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Sui limiti alla collaborazione nell'impresa

1. Sul lavoratore gravano doveri di sola collaborazione tecnica ad una corretta gestione aziendale

Nell'odierno assetto di inattuazione dell'art. 46 Cost. - che notoriamente prefigura la soluzione partecipativa dei lavoratori alla gestione delle aziende - l'attuale prestatore di lavoro non è obiettivamente associato ai fini ed alle sorti dell'impresa. Su di lui gravano doveri di collaborazione in senso tecnico (art. 2094 c.c.), di diligenza (art. 2104 c.c.) e di fedeltà nel senso specificato dal contenuto dell'art. 2105 c.c. (ad onta di un'infelice rubrica), sostanziantesi nel divieto di concorrenza e di violazione del segreto professionale. In un campo oramai presidiato, da quasi  mezzo secolo, da norme soppressive della discrezionalità del recesso (subordinato a causali incidenti sul contenuto degli obblighi contrattuali, di obiettivo riscontro) e dai principi dello Statuto dei lavoratori, queste affermazioni sembrerebbero di pacifica condivisibilità.

Così invece non è, poiché sacche di intrinseca arretratezza culturale - o riproposte sub specie mimetica di liberismo economico/gestionale selvaggio - ed istinti di prevaricazione mai dismessi, vengono posti non infrequentemente in luce dalla stessa giurisprudenza (per tacere di quelli che si realizzano in silenzio, senza giungere all'esame giudiziale), che anche non molto tempo addietro si è trovata a stigmatizzare l'illegittimità (rectius, l'indegnità) del licenziamento irrogato a due lavoratori da un tal Rabbiosi (è il reale cognome del datore di lavoro «intollerante») rei di aver azzardato intraprendere e vincere contro di lui un giudizio per ottenere la qualificazione del rapporto di lavoro ed il riconoscimento di pretese retributive. Correttamente la Cassazione[1] ebbe a qualificare «vendetta» il comportamento di ritorsione datoriale al ricorso dei due prestatori agli organi istituzionalmente preposti ad acclarare la correttezza delle azioni, la fondatezza delle pretese ed a dirimere le private contese. E quante imprese meditano, ancor oggi, ritorsioni - fino al licenziamento - nei confronti di coloro che, in costanza di rapporto, si rivolgono alla magistratura per l'accertamento dei propri diritti?

Ciò nonostante che, addirittura nell'oscura epoca corporativa, fosse già acquisto dalla Cassazione il principio per cui «l'essere la società convenuta innanzi al magistrato dal dipendente per chiedere di diritti inerenti al rapporto di cui si reputava leso (e risultati poi infondati) non costituisce legittima causa di licenziamento per l'essersi rivolto all'organo che la legge appresta per la risoluzione delle controversie di lavoro; ed anche se la pretesa sia stata giudicata infondata...non può certo affermarsi che il solo esperimento giudiziale sia di tale gravità e legittima causa d'incompatibilità...da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto»[2].

In un caso non dissimile, ancora la Cassazione[3] ha dovuto nuovamente precisare come «il lavoratore socio di impresa a struttura societaria che aveva presentato una denuncia penale contro il presidente della stessa, si era costituito parte civile nel relativo processo ed aveva proseguito un procedimento civile, promosso da altri soci, contro la stessa società, non aveva commesso illecito disciplinarmente sanzionabile col licenziamento avendo, all'opposto, esercitato un proprio diritto, sia pure con un comportamento contrario agli interessi di fatto del datore di lavoro». E di recente, a conferma dei principi asseriti, la Cassazione[4] ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dirigente che aveva preannunciato all'azienda un'azione giudiziaria, affermando espressamente il principio di diritto secondo cui: «L'azione giudiziaria costituisce un diritto insopprimibile per chiunque e pertanto il suo preannuncio non basta a giustificare un licenziamento; tale comportamento infatti non è idoneo a causare perdita di fiducia, ben potendo il dirigente (e il dipendente in genere) da un lato tenere al riconoscimento dei suoi pretesi diritti e dall'altro conservare e confermare il suo attaccamento al posto di lavoro».

Ed ancor più di recente, in sede di merito[5], si è correttamente stabilito che: «Non viola l'art. 2105 c.c. - in tema di obbligo di fedeltà - il lavoratore che consegni alla guardia di finanza copia della distinta di spedizione della merce “a nero”, con conseguente apertura di procedimento penale e inflizione di sanzioni pecuniarie a carico del proprio datore di lavoro. La denuncia penale, d'altra parte, costituiva l'unica strada del lavoratore per sottrarsi al rischio di un coinvolgimento personale, in veste di coimputato, negli illeciti fiscali, penalmente rilevanti, dei quali non solo era genericamente al corrente, ma per i quali era anche deputato dall'imprenditore a custodire la relativa documentazione “a nero”. D'altronde tutti i soggetti che operano nell'impresa - che non costituisce un universo a se stante nel quale operano regole diverse e difformi da quelle valide per tutti i componenti dell'ordinamento - sono in ogni caso tenuti all'osservanza dei principi generali dell'ordinamento medesimo, a maggior ragione ove siano contenuti in norme cogenti ed inderogabili tra le quali rientrano anche quelle che disciplinano gli obblighi fiscali e che vietano, e sanzionano anche penalmente, le relative violazioni. E' illegittima pertanto la sanzione del licenziamento alla cui invalidità consegue l'obbligo di reintegra ex art. 18 L. n. 300/'70».

