la Pubblica Amministrazione, in quanto titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, rappresentato dal buon andamento, dall’imparzialità e dalla trasparenza dell’azione dei pubblici ufficiali», con l’effetto che il privato che avesse «eventualmente subito un danno ingiusto» era «semplicemente soggetto danneggiato, legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale, ma destinato a rimanere assente nella fase delle indagini preliminari», e quindi non «legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione» presentata dal Pubblico ministero nei confronti di soggetto indagato per il reato suddetto[7].

Ben presto, però, si è affermato, sia in dottrina che in giurisprudenza, un diverso e più corretto orientamento, che ha portato a ritenere che il reato in questione ha un contenuto plurioffensivo, quando la condotta illecita è di tipo prevaricatrice, ossia produttiva di un ingiusto danno, perché in tal caso, oltre a ledere i principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, esso offende, pure, l’interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti[8], così che quest’ultimo deve essere considerato soggetto passivo del reato, abilitato a presentare opposizione all’eventuale richiesta di archiviazione avanzata dall’organo requirente[9].

Quanto all’elemento oggettivo del reato, si rileva che, nella formulazione introdotta nel 1997, l’abuso di ufficio è un reato proprio a condotta tipicizzata e causalmente orientata a produrre l’evento ingiusto, perché l’elemento materiale del reato consiste nella violazione delle modalità tipiche di svolgimento delle funzioni o del servizio fissate dall’ordinamento giuridico con norme di legge o di regolamento, che è di per sé idonea a provocare un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto ad altri[10].

Tali aspetti di novità, rispetto alla precedente disciplina, sono stati colti dalla Corte Suprema, che ha evidenziato, sin dalle prime pronunce, che i compilatori della legge del 1997 «hanno cercato di perseguire l’obiettivo di limitare il controllo penale sull’operato dei pubblici amministratori, anzitutto descrivendo le modalità tipiche attraverso le quali la condotta incriminatrice deve produrre l’evento di danno o di vantaggio» ingiusto, ossia la violazione di legge o di regolamento, ovvero l’inosservanza di un obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto; «e poi modificando la struttura oggettiva del reato, che hanno trasformato da delitto a consumazione anticipata e a dolo specifico in delitto di evento»[11].

Nello stesso senso, si è, pure, messo in rilievo che «la nuova norma di cui all’art. 323 c.p., da un lato, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico agente e, dall’altro, ha trasformato il delitto de quo da reato di mera azione in reato di azione e di evento. Infatti, sotto il primo profilo, il legislatore ha sostituito la generica formula abusa del suo ufficio con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata: la violazione di norme di legge o regolamento, oppure la violazione del dovere di astensione. Sotto il secondo profilo, elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l’abuso, ma altresì l’ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l’ingiusto danno che essa arreca»[12].

La condotta tipica si articola, pertanto, nei seguenti modi:

a) o come esercizio delle funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di regolamento, ipotesi che si riferisce ad ogni situazione «in cui il funzionario eserciti i suoi poteri violando disposizioni contenute in una legge o in un regolamento»[13];

b) o come omessa astensione dall’esercizio delle funzioni e del servizio: o in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (ex art. 307 ult. comma codice penale); o negli altri casi prescritti, si intende dalla legge o dal regolamento come risulta dall’interpretazione sistematica dello stesso I comma, che ha delimitato la violazione delle funzioni o del servizio sanzionabili in riferimento a situazioni di fatto definite solo da tali fonti normative[14].

Così strutturata, la fattispecie contemplata dall’art. 323 codice penale è un reato commissivo (o di azione) a forma vincolata, perché la norma indica le modalità con le quali l’azione deve estrinsecarsi, e consistenti in un uso non legittimo del potere pubblico causalmente idoneo a produrre l’evento ingiusto, con l’effetto di delimitare l’intervento dell’autorità giudiziaria penale nei confronti della pubblica amministrazione, della quale si è voluto preservare l’ambito di discrezionalità della propria azione.

Pertanto, sia che l’azione amministrativa si estrinsechi in un atto sia che si manifesti in un fatto, in ogni caso è l’illegittimità dell’atto o del fatto a integrare l’elemento costitutivo della fattispecie, che consiste nella strumentalizzazione oggettiva dell’ufficio, inteso come il complesso delle facoltà e dei poteri di compiere un atto o un’azione giuridica tesi a soddisfare un interesse pubblico.

Può, allora, dirsi che l’abuso è ontologicamente l’illegittimità dell’uso del potere di azione giuridica causalmente orientato alla realizzazione dell’evento illecito[15], ossia è lo «sviamento del potere dal perseguimento dei fini pubblici, per i quali è assegnato, verso le finalità private tipizzate nell’art. 323»[16].

