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Il “whistleblower all’italiana”, come uno studio finlandese può aiutarci a capire

Con il termine di whistleblower, in generale, si intende qualcuno che riferisce un illecito compiuto ai danni delle autorità governative nell’ambito di un procedimento più o meno disciplinato dalla legge. Il termine è anglosassone e deriva dall’inglese "blow the whistle" e si riferisce all’azione dell’arbitro di segnalare un fallo o una infrazione.

Nella cultura italiana questo parallelismo potrebbe non risultare di immediata comprensione, soprattutto a causa dell’idea dispregiativa che si ha di chi pone in essere un comportamento assimilabile alla spia e che come tale tradisce un legame o una fiducia preesistente.

Le origini risalgono al 1863 quando Abraham Lincoln sottopose, con urgenza, al Congresso  americano l’approvazione di un testo legislativo, più volte emendato negli anni, chiamato False Claim Act, finalizzato a prevenire le frodi contro il Governo.

Da quell’anno ai giorni nostri il ruolo del whisteblower, negli Stati Uniti, si è notevolmente modificato e sono aumentati anche i riconoscimenti di natura economica. È stato inoltre concesso al whistleblower di assumere un ruolo attivo anche nella fase processuale. In altri termini al whistleblower viene riconosciuto il ruolo di chi agisce “a nome” dell’interesse del Governo e quindi basta la sua deposizione ad un attorney per intentare un’azione legale a favore dell’autorità governativa[1]. L’ipotesi emblematica è quella di un impiegato dell’amministrazione pubblica che avendo avuto notizia e prova o, addirittura, avendo partecipato ad un evento fraudolento, decide di investirsi come paladino di giustizia denunciando l’accaduto. In questo senso l’immagine di colui il quale, assistendo al gioco ne rileva una scorrettezza e quindi tenta di fermarlo denunciando pubblicamente (fischiando) l’accaduto, non è poi così peregrina.

In Italia la situazione, così come sopra delineata, è notevolmente diversa e non perché l’ordinamento giuridico non consenta a chiunque sia a conoscenza di un illecito di andare presso la Procura della Repubblica a denunciare i fatti, piuttosto perché manca ancora una vera e propria legge che individui e disciplini l’istituto del whistleblower.

Un primordiale accenno è stato recentemente rinvenuto nella Legge Anticorruzione, all’articolo 1, comma 51 (Legge 190/2012)[2], ma con una norma che in realtà sembra tutta orientata a garantire il whistleblower italiano dalle conseguenze pregiudizievoli a cui, verosimilmente, può incorrere colui il quale per la scelta fatta potrebbe subire ritorsioni di vario genere, dalle sanzioni al licenziamento o ad altra misura sanzionatoria. Ciò, probabilmente, perché nella cultura generale italiana la denuncia di un illecito amministrativo non è vista come nobile azione di colui il quale agisce tutelando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, quanto piuttosto una conferma del fatto che la corruzione impera nelle maglie della pubblica amministrazione. Paradossalmente, all’aumentare del numero o dei casi di denuncia da whistleblower, aumenterebbe la percezione pubblica di un apparato amministrativo ed economico corrotto e non funzionante.

A ciò si aggiungerebbe una circostanza di non poco rilievo e cioè il fatto che spesso il whistleblower, in senso stretto, è anche uno dei soggetti che ha concorso all’evento fraudolento e quindi, a prescindere dall’operoso ravvedimento – sempre tardivo – è anche colui il quale