Tale sentenza di merito è stata confermata nella specifica affermazione di principio da Cass., sez. lav., n. 519 del  16 gennaio 2001[6] (est. Lamorgese) che ha statuito: «L’obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. – riferibile soltanto alle notizie “attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione industriale”, e non estensibile sino a comprendere nel divieto anche notizie inerenti agli aspetti amministrativi e commerciali della vita dell'impresa  - e quelli ad esso collegati di correttezza e buona fede, devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività “lecita”dell'imprenditore, non potendosi di certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell'ambito del dovere di collaborazione con l'imprenditore, anche quando quest'ultimo intenda perseguite interessi che non siano leciti, quale appunto quello di evadere il fisco occultando le vendite delle merci prodotte. Tale obbligo non può, infatti, essere configurato nel senso più ampio di fedele dedizione del lavoratore al perseguimento degli interessi dell’imprenditore, sì da imporre al primo l’obbligo di astenersi da qualsiasi comportamento che possa essere in contrasto con quegli interessi. Ne consegue che, nel caso di specie, è legittimo  e non sanzionabile il comportamento del lavoratore che abbia consegnato alla guardia di finanza  fotocopia della distinta della spedizione di  merci vendute a terzi  senza la relativa documentazione fiscale, in quanto esercizio di un diritto soggettivo pubblico di denuncia di un fatto penalmente rilevante, a salvaguardia di un interesse pubblico, qual è quello che ogni cittadino adempia al carico tributario cui è tenuto in ragione della propria capacità contributiva, interesse che è avvertito nell’opinione pubblica in un  contesto in cui l’evasione fiscale è notoriamente elevata, almeno in alcune categorie di contribuenti, tanto che il combatterla rientra tra le linee programmatiche di ogni Governo della Repubblica».

Quest'anno 2013 si è espressa, in senso confermativo, Cass, sez. lav., 14 marzo 2013 n. 6501 (Rel. Manna)[7] che ha dichiarato illegittimo, perché privo di giusta causa e giustificato motivo, il licenziamento di un lavoratore che,  assieme a cinque colleghi, aveva denunciato con un esposto alla magistratura presunte irregolarità che sarebbero state commesse dalla società di cui era dipendente in relazione a un appalto per la manutenzione di semafori. La suprema Corte, accogliendo pienamente in via definitiva il  suo ricorso, ha ribaltato  la precedente sentenza della Corte di Appello che aveva invece dato torto al lavoratore. Nel rivolgersi alla Procura, l'uomo aveva allegato all'esposto documenti aziendali  senza avere informato i superiori. L'azienda lo aveva quindi licenziato, sostenendo che  con questo suo comportamento aveva diffamato la società.

In questa recentissima sentenza la Cassazione si premura di spiegare come il dovere di fedeltà previsto dal Codice civile non possa diventare "dovere di omertà", contrariamente a quanto preteso dall'impresa.  La sezione lavoro della Suprema Corte ha, conseguentemente, annullato con rinvio la sentenza con cui i giudici d'appello di Napoli avevano, erroneamente, confermato la sentenza di primo grado legittimante il licenziamento del lavoratore. Ed ha così  motivato: «Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente reso noto all'autorità giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora né l'averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto». Non costituisce giusta causa di licenziamento neanche - ha precisato la Cassazione - «l'aver allegato alla denuncia o all'esposto documenti aziendali». Dunque  - spiegano i giudici della Suprema Corte - «se l'azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all'autorità giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento». Ciò significa – continua la Cassazione nella sentenza 6501 del 14 marzo 2013 – che «non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri tra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile o amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda». Cosa diversa, naturalmente, è «la precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro», ma è «pur sempre necessario che risulti dimostrata la mala fede del lavoratore», evenienza che nella vicenda in esame «non può ritenersi insita neppure nell'eventuale archiviazione del suo esposto», anche perché «le ragioni di una archiviazione possono essere innumerevoli e non necessariamente implicanti dolo da parte del denunciante».

 2. L'avallo fornito dai lavoratori alla maturazione nei datori di una distorta concezione fiduciaria

L'intervento della magistratura nell'affermazione dei precitati, civilissimi principi - peraltro occasionati da saltuarie sentenze rese in situazioni "limite" in cui il datore licenzia il dipendente, ritenendo che il  suo rifiuto a sottostare disciplinatamente alla condizione di suddito integri una lesione del rapporto fiduciario e/o del dovere d'obbedienza - non sarebbe necessario se a corroborare l'errata concezione datoriale non concorresse un deprecabile aspetto del comportamento dei cittadini-prestatori di lavoro nell'impresa, sul quale desideriamo intrattenerci.