In questa direzione si è mossa la Corte di Cassazione, che ha sottolineato come la legge n. 234 del 1997, al fine di superare i limiti della descrizione della fattispecie delineata nella legge n. 86 del 1990, «nella quale l’elemento costitutivo consisteva nell’avere il soggetto abusato dell’ufficio, condotta la cui concreta individuazione restava affidata alla previa ricostruzione, non semplice e forzatamente priva di adeguata certezza, delle linee caratterizzanti l’uso (corretto e fedele) dell’ufficio, quale parametro di valutazione della sospetta parzialità», ha configurato «il parametro di apprezzamento del carattere abusivo della condotta, individuandolo in modo tipizzato nella inosservanza di precetti contenuti in due categorie specifiche di atti produttivi di regole», ossia la legge e il regolamento, che sono categorie «chiaramente richiamate per il loro carattere di maggior valore formale e di maggiore certezza rispetto alla molteplicità delle altre possibili categorie».

Di conseguenza, l’elemento costitutivo del reato può consistere esclusivamente «nella violazione di norme emanate con atti che abbiano i caratteri formali e il regime giuridico» o della legge o del regolamento[17], il cui richiamo, effettuato dall’art. 323 codice penale per specificare quali siano le regole di gestione degli interessi pubblici che il pubblico amministratore deve rispettare, non si pone in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale, stabilito dall’art. 25 Costituzione, perché tale riserva, secondo la migliore dottrina[18], deve essere intesa come solo tendenzialmente assoluta, in modo da ammettere, per la definizione della fattispecie penale, il rinvio a norme regolamentari «abilitate a introdurre mere “specificazioni tecniche” di uno o più elementi già enucleati dalla norma primaria e sulla base di un criterio tecnico dalla stessa indicato»[19], come per l’appunto avviene nell’ambito dell’organizzazione dei pubblici uffici, dove, ai sensi dell’art. 97, II comma, Costituzione, si riconosce alla Pubblica Amministrazione una potestà regolamentare da esercitare nei limiti stabiliti dalle disposizioni adottate dal legislatore «in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità» dell’azione amministrativa.

5) Continua: l’abuso per violazione di legge o di regolamento

È bene precisare che l’inciso “violazione di norme di legge o di regolamento” esprime un concetto più ampio di quello contenuto nell’espressione “violazione di legge” utilizzata dagli artt. 26 regio decreto n. 1054 del 1924 (testo unico C. di S.) e 2 legge n. 1034 del 1971 (legge T.A.R.) per individuare i vizi di validità dell’atto amministrativo, in quanto indica quale sia la fonte del diritto contenente la norma che non deve essere violata dal comportamento del soggetto attivo del reato.

In altri termini, l’espressione definisce il parametro normativo di valutazione dell’abusività della condotta del soggetto attivo del reato, facendo riferimento alle fonti del diritto di produzione delle norme, ossia la legge o il regolamento[20], che disciplinano in modo cogente l’esercizio delle funzioni e dei servizi pubblici da parte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio[21].

Si deve, però, evidenziare, come ribadito anche di recente dalla Corte di Cassazione per chiudere una questione a lungo dibattuta, che «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 codice penale ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione»[22], in quanto anche tale vizio dell’atto amministrativo si sostanzia in una violazione delle norme di legge che lo contemplano.

Si rileva, infatti, che, al di là del chiaro orientamento espresso dalle forze politiche che approvarono la legge n. 234 di espungere dal reato in esame il vizio di eccesso di potere, erroneamente ritenuto come idoneo a determinare un sindacato sul merito dell’azione amministrativa da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, il I comma del nuovo art. 323 codice penale richiede, come condotta materiale, l’aver svolto le funzioni o i servizi pubblici «in violazione di norme di legge o di regolamento», tra le quali non si possono non ricomprendere, pure, l’art. 26 testo unico 26 giugno 1924 n. 1054, l’art. 6 testo unico 3 marzo 1934 n. 383 e l’art. 3 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, che qualificano l’eccesso di potere come uno dei tipici vizi di legittimità dell’atto amministrativo[23].

Dopo questa puntualizzazione, appare opportuno evidenziare che il parametro normativo per la valutazione della regolarità o meno della condotta del pubblico amministratore costituisce un presupposto di fatto per l’integrazione del delitto in discussione, nel senso che il contenuto proprio della regola violata viene, non cristallizzato una volta e per sempre con rinvio recettizio, ma richiamato dall’art. 323 codice penale in modo non recettizio, per determinare la legittimità o meno del comportamento dell’agente pubblico al momento della realizzazione del reato, che si consuma con il verificarsi dell’evento ingiusto, come meglio si vedrà infra.

L’individuazione della norma, legislativa o regolamentare, disciplinante l’attività pubblica svolta deve, perciò, essere effettuata dall’interprete in riferimento al momento di commissione del reato di cui all’art. 323 codice penale, applicando la disciplina in vigore al momento dell’esercizio da parte dell’agente della funzione pubblica o del servizio pubblico oggetto di contestazione, che ha prodotto l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o l’ingiusto danno ad altri.

Logico corollario di questa asserzione è la conseguenza che, nel caso di una modificazione successiva alla commissione del reato della regola di diritto pubblico richiamata dall’art. 323 codice penale per parametrare la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio causativa dell’evento ingiusto, non si applicano i principi sulla successione di leggi penali enunciati dall’art. 2 codice penale, perché «la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo immutato il presupposto della violazione di legge)», ma introduce una nuova disciplina dell’attività pubblica considerata, così da incidere «sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice, nel senso che la sussistenza del requisito della violazione di legge va verificata alla luce della nuova regola»[24].

Con specifico riguardo alla materia del governo e dell’assetto del territorio, si è, così, affermato in giurisprudenza che, nel caso in cui l’abuso di ufficio sia stato contestato al componente di Commissione edilizia comunale, che aveva espresso parere favorevole al cambio di destinazione di un immobile realizzato in mancanza della concessione edilizia, è irrilevante il fatto che il fabbricato avesse successivamente ottenuto la concessione edilizia in sanatoria, in quanto «l’ingiustizia del vantaggio deve essere valutata con riferimento alla situazione esistente all’epoca della condotta, conformemente alla ratio della norma che è diretta ad assicurare la retta applicazione della legge al momento delle scelte discrezionali del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»[25].

Nella giurisprudenza di legittimità si è, pure, affermato l’orientamento, condiviso da autorevole dottrina[26], di ritenere che, essendo il reato di cui all’art. 323 codice penale causalmente orientato alla produzione di un evento di danno o di vantaggio patrimoniale ingiusto, occorre che la norma violata non si limiti a dettare norme di principio o genericamente strumentali alla regolarità dell’attività amministrativa[27], ma vieti con precisione il comportamento sostanziale dell’agente pubblico, nel senso di essere dotata di uno specifico contenuto prescrittivo, la cui violazione determina la lesione di posizioni soggettive sostanziali mediante la produzione di un evento ingiusto[28], dovendo sempre sussistere «un nesso di derivazione causale o concausale tra la violazione di legge o di regolamento, posta in essere dall’agente, e l’evento»[29].

Per evitare fuorvianti distorsioni interpretative, tese a conculcare l’effettiva portata delle norme di rango costituzionale in un ordinamento, come quello italiano, oltretutto a costituzione rigida, si deve precisare che, tra le disposizioni di legge elevabili a parametro di valutazione dell’abusività della condotta dei pubblici amministratori, «vi è certamente la Costituzione, che all’art. 97 impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione»[30].

In proposito giova ricordare che, anche di recente, la Cassazione ha ribadito il proprio orientamento, “oramai maggioritario”[31], secondo cui il requisito della violazione di legge indicato dall’art. 323 codice penale «ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione».

Secondo l’attenta ricostruzione operata dalla Corte di legittimità, l’art. 97 Costituzione, pur dettando principi di natura programmatica, comunque presenta «un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa», che lo rende «un parametro di riferimento per il reato» in questione.

L’imparzialità richiamata nell’art. 97 Costituzione si sostanzia, difatti, nel divieto di operare favoritismi, ossia nel dovere per la Pubblica Amministrazione di trattare nella stessa maniera tutti i soggetti portatori di interessi tutelati, «conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive».

In questo senso la Cassazione, con estrema sagacia, ha messo in luce l’aspetto bifasico della regola dell’imparzialità enunciata dall’art. 97 Costituzione, osservando che, se da un lato il principio ha “certamente una portata programmatica”, nella parte in cui si riferisce all’organizzazione della Pubblica Amministrazione, così da non poter essere rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 codice penale, in quanto «deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione»; dall’altro lato, lo stesso principio, «riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che configgono con l’interesse generale della collettività», ha quei caratteri e quei contenuti precettivi previsti dall’art. 323 codice penale, «in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione»[32].