Intendiamo riferirci alla constatazione  secondo cui i prestatori di lavoro - ai vari livelli di collaborazione e di responsabilità - tendono, una volta inseriti nell'impresa ed in ragione dello status di subordinazione e delle limitazioni reali o supposte a tale status riconducibili, a dismettere i loro doveri di cives dello Stato. Di rado liberamente, e più spesso perché in azienda si sono create le condizioni psicologiche e materiali ostili all'attivazione dei propri diritti di cittadinanza, i prestatori di lavoro subordinato brillano per dimenticanza (a danno della collettività) di quei doveri individuali dei quali la nostra Costituzione - sempre più relegata a foglio impunemente lacerato e vilipeso - ha caratterizzato ciascun membro della comunità, nel momento in cui, all'art. 2, gli ha richiesto «...l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale», in senso specifico ed in senso lato, in congiunzione inscindibile con l'impegno dello Stato a «riconoscergli e garantirgli i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (impresa inclusa, n.d.r.) ove si svolge la sua personalità».

 3. Scusabili fraintendimenti e abbandono volontario dei principi etici

Non vi sarebbe infatti un grosso bisogno, a valle della gestione aziendale, di controllori o garanti operativamente rispondenti al pubblico potere (giudiziario nella specie) se gli stessi prestatori di lavoro a monte ed in seno alle aziende operassero in direzione della prevenzione di eventuali illeciti o comunque nell'ottica etica della correttezza gestionale interna ed esternamente rilevante, confortati dalla consapevolezza che ciò che può essere legittimamente da essi preteso in ragione di un rapporto di lavoro è una collaborazione tecnica (quantunque improntata a diligenza specifica) e non una dedizione assoluta, assorbente, acritica e totalizzante, tale - se del caso e patologicamente - da confondersi (con) o sconfinare nell'omertà. A titolo esemplificativo, nel campo della gestione dei diritti e delle aspettative dei lavoratori, la Direzione del Personale (ed i suoi funzionari) dovrebbe atteggiarsi ad organo (imparziale) di magistratura interna, non già ad appendice ossequiente ed attuativa di direttive (eventualmente) clientelari e/o del tutto atecniche di una Presidenza o Direzione Generale compromessa con i poteri politici od economici e sollecitata esternamente da lobbies di varia natura o configurazione. Analogo discorso vale per gli Uffici tecnici delle Direzioni Bilancio, per quelli preposti alla concessione dei fidi e dei crediti, ecc.

Varie sono le ragioni per cui il prestatore di lavoro, a livello direttivo più che ai livelli inferiori, chiude un occhio (o tutti e due) in certe occasioni, sopravvalutando il diffuso convincimento che - in disgraziata ipotesi - sarà chiamato a rispondere agli organi preposti esclusivamente il rappresentante legale dell'impresa e sottovalutando correlativamente quel principio giuridico per cui la responsabilità penale è personale e si estende a chi tecnicamente ha cooperato a maturare «incaute» decisioni (e la memoria corre ai dirigenti della ex Montedison, prima, ed ai collaboratori del D.G. Ventriglia al Banco di Napoli, poi, a carico dei quali  furono, a suo tempo, intentate azioni di responsabilità). Quando poi non si assiste addirittura alla “beffa” posta in essere dai difensori del legale rappresentante - per sminuirne le imputazioni - col prospettare al magistrato inquirente tesi di atecnicismo dell'esponente di vertice, onde scaricare sul collaboratore professionalmente qualificato la responsabilità di aver taciuto, mal rappresentato o parzialmente omesso rilevanti aspetti o situazioni per una valutazione altrimenti obiettiva e per una decisione conseguenzialmente corretta (il caso non è affatto teorico: basta por mente alle vicende giudiziarie - o scorrerne gli atti - relative ad amministratori o presidenti di società e finanziarie, coinvolti in dissesti a danno dei privati e della finanza pubblica).

Tra i motivi dell'oggettiva collaborazione del prestatore di lavoro nei confronti della «cultura della trasgressione», stanno primariamente le sue caratteristiche da Don Abbondio per necessità indiscutibilmente esistenziali (conservazione dell'occupazione, non emarginazione) ma, talaltra, valutazioni del tutto prosaicamente egoistiche ed amorali (progredire più di altri nella carriera, partecipare alla spartizione di benefici premianti connivenza, disponibilità, docilità e simili). Quanto sopra favorito dal versare in un contesto che un autorevole studioso scomparso individuò come quello «del trovarsi in un'epoca caratterizzata dalla separazione del potere da un'etica che ne giustifichi l'esercizio. Così vi è una frenetica esaltazione del pragmatismo e della realpolitik...Insomma viene praticata una specie di etica della “non etica”, il cui vuoto di valori viene pienamente avvertito dalle nuove generazioni. E' naturale che in questo panorama ci si dedichi intensamente alla prassi che Foucault individua con i verbi “sorvegliare e punire”. Correlativamente il consenso viene perseguito facendo ricorso ad un fiorente uso degli strumenti di coercizione: dai privilegi agli adepti, alle ricompense agli arresi, dalle censure a chi resiste ai premi a chi s'adegua»[8].

 4.Vizi e distorsioni di una totalizzante concezione fiduciaria

 Spesso la collaborazione del prestatore alle trasgressioni ed inadempienze datoriali risulta, tuttavia, forzata in ragione di un malinteso senso del dovere di obbedienza, alla luce del quale il rifiuto o la resistenza alle disposizioni (illegittime) gli appaiono suscettibili di infrangere quella fiducia, il cui venire meno legittima la risoluzione del rapporto per giusta causa ex art. 2119 c.c.