Altre norme sull’esercizio delle attività amministrative di portata generale, ma con preciso contenuto prescrittivo, che possono pacificamente farsi rientrare tra i parametri normativi richiesti dall’art. 323 codice penale per la sussistenza del reato di abuso di ufficio sono:

- l’art. 13 testo unico n. 3 del 1957, che impone agli impiegati civili dello Stato di curare «con diligenza e nel miglior modo l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene»[33];

- l’art. 8 legge n. 70 del 1975, che sottopone i dipendenti degli enti locali all’obbligo «di prestare la propria opera con diligenza e zelo»;

- l’art. 78 decreto legislativo n. 267 del 2000, contenente il testo unico degli enti locali, che disciplina i doveri e la condizione giuridica degli amministratori locali stabilendo, tra l’altro: «Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni. - Gli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado. - I componenti la giunta comunale competenti in materia urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato. - (...) Al sindaco e al presidente della provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti a controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province»[34].

Quanto, poi, alle norme di legge o di regolamento che disciplinano il procedimento per la formazione e l’esternazione della volontà della pubblica amministrazione, anche dal punto di vista del rispetto della competenza e delle serie procedimentali di atti preparatori, consultivi, costitutivi ed integrativi dell’efficacia dell’atto, e delle operazioni tecniche strumentali alla manifestazione della volontà amministrativa, si può fondatamente ritenere che, essendo la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale casualmente orientata, la loro violazione può integrare il reato in discussione solo quando è causalmente idonea a produrre l’evento ingiusto, come precisato dalla Cassazione[35].

Con specifico riguardo al tema d’indagine, si osserva che decisamente consolidato è l’orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell’art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, a partire dall’entrata in vigore dell’art. 107, comma 3 lettera g., del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti (a partire dall’art. 51 legge n. 142 del 1990), stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l’attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti[36].

Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza «sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed avendo l’obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso l’emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari»[37].

Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l’entrata in vigore della legge n. 234 del 1997, si è affermato,che nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile, «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l’inosservanza di tale procedimento concreta (…) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al beneficiario»[38].

Integra, perciò, il reato di abuso di ufficio il rilascio da parte dell’amministratore pubblico di un permesso abilitativo (prima licenza di costruire, poi concessione edilizia, infine permesso di costruire) in violazione delle prescrizioni del piano regolatore, in quanto tale condotta si pone in contrasto con la disciplina normativa primaria di settore, che impone l’obbligo di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici, e si configura come violazione di legge, «rilevante ai fini e per gli effetti dell’art. 323 c.p.»[39].

Ha, difatti, osservato la Cassazione che l’art. 323 codice penale, volendo punire solo la condotta dell’amministratore pubblico che sia caratterizzata dall’inosservanza sostanziale di norme introdotte da leggi o da regolamenti («non essendo sufficiente quella formale o procedimentale»), e che sia idonea a produrre un danno ingiusto o ingiusto vantaggio patrimoniale, tipicizza la fattispecie di reato, in parte «con elementi naturalistici determinati da espressioni e modi di uso comune»; ed in parte, «con rinvio alla valutazione posta da norme di legge o di regolamento che fungono da mediazione per la delimitazione materiale e di fatto, eliminando ogni incertezza della fattispecie», norme che devono essere violate.

Nel caso delle attività edilizie ed urbanistiche, «la mediazione conoscitiva e tipizzante, effetto del rinvio operato con i termini “violazione di legge”, a partire dall’attività abilitatoria svolta dall’amministratore pubblico, è certa per il contenuto e incidente esaustivamente sulla connotazione materiale della condotta vietata (…)».

«(…) Di conseguenza, consumandosi la mediazione dell’elemento normativo, fissato dall

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Parte I

4) La violazione dei doveri di controllo sulla SCIA quale abuso d’ufficio

Al fine di delimitare il sindacato dell’autorità giudiziaria penale sulle condotte abusive degli operatori pubblici (pubblici ufficiali o incaricati di servizio pubblico), la legge n. 234 del 1997, voluta con decisione dalla maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento, in quel momento scosse dalle indagini sui fenomeni di degenerazione del tessuto politico-amministrativo del Paese, che negli anni precedenti si erano sviluppate su tutto il territorio nazionale, talora trasbordando in un non consentito controllo sul merito dell’azione amministrativa, ha riscritto la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale[1], trasformandola da reato di pura condotta e a dolo specifico in reato di evento e a dolo intenzionale, utilizzando i seguenti termini: «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. - La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità»[2].

Dall’attenta lettura del testo, si desume chiaramente che la norma mira, in primo luogo, a tutelare i valori fondamentali, espressi dall’art. 97 Costituzione, del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione[3], che ha l’obbligo di agire effettuando sempre, secondo le modalità legali di esercizio del potere, una valutazione oggettiva degli interessi contrapposti, così da evitare discriminazioni o favoritismi[4].