Senza intento alcuno di voler accrescere la casistica degli atti di insubordinazione in azienda, ma nell'ottica di assolvere ad una funzione educativa e di consapevolizzazione, va detto che il prestatore di lavoro è - per dovere civico - tenuto e giuridicamente legittimato a disattendere prescrizioni datoriali aggiranti o elusive di normative legali (fiscali, previdenziali, valutarie, ecc.) o volte a dar corpo ad atti gestionali contrastanti con i principi etico-giuridici della correttezza ed imparzialità. In tali evenienze i lavoratori - accentuatamente coloro che operano in posizioni di responsabilità - debbono riscoprire ed esaltare i loro convincimenti morali ed il loro ruolo di cittadini della più ampia (e più elevata, nella scala dei valori) comunità statuale, legittimati a porre in sottordine - per l'occasione - la loro condizione di prestatori di lavoro subordinato cui sono stati sospinti e nella quale versano, eminentemente per necessità di sopperire agli indifferibili bisogni economici, piuttosto che per scelta libera e finalizzata alla realizzazione delle loro aspirazioni spirituali e professionali.

Certo è che, fintanto che si mantiene viva e si rinsalda - a danno dell'educazione civica, del senso morale e del progredire delle acquisizioni a favore dei diritti della personalità - quella concezione, imperante (con sottili puntualizzazioni per i soli addetti ai lavori), secondo la quale per effetto di un lavoro subordinato si dilaterebbero sul lavoratore non i soli obblighi di cooperazione tecnica e professionale finalizzati all'adempimento corretto, diligente e leale dell'oggetto del contratto ma indefiniti ed aprioristicamente indeterminabili obblighi di fare e di astenersi dal fare, riconducibili ad una amplissima ed equivoca nozione di «fedeltà» o «fiduciarietà», risultano veramente esigue le possibilità che il prestatore di lavoro possa evitare di far violenza alla propria dignità ed al tempo stesso concorrere ed impegnarsi, senza rischi troppo elevati, nell'opera civilmente e socialmente meritoria di favorire il conseguimento dell'obbiettivo della correttezza e trasparenza gestionale.

Anche se nessun benpensante potrebbe negare, in teoria, la liceità della resistenza o dell'avversione del prestatore ad avallare (con il proprio apporto professionale) comportamenti datoriali disdicevoli o illegittimi per contrarietà a norme imperative, contrattuali o gestionali interne autolimitative (nell'ottica della prevenzione, da parte dei gestori pro-tempore, di abusi nell'esercizio di privati poteri), la deliberata cappa di silenzio calata sopra questa categoria di diritti di “obiezione di coscienza” ha fatto radicare e rigogliosamente crescere nell'animo dei prestatori di lavoro l'erroneo ed immobilizzante convincimento di poter incorrere in atti di insubordinazione così come, correlativamente, nel datore di lavoro privato o pubblico ha preso consistenza, a dismisura, il presunto diritto di poter pretendere dal lavoratore la dedizione del “socio in affari”.

Ne esce confermata, a conclusione, quale  primaria responsabile  del "supinismo" del prestatore in azienda, quella malintesa concezione “fiduciaria” - coltivata per comodità datoriale e da esso  totalitariamente intesa - rea di aver fatto ritenere, erroneamente, che le legittime iniziative di reazione del prestatore di lavoro fossero «irreversibilmente vulnerative della fiducia che il datore di lavoro deve costantemente poter riporre nel proprio dipendente che è il presupposto della permanenza del rapporto tra di essi intercorrente». Principio, va detto con chiarezza,  ricorrente solo nei confronti di atti datorialmente corretti ed ineccepibili - legittimanti obblighi contrattuali di adempimento da parte del lavoratore - e che, invece, pacificamente non si attaglia alle reazioni o ai rifiuti del prestatore di collaborare al compimento di atti aziendali non contemplati dal contratto ovvero disdicevoli e contra legem[9]

[1] Cass. 29 giugno 1981 n. 4241, in Mass. giur. lav. 1982, 67; conf. Cass. 3 maggio 1997 n. 3837, ivi 1997, Mass. Cass. , 44, n. 132, che ha qualificato «discriminatorio» e, quindi, nullo ex art. 4, l. n. 604/'66, il licenziamento datoriale a fronte di iniziative giudiziarie intraprese dal lavoratore.

[2] Cass. 31 gennaio 1930, in Mass. giur. lav. 1930, 18.

[3] Cass.  26 aprile 1976 n. 1476, in Mass. giur. lav. 1977, 120, m.

[4]  Cass. 5 novembre 1998 n. 11138.

[5] Così Trib. Trani, 29.7.1999 n. 659, Pres. ed est. Pica, Dragonetti c. Elite s.r.l. (inedita a quanto consta).

[6] In Foro it. 2001, I, 862; in Riv. it. dir. lav. 2001, II, 453, nt. Di Paola; in Lav. prev. oggi 2001, 367.

[7]  Leggibile in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/6501_03_13.pdf.

[8] A. Cessari, in Riv. it. dir. lav. 1983, I,417, nota 30.

[9] In tal senso, Cass. 8 giugno 1999 n. 5643,  in Not. giur. lav. 1999, 613; Giust. civ. 2000,I, 1095, nt. M. Mocella.

1. Sul lavoratore gravano doveri di sola collaborazione tecnica ad una corretta gestione aziendale

Nell'odierno assetto di inattuazione dell'art. 46 Cost. - che notoriamente prefigura la soluzione partecipativa dei lavoratori alla gestione delle aziende - l'attuale prestatore di lavoro non è obiettivamente associato ai fini ed alle sorti dell'impresa. Su di lui gravano doveri di collaborazione in senso tecnico (art. 2094 c.c.), di diligenza (art. 2104 c.c.) e di fedeltà nel senso specificato dal contenuto dell'art. 2105 c.c. (ad onta di un'infelice rubrica), sostanziantesi nel divieto di concorrenza e di violazione del segreto professionale. In un campo oramai presidiato, da quasi  mezzo secolo, da norme soppressive della discrezionalità del recesso (subordinato a causali incidenti sul contenuto degli obblighi contrattuali, di obiettivo riscontro) e dai principi dello Statuto dei lavoratori, queste affermazioni sembrerebbero di pacifica condivisibilità.

Così invece non è, poiché sacche di intrinseca arretratezza culturale - o riproposte sub specie mimetica di liberismo economico/gestionale selvaggio - ed istinti di prevaricazione mai dismessi, vengono posti non infrequentemente in luce dalla stessa giurisprudenza (per tacere di quelli che si realizzano in silenzio, senza giungere all'esame giudiziale), che anche non molto tempo addietro si è trovata a stigmatizzare l'illegittimità (rectius, l'indegnità) del licenziamento irrogato a due lavoratori da un tal Rabbiosi (è il reale cognome del datore di lavoro «intollerante») rei di aver azzardato intraprendere e vincere contro di lui un giudizio per ottenere la qualificazione del rapporto di lavoro ed il riconoscimento di pretese retributive. Correttamente la Cassazione[1] ebbe a qualificare «vendetta» il comportamento di ritorsione datoriale al ricorso dei due prestatori agli organi istituzionalmente preposti ad acclarare la correttezza delle azioni, la fondatezza delle pretese ed a dirimere le private contese. E quante imprese meditano, ancor oggi, ritorsioni - fino al licenziamento - nei confronti di coloro che, in costanza di rapporto, si rivolgono alla magistratura per l'accertamento dei propri diritti?

Ciò nonostante che, addirittura nell'oscura epoca corporativa, fosse già acquisto dalla Cassazione il principio per cui «l'essere la società convenuta innanzi al magistrato dal dipendente per chiedere di diritti inerenti al rapporto di cui si reputava leso (e risultati poi infondati) non costituisce legittima causa di licenziamento per l'essersi rivolto all'organo che la legge appresta per la risoluzione delle controversie di lavoro; ed anche se la pretesa sia stata giudicata infondata...non può certo affermarsi che il solo esperimento giudiziale sia di tale gravità e legittima causa d'incompatibilità...da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto»[2].

In un caso non dissimile, ancora la Cassazione[3] ha dovuto nuovamente precisare come «il lavoratore socio di impresa a struttura societaria che aveva presentato una denuncia penale contro il presidente della stessa, si era costituito parte civile nel relativo processo ed aveva proseguito un procedimento civile, promosso da altri soci, contro la stessa società, non aveva commesso illecito disciplinarmente sanzionabile col licenziamento avendo, all'opposto, esercitato un proprio diritto, sia pure con un comportamento contrario agli interessi di fatto del datore di lavoro». E di recente, a conferma dei principi asseriti, la Cassazione[4] ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un dirigente che aveva preannunciato all'azienda un'azione giudiziaria, affermando espressamente il principio di diritto secondo cui: «L'azione giudiziaria costituisce un diritto insopprimibile per chiunque e pertanto il suo preannuncio non basta a giustificare un licenziamento; tale comportamento infatti non è idoneo a causare perdita di fiducia, ben potendo il dirigente (e il dipendente in genere) da un lato tenere al riconoscimento dei suoi pretesi diritti e dall'altro conservare e confermare il suo attaccamento al posto di lavoro».

Ed ancor più di recente, in sede di merito[5], si è correttamente stabilito che: «Non viola l'art. 2105 c.c. - in tema di obbligo di fedeltà - il lavoratore che consegni alla guardia di finanza copia della distinta di spedizione della merce “a nero”, con conseguente apertura di procedimento penale e inflizione di sanzioni pecuniarie a carico del proprio datore di lavoro. La denuncia penale, d'altra parte, costituiva l'unica strada del lavoratore per sottrarsi al rischio di un coinvolgimento personale, in veste di coimputato, negli illeciti fiscali, penalmente rilevanti, dei quali non solo era genericamente al corrente, ma per i quali era anche deputato dall'imprenditore a custodire la relativa documentazione “a nero”. D'altronde tutti i soggetti che operano nell'impresa - che non costituisce un universo a se stante nel quale operano regole diverse e difformi da quelle valide per tutti i componenti dell'ordinamento - sono in ogni caso tenuti all'osservanza dei principi generali dell'ordinamento medesimo, a maggior ragione ove siano contenuti in norme cogenti ed inderogabili tra le quali rientrano anche quelle che disciplinano gli obblighi fiscali e che vietano, e sanzionano anche penalmente, le relative violazioni. E' illegittima pertanto la sanzione del licenziamento alla cui invalidità consegue l'obbligo di reintegra ex art. 18 L. n. 300/'70».