L’art. 323 codice penale, difatti, da un lato, prevede, come elemento oggettivo del reato, l’esercizio dell’ufficio o del servizio pubblico in contrasto con norme di legge o di regolamento o con l’obbligo giuridico di astensione, che costituisce violazione della regola costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa; e dall’altro lato, contempla, come evento del reato, l’intenzionale produzione di un danno o di un vantaggio patrimoniale ingiusto, che comporta la lesione del principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa[5].

Secondo Pagliaro, soggetto passivo del reato in esame sarebbe esclusivamente il titolare dell’interesse tutelato dalla norma come oggetto giuridico del reato, ossia la Pubblica Amministrazione, con esclusione di colui che subisca un danno dal reato, che diverrebbe eventualmente danneggiato civile, in quanto «la tutela della imparzialità è una tutela della Pubblica Amministrazione», e solo indirettamente del privato[6]. E in questo senso era intervenuta pure la Cassazione, nei primi tempi dell’entrata in vigore della riforma del 1997, quando aveva sostenuto che nel reato in esame «la parte offesa è solo la Pubblica Amministrazione, in quanto titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, rappresentato dal buon andamento, dall’imparzialità e dalla trasparenza dell’azione dei pubblici ufficiali», con l’effetto che il privato che avesse «eventualmente subito un danno ingiusto» era «semplicemente soggetto danneggiato, legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale, ma destinato a rimanere assente nella fase delle indagini preliminari», e quindi non «legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione» presentata dal Pubblico ministero nei confronti di soggetto indagato per il reato suddetto[7].

Ben presto, però, si è affermato, sia in dottrina che in giurisprudenza, un diverso e più corretto orientamento, che ha portato a ritenere che il reato in questione ha un contenuto plurioffensivo, quando la condotta illecita è di tipo prevaricatrice, ossia produttiva di un ingiusto danno, perché in tal caso, oltre a ledere i principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, esso offende, pure, l’interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti[8], così che quest’ultimo deve essere considerato soggetto passivo del reato, abilitato a presentare opposizione all’eventuale richiesta di archiviazione avanzata dall’organo requirente[9].

Quanto all’elemento oggettivo del reato, si rileva che, nella formulazione introdotta nel 1997, l’abuso di ufficio è un reato proprio a condotta tipicizzata e causalmente orientata a produrre l’evento ingiusto, perché l’elemento materiale del reato consiste nella violazione delle modalità tipiche di svolgimento delle funzioni o del servizio fissate dall’ordinamento giuridico con norme di legge o di regolamento, che è di per sé idonea a provocare un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto ad altri[10].

Tali aspetti di novità, rispetto alla precedente disciplina, sono stati colti dalla Corte Suprema, che ha evidenziato, sin dalle prime pronunce, che i compilatori della legge del 1997 «hanno cercato di perseguire l’obiettivo di limitare il controllo penale sull’operato dei pubblici amministratori, anzitutto descrivendo le modalità tipiche attraverso le quali la condotta incriminatrice deve produrre l’evento di danno o di vantaggio» ingiusto, ossia la violazione di legge o di regolamento, ovvero l’inosservanza di un obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto; «e poi modificando la struttura oggettiva del reato, che hanno trasformato da delitto a consumazione anticipata e a dolo specifico in delitto di evento»[11].

Nello stesso senso, si è, pure, messo in rilievo che «la nuova norma di cui all’art. 323 c.p., da un lato, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico agente e, dall’altro, ha trasformato il delitto de quo da reato di mera azione in reato di azione e di evento. Infatti, sotto il primo profilo, il legislatore ha sostituito la generica formula abusa del suo ufficio con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata: la violazione di norme di legge o regolamento, oppure la violazione del dovere di astensione. Sotto il secondo profilo, elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l’abuso, ma altresì l’ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l’ingiusto danno che essa arreca»[12].

La condotta tipica si articola, pertanto, nei seguenti modi:

a) o come esercizio delle funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di regolamento, ipotesi che si riferisce ad ogni situazione «in cui il funzionario eserciti i suoi poteri violando disposizioni contenute in una legge o in un regolamento»[13];

b) o come omessa astensione dall’esercizio delle funzioni e del servizio: o in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (ex art. 307 ult. comma codice penale); o negli altri casi prescritti, si intende dalla legge o dal regolamento come risulta dall’interpretazione sistematica dello stesso I comma, che ha delimitato la violazione delle funzioni o del servizio sanzionabili in riferimento a situazioni di fatto definite solo da tali fonti normative[14].

Così strutturata, la fattispecie contemplata dall’art. 323 codice penale è un reato commissivo (o di azione) a forma vincolata, perché la norma indica le modalità con le quali l’azione deve estrinsecarsi, e consistenti in un uso non legittimo del potere pubblico causalmente idoneo a produrre l’evento ingiusto, con l’effetto di delimitare l’intervento dell’autorità giudiziaria penale nei confronti della pubblica amministrazione, della quale si è voluto preservare l’ambito di discrezionalità della propria azione.

Pertanto, sia che l’azione amministrativa si estrinsechi in un atto sia che si manifesti in un fatto, in ogni caso è l’illegittimità dell’atto o del fatto a integrare l’elemento costitutivo della fattispecie, che consiste nella strumentalizzazione oggettiva dell’ufficio, inteso come il complesso delle facoltà e dei poteri di compiere un atto o un’azione giuridica tesi a soddisfare un interesse pubblico.

Può, allora, dirsi che l’abuso è ontologicamente l’illegittimità dell’uso del potere di azione giuridica causalmente orientato alla realizzazione dell’evento illecito[15], ossia è lo «sviamento del potere dal perseguimento dei fini pubblici, per i quali è assegnato, verso le finalità private tipizzate nell’art. 323»[16].

In questa direzione si è mossa la Corte di Cassazione, che ha sottolineato come la legge n. 234 del 1997, al fine di superare i limiti della descrizione della fattispecie delineata nella legge n. 86 del 1990, «nella quale l’elemento costitutivo consisteva nell’avere il soggetto abusato dell’ufficio, condotta la cui concreta individuazione restava affidata alla previa ricostruzione, non semplice e forzatamente priva di adeguata certezza, delle linee caratterizzanti l’uso (corretto e fedele) dell’ufficio, quale parametro di valutazione della sospetta parzialità», ha configurato «il parametro di apprezzamento del carattere abusivo della condotta, individuandolo in modo tipizzato nella inosservanza di precetti contenuti in due categorie specifiche di atti produttivi di regole», ossia la legge e il regolamento, che sono categorie «chiaramente richiamate per il loro carattere di maggior valore formale e di maggiore certezza rispetto alla molteplicità delle altre possibili categorie».

Di conseguenza, l’elemento costitutivo del reato può consistere esclusivamente «nella violazione di norme emanate con atti che abbiano i caratteri formali e il regime giuridico» o della legge o del regolamento[17], il cui richiamo, effettuato dall’art. 323 codice penale per specificare quali siano le regole di gestione degli interessi pubblici che il pubblico amministratore deve rispettare, non si pone in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale, stabilito dall’art. 25 Costituzione, perché tale riserva, secondo la migliore dottrina[18], deve essere intesa come solo tendenzialmente assoluta, in modo da ammettere, per la definizione della fattispecie penale, il rinvio a norme regolamentari «abilitate a introdurre mere “specificazioni tecniche” di uno o più elementi già enucleati dalla norma primaria e sulla base di un criterio tecnico dalla stessa indicato»[19], come per l’appunto avviene nell’ambito dell’organizzazione dei pubblici uffici, dove, ai sensi dell’art. 97, II comma, Costituzione, si riconosce alla Pubblica Amministrazione una potestà regolamentare da esercitare nei limiti stabiliti dalle disposizioni adottate dal legislatore «in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità» dell’azione amministrativa.

5) Continua: l’abuso per violazione di legge o di regolamento

È bene precisare che l’inciso “violazione di norme di legge o di regolamento” esprime un concetto più ampio di quello contenuto nell’espressione “violazione di legge” utilizzata dagli artt. 26 regio decreto n. 1054 del 1924 (testo unico C. di S.) e 2 legge n. 1034 del 1971 (legge T.A.R.) per individuare i vizi di validità dell’atto amministrativo, in quanto indica quale sia la fonte del diritto contenente la norma che non deve essere violata dal comportamento del soggetto attivo del reato.

In altri termini, l’espressione definisce il parametro normativo di valutazione dell’abusività della condotta del soggetto attivo del reato, facendo riferimento alle fonti del diritto di produzione delle norme, ossia la legge o il regolamento[20], che disciplinano in modo cogente l’esercizio delle funzioni e dei servizi pubblici da parte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio[21].

Si deve, però, evidenziare, come ribadito anche di recente dalla Corte di Cassazione per chiudere una questione a lungo dibattuta, che «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 codice penale ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione»[22], in quanto anche tale vizio dell’atto amministrativo si sostanzia in una violazione delle norme di legge che lo contemplano.