Tale sentenza di merito è stata confermata nella specifica affermazione di principio da Cass., sez. lav., n. 519 del  16 gennaio 2001[6] (est. Lamorgese) che ha statuito: «L’obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. – riferibile soltanto alle notizie “attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione industriale”, e non estensibile sino a comprendere nel divieto anche notizie inerenti agli aspetti amministrativi e commerciali della vita dell'impresa  - e quelli ad esso collegati di correttezza e buona fede, devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività “lecita”dell'imprenditore, non potendosi di certo richiedere al lavoratore la osservanza di detti obblighi, nell'ambito del dovere di collaborazione con l'imprenditore, anche quando quest'ultimo intenda perseguite interessi che non siano leciti, quale appunto quello di evadere il fisco occultando le vendite delle merci prodotte. Tale obbligo non può, infatti, essere configurato nel senso più ampio di fedele dedizione del lavoratore al perseguimento degli interessi dell’imprenditore, sì da imporre al primo l’obbligo di astenersi da qualsiasi comportamento che possa essere in contrasto con quegli interessi. Ne consegue che, nel caso di specie, è legittimo  e non sanzionabile il comportamento del lavoratore che abbia consegnato alla guardia di finanza  fotocopia della distinta della spedizione di  merci vendute a terzi  senza la relativa documentazione fiscale, in quanto esercizio di un diritto soggettivo pubblico di denuncia di un fatto penalmente rilevante, a salvaguardia di un interesse pubblico, qual è quello che ogni cittadino adempia al carico tributario cui è tenuto in ragione della propria capacità contributiva, interesse che è avvertito nell’opinione pubblica in un  contesto in cui l’evasione fiscale è notoriamente elevata, almeno in alcune categorie di contribuenti, tanto che il combatterla rientra tra le linee programmatiche di ogni Governo della Repubblica».

Quest'anno 2013 si è espressa, in senso confermativo, Cass, sez. lav., 14 marzo 2013 n. 6501 (Rel. Manna)[7] che ha dichiarato illegittimo, perché privo di giusta causa e giustificato motivo, il licenziamento di un lavoratore che,  assieme a cinque colleghi, aveva denunciato con un esposto alla magistratura presunte irregolarità che sarebbero state commesse dalla società di cui era dipendente in relazione a un appalto per la manutenzione di semafori. La suprema Corte, accogliendo pienamente in via definitiva il  suo ricorso, ha ribaltato  la precedente sentenza della Corte di Appello che aveva invece dato torto al lavoratore. Nel rivolgersi alla Procura, l'uomo aveva allegato all'esposto documenti aziendali  senza avere informato i superiori. L'azienda lo aveva quindi licenziato, sostenendo che  con questo suo comportamento aveva diffamato la società.

In questa recentissima sentenza la Cassazione si premura di spiegare come il dovere di fedeltà previsto dal Codice civile non possa diventare "dovere di omertà", contrariamente a quanto preteso dall'impresa.  La sezione lavoro della Suprema Corte ha, conseguentemente, annullato con rinvio la sentenza con cui i giudici d'appello di Napoli avevano, erroneamente, confermato la sentenza di primo grado legittimante il licenziamento del lavoratore. Ed ha così  motivato: «Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente reso noto all'autorità giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora né l'averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto». Non costituisce giusta causa di licenziamento neanche - ha precisato la Cassazione - «l'aver allegato alla denuncia o all'esposto documenti aziendali». Dunque  - spiegano i giudici della Suprema Corte - «se l'azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all'autorità giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento». Ciò significa – continua la Cassazione nella sentenza 6501 del 14 marzo 2013 – che «non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri tra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile o amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda». Cosa diversa, naturalmente, è «la precipua volontà di danneggiare il proprio datore di lavoro», ma è «pur sempre necessario che risulti dimostrata la mala fede del lavoratore», evenienza che nella vicenda in esame «non può ritenersi insita neppure nell'eventuale archiviazione del suo esposto», anche perché «le ragioni di una archiviazione possono essere innumerevoli e non necessariamente implicanti dolo da parte del denunciante».

 2. L'avallo fornito dai lavoratori alla maturazione nei datori di una distorta concezione fiduciaria

L'intervento della magistratura nell'affermazione dei precitati, civilissimi principi - peraltro occasionati da saltuarie sentenze rese in situazioni "limite" in cui il datore licenzia il dipendente, ritenendo che il  suo rifiuto a sottostare disciplinatamente alla condizione di suddito integri una lesione del rapporto fiduciario e/o del dovere d'obbedienza - non sarebbe necessario se a corroborare l'errata concezione datoriale non concorresse un deprecabile aspetto del comportamento dei cittadini-prestatori di lavoro nell'impresa, sul quale desideriamo intrattenerci.

Intendiamo riferirci alla constatazione  secondo cui i prestatori di lavoro - ai vari livelli di collaborazione e di responsabilità - tendono, una volta inseriti nell'impresa ed in ragione dello status di subordinazione e delle limitazioni reali o supposte a tale status riconducibili, a dismettere i loro doveri di cives dello Stato. Di rado liberamente, e più spesso perché in azienda si sono create le condizioni psicologiche e materiali ostili all'attivazione dei propri diritti di cittadinanza, i prestatori di lavoro subordinato brillano per dimenticanza (a danno della collettività) di quei doveri individuali dei quali la nostra Costituzione - sempre più relegata a foglio impunemente lacerato e vilipeso - ha caratterizzato ciascun membro della comunità, nel momento in cui, all'art. 2, gli ha richiesto «...l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale», in senso specifico ed in senso lato, in congiunzione inscindibile con l'impegno dello Stato a «riconoscergli e garantirgli i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (impresa inclusa, n.d.r.) ove si svolge la sua personalità».

 3. Scusabili fraintendimenti e abbandono volontario dei principi etici

Non vi sarebbe infatti un grosso bisogno, a valle della gestione aziendale, di controllori o garanti operativamente rispondenti al pubblico potere (giudiziario nella specie) se gli stessi prestatori di lavoro a monte ed in seno alle aziende operassero in direzione della prevenzione di eventuali illeciti o comunque nell'ottica etica della correttezza gestionale interna ed esternamente rilevante, confortati dalla consapevolezza che ciò che può essere legittimamente da essi preteso in ragione di un rapporto di lavoro è una collaborazione tecnica (quantunque improntata a diligenza specifica) e non una dedizione assoluta, assorbente, acritica e totalizzante, tale - se del caso e patologicamente - da confondersi (con) o sconfinare nell'omertà. A titolo esemplificativo, nel campo della gestione dei diritti e delle aspettative dei lavoratori, la Direzione del Personale (ed i suoi funzionari) dovrebbe atteggiarsi ad organo (imparziale) di magistratura interna, non già ad appendice ossequiente ed attuativa di direttive (eventualmente) clientelari e/o del tutto atecniche di una Presidenza o Direzione Generale compromessa con i poteri politici od economici e sollecitata esternamente da lobbies di varia natura o configurazione. Analogo discorso vale per gli Uffici tecnici delle Direzioni Bilancio, per quelli preposti alla concessione dei fidi e dei crediti, ecc.

Varie sono le ragioni per cui il prestatore di lavoro, a livello direttivo più che ai livelli inferiori, chiude un occhio (o tutti e due) in certe occasioni, sopravvalutando il diffuso convincimento che - in disgraziata ipotesi - sarà chiamato a rispondere agli organi preposti esclusivamente il rappresentante legale dell'impresa e sottovalutando correlativamente quel principio giuridico per cui la responsabilità penale è personale e si estende a chi tecnicamente ha cooperato a maturare «incaute» decisioni (e la memoria corre ai dirigenti della ex Montedison, prima, ed ai collaboratori del D.G. Ventriglia al Banco di Napoli, poi, a carico dei quali  furono, a suo tempo, intentate azioni di responsabilità). Quando poi non si assiste addirittura alla “beffa” posta in essere dai difensori del legale rappresentante - per sminuirne le imputazioni - col prospettare al magistrato inquirente tesi di atecnicismo dell'esponente di vertice, onde scaricare sul collaboratore professionalmente qualificato la responsabilità di aver taciuto, mal rappresentato o parzialmente omesso rilevanti aspetti o situazioni per una valutazione altrimenti obiettiva e per una decisione conseguenzialmente corretta (il caso non è affatto teorico: basta por mente alle vicende giudiziarie - o scorrerne gli atti - relative ad amministratori o presidenti di società e finanziarie, coinvolti in dissesti a danno dei privati e della finanza pubblica).

Tra i motivi dell'oggettiva collaborazione del prestatore di lavoro nei confronti della «cultura della trasgressione», stanno primariamente le sue caratteristiche da Don Abbondio per necessità indiscutibilmente esistenziali (conservazione dell'occupazione, non emarginazione) ma, talaltra, valutazioni del tutto prosaicamente egoistiche ed amorali (progredire più di altri nella carriera, partecipare alla spartizione di benefici premianti connivenza, disponibilità, docilità e simili). Quanto sopra favorito dal versare in un contesto che un autorevole studioso scomparso individuò come quello «del trovarsi in un'epoca caratterizzata dalla separazione del potere da un'etica che ne giustifichi l'esercizio. Così vi è una frenetica esaltazione del pragmatismo e della realpolitik...Insomma viene praticata una specie di etica della “non etica”, il cui vuoto di valori viene pienamente avvertito dalle nuove generazioni. E' naturale che in questo panorama ci si dedichi intensamente alla prassi che Foucault individua con i verbi “sorvegliare e punire”. Correlativamente il consenso viene perseguito facendo ricorso ad un fiorente uso degli strumenti di coercizione: dai privilegi agli adepti, alle ricompense agli arresi, dalle censure a chi resiste ai premi a chi s'adegua»[8].

 4.Vizi e distorsioni di una totalizzante concezione fiduciaria

 Spesso la collaborazione del prestatore alle trasgressioni ed inadempienze datoriali risulta, tuttavia, forzata in ragione di un malinteso senso del dovere di obbedienza, alla luce del quale il rifiuto o la resistenza alle disposizioni (illegittime) gli appaiono suscettibili di infrangere quella fiducia, il cui venire meno legittima la risoluzione del rapporto per giusta causa ex art. 2119 c.c.