Si rileva, infatti, che, al di là del chiaro orientamento espresso dalle forze politiche che approvarono la legge n. 234 di espungere dal reato in esame il vizio di eccesso di potere, erroneamente ritenuto come idoneo a determinare un sindacato sul merito dell’azione amministrativa da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, il I comma del nuovo art. 323 codice penale richiede, come condotta materiale, l’aver svolto le funzioni o i servizi pubblici «in violazione di norme di legge o di regolamento», tra le quali non si possono non ricomprendere, pure, l’art. 26 testo unico 26 giugno 1924 n. 1054, l’art. 6 testo unico 3 marzo 1934 n. 383 e l’art. 3 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, che qualificano l’eccesso di potere come uno dei tipici vizi di legittimità dell’atto amministrativo[23].

Dopo questa puntualizzazione, appare opportuno evidenziare che il parametro normativo per la valutazione della regolarità o meno della condotta del pubblico amministratore costituisce un presupposto di fatto per l’integrazione del delitto in discussione, nel senso che il contenuto proprio della regola violata viene, non cristallizzato una volta e per sempre con rinvio recettizio, ma richiamato dall’art. 323 codice penale in modo non recettizio, per determinare la legittimità o meno del comportamento dell’agente pubblico al momento della realizzazione del reato, che si consuma con il verificarsi dell’evento ingiusto, come meglio si vedrà infra.

L’individuazione della norma, legislativa o regolamentare, disciplinante l’attività pubblica svolta deve, perciò, essere effettuata dall’interprete in riferimento al momento di commissione del reato di cui all’art. 323 codice penale, applicando la disciplina in vigore al momento dell’esercizio da parte dell’agente della funzione pubblica o del servizio pubblico oggetto di contestazione, che ha prodotto l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o l’ingiusto danno ad altri.

Logico corollario di questa asserzione è la conseguenza che, nel caso di una modificazione successiva alla commissione del reato della regola di diritto pubblico richiamata dall’art. 323 codice penale per parametrare la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio causativa dell’evento ingiusto, non si applicano i principi sulla successione di leggi penali enunciati dall’art. 2 codice penale, perché «la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo immutato il presupposto della violazione di legge)», ma introduce una nuova disciplina dell’attività pubblica considerata, così da incidere «sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice, nel senso che la sussistenza del requisito della violazione di legge va verificata alla luce della nuova regola»[24].

Con specifico riguardo alla materia del governo e dell’assetto del territorio, si è, così, affermato in giurisprudenza che, nel caso in cui l’abuso di ufficio sia stato contestato al componente di Commissione edilizia comunale, che aveva espresso parere favorevole al cambio di destinazione di un immobile realizzato in mancanza della concessione edilizia, è irrilevante il fatto che il fabbricato avesse successivamente ottenuto la concessione edilizia in sanatoria, in quanto «l’ingiustizia del vantaggio deve essere valutata con riferimento alla situazione esistente all’epoca della condotta, conformemente alla ratio della norma che è diretta ad assicurare la retta applicazione della legge al momento delle scelte discrezionali del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»[25].

Nella giurisprudenza di legittimità si è, pure, affermato l’orientamento, condiviso da autorevole dottrina[26], di ritenere che, essendo il reato di cui all’art. 323 codice penale causalmente orientato alla produzione di un evento di danno o di vantaggio patrimoniale ingiusto, occorre che la norma violata non si limiti a dettare norme di principio o genericamente strumentali alla regolarità dell’attività amministrativa[27], ma vieti con precisione il comportamento sostanziale dell’agente pubblico, nel senso di essere dotata di uno specifico contenuto prescrittivo, la cui violazione determina la lesione di posizioni soggettive sostanziali mediante la produzione di un evento ingiusto[28], dovendo sempre sussistere «un nesso di derivazione causale o concausale tra la violazione di legge o di regolamento, posta in essere dall’agente, e l’evento»[29].

Per evitare fuorvianti distorsioni interpretative, tese a conculcare l’effettiva portata delle norme di rango costituzionale in un ordinamento, come quello italiano, oltretutto a costituzione rigida, si deve precisare che, tra le disposizioni di legge elevabili a parametro di valutazione dell’abusività della condotta dei pubblici amministratori, «vi è certamente la Costituzione, che all’art. 97 impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione»[30].

In proposito giova ricordare che, anche di recente, la Cassazione ha ribadito il proprio orientamento, “oramai maggioritario”[31], secondo cui il requisito della violazione di legge indicato dall’art. 323 codice penale «ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione».

Secondo l’attenta ricostruzione operata dalla Corte di legittimità, l’art. 97 Costituzione, pur dettando principi di natura programmatica, comunque presenta «un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa», che lo rende «un parametro di riferimento per il reato» in questione.