Senza intento alcuno di voler accrescere la casistica degli atti di insubordinazione in azienda, ma nell'ottica di assolvere ad una funzione educativa e di consapevolizzazione, va detto che il prestatore di lavoro è - per dovere civico - tenuto e giuridicamente legittimato a disattendere prescrizioni datoriali aggiranti o elusive di normative legali (fiscali, previdenziali, valutarie, ecc.) o volte a dar corpo ad atti gestionali contrastanti con i principi etico-giuridici della correttezza ed imparzialità. In tali evenienze i lavoratori - accentuatamente coloro che operano in posizioni di responsabilità - debbono riscoprire ed esaltare i loro convincimenti morali ed il loro ruolo di cittadini della più ampia (e più elevata, nella scala dei valori) comunità statuale, legittimati a porre in sottordine - per l'occasione - la loro condizione di prestatori di lavoro subordinato cui sono stati sospinti e nella quale versano, eminentemente per necessità di sopperire agli indifferibili bisogni economici, piuttosto che per scelta libera e finalizzata alla realizzazione delle loro aspirazioni spirituali e professionali.

Certo è che, fintanto che si mantiene viva e si rinsalda - a danno dell'educazione civica, del senso morale e del progredire delle acquisizioni a favore dei diritti della personalità - quella concezione, imperante (con sottili puntualizzazioni per i soli addetti ai lavori), secondo la quale per effetto di un lavoro subordinato si dilaterebbero sul lavoratore non i soli obblighi di cooperazione tecnica e professionale finalizzati all'adempimento corretto, diligente e leale dell'oggetto del contratto ma indefiniti ed aprioristicamente indeterminabili obblighi di fare e di astenersi dal fare, riconducibili ad una amplissima ed equivoca nozione di «fedeltà» o «fiduciarietà», risultano veramente esigue le possibilità che il prestatore di lavoro possa evitare di far violenza alla propria dignità ed al tempo stesso concorrere ed impegnarsi, senza rischi troppo elevati, nell'opera civilmente e socialmente meritoria di favorire il conseguimento dell'obbiettivo della correttezza e trasparenza gestionale.

Anche se nessun benpensante potrebbe negare, in teoria, la liceità della resistenza o dell'avversione del prestatore ad avallare (con il proprio apporto professionale) comportamenti datoriali disdicevoli o illegittimi per contrarietà a norme imperative, contrattuali o gestionali interne autolimitative (nell'ottica della prevenzione, da parte dei gestori pro-tempore, di abusi nell'esercizio di privati poteri), la deliberata cappa di silenzio calata sopra questa categoria di diritti di “obiezione di coscienza” ha fatto radicare e rigogliosamente crescere nell'animo dei prestatori di lavoro l'erroneo ed immobilizzante convincimento di poter incorrere in atti di insubordinazione così come, correlativamente, nel datore di lavoro privato o pubblico ha preso consistenza, a dismisura, il presunto diritto di poter pretendere dal lavoratore la dedizione del “socio in affari”.

Ne esce confermata, a conclusione, quale  primaria responsabile  del "supinismo" del prestatore in azienda, quella malintesa concezione “fiduciaria” - coltivata per comodità datoriale e da esso  totalitariamente intesa - rea di aver fatto ritenere, erroneamente, che le legittime iniziative di reazione del prestatore di lavoro fossero «irreversibilmente vulnerative della fiducia che il datore di lavoro deve costantemente poter riporre nel proprio dipendente che è il presupposto della permanenza del rapporto tra di essi intercorrente». Principio, va detto con chiarezza,  ricorrente solo nei confronti di atti datorialmente corretti ed ineccepibili - legittimanti obblighi contrattuali di adempimento da parte del lavoratore - e che, invece, pacificamente non si attaglia alle reazioni o ai rifiuti del prestatore di collaborare al compimento di atti aziendali non contemplati dal contratto ovvero disdicevoli e contra legem[9]

[1] Cass. 29 giugno 1981 n. 4241, in Mass. giur. lav. 1982, 67; conf. Cass. 3 maggio 1997 n. 3837, ivi 1997, Mass. Cass. , 44, n. 132, che ha qualificato «discriminatorio» e, quindi, nullo ex art. 4, l. n. 604/'66, il licenziamento datoriale a fronte di iniziative giudiziarie intraprese dal lavoratore.

[2] Cass. 31 gennaio 1930, in Mass. giur. lav. 1930, 18.

[3] Cass.  26 aprile 1976 n. 1476, in Mass. giur. lav. 1977, 120, m.

[4]  Cass. 5 novembre 1998 n. 11138.

[5] Così Trib. Trani, 29.7.1999 n. 659, Pres. ed est. Pica, Dragonetti c. Elite s.r.l. (inedita a quanto consta).

[6] In Foro it. 2001, I, 862; in Riv. it. dir. lav. 2001, II, 453, nt. Di Paola; in Lav. prev. oggi 2001, 367.

[7]  Leggibile in http://www.cortedicassazione.it/Documenti/6501_03_13.pdf.

[8] A. Cessari, in Riv. it. dir. lav. 1983, I,417, nota 30.

[9] In tal senso, Cass. 8 giugno 1999 n. 5643,  in Not. giur. lav. 1999, 613; Giust. civ. 2000,I, 1095, nt. M. Mocella.