L’imparzialità richiamata nell’art. 97 Costituzione si sostanzia, difatti, nel divieto di operare favoritismi, ossia nel dovere per la Pubblica Amministrazione di trattare nella stessa maniera tutti i soggetti portatori di interessi tutelati, «conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive».

In questo senso la Cassazione, con estrema sagacia, ha messo in luce l’aspetto bifasico della regola dell’imparzialità enunciata dall’art. 97 Costituzione, osservando che, se da un lato il principio ha “certamente una portata programmatica”, nella parte in cui si riferisce all’organizzazione della Pubblica Amministrazione, così da non poter essere rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 codice penale, in quanto «deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione»; dall’altro lato, lo stesso principio, «riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che configgono con l’interesse generale della collettività», ha quei caratteri e quei contenuti precettivi previsti dall’art. 323 codice penale, «in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione»[32].

Altre norme sull’esercizio delle attività amministrative di portata generale, ma con preciso contenuto prescrittivo, che possono pacificamente farsi rientrare tra i parametri normativi richiesti dall’art. 323 codice penale per la sussistenza del reato di abuso di ufficio sono:

- l’art. 13 testo unico n. 3 del 1957, che impone agli impiegati civili dello Stato di curare «con diligenza e nel miglior modo l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene»[33];

- l’art. 8 legge n. 70 del 1975, che sottopone i dipendenti degli enti locali all’obbligo «di prestare la propria opera con diligenza e zelo»;

- l’art. 78 decreto legislativo n. 267 del 2000, contenente il testo unico degli enti locali, che disciplina i doveri e la condizione giuridica degli amministratori locali stabilendo, tra l’altro: «Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni. - Gli amministratori di cui all’art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado. - I componenti la giunta comunale competenti in materia urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato. - (...) Al sindaco e al presidente della provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incarichi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti a controllo ed alla vigilanza dei relativi comuni e province»[34].

Quanto, poi, alle norme di legge o di regolamento che disciplinano il procedimento per la formazione e l’esternazione della volontà della pubblica amministrazione, anche dal punto di vista del rispetto della competenza e delle serie procedimentali di atti preparatori, consultivi, costitutivi ed integrativi dell’efficacia dell’atto, e delle operazioni tecniche strumentali alla manifestazione della volontà amministrativa, si può fondatamente ritenere che, essendo la fattispecie di cui all’art. 323 codice penale casualmente orientata, la loro violazione può integrare il reato in discussione solo quando è causalmente idonea a produrre l’evento ingiusto, come precisato dalla Cassazione[35].

Con specifico riguardo al tema d’indagine, si osserva che decisamente consolidato è l’orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell’art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, a partire dall’entrata in vigore dell’art. 107, comma 3 lettera g., del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti (a partire dall’art. 51 legge n. 142 del 1990), stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l’attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti[36].

Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza «sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed avendo l’obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso l’emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari»[37].

Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l’entrata in vigore della legge n. 234 del 1997, si è affermato,che nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile, «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l’inosservanza di tale procedimento concreta (…) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al beneficiario»[38].

Integra, perciò, il reato di abuso di ufficio il rilascio da parte dell’amministratore pubblico di un permesso abilitativo (prima licenza di costruire, poi concessione edilizia, infine permesso di costruire) in violazione delle prescrizioni del piano regolatore, in quanto tale condotta si pone in contrasto con la disciplina normativa primaria di settore, che impone l’obbligo di conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici, e si configura come violazione di legge, «rilevante ai fini e per gli effetti dell’art. 323 c.p.»[39].

Ha, difatti, osservato la Cassazione che l’art. 323 codice penale, volendo punire solo la condotta dell’amministratore pubblico che sia caratterizzata dall’inosservanza sostanziale di norme introdotte da leggi o da regolamenti («non essendo sufficiente quella formale o procedimentale»), e che sia idonea a produrre un danno ingiusto o ingiusto vantaggio patrimoniale, tipicizza la fattispecie di reato, in parte «con elementi naturalistici determinati da espressioni e modi di uso comune»; ed in parte, «con rinvio alla valutazione posta da norme di legge o di regolamento che fungono da mediazione per la delimitazione materiale e di fatto, eliminando ogni incertezza della fattispecie», norme che devono essere violate.

Nel caso delle attività edilizie ed urbanistiche, «la mediazione conoscitiva e tipizzante, effetto del rinvio operato con i termini “violazione di legge”, a partire dall’attività abilitatoria svolta dall’amministratore pubblico, è certa per il contenuto e incidente esaustivamente sulla connotazione materiale della condotta vietata (…)».

«(…) Di conseguenza, consumandosi la mediazione dell’elemento normativo, fissato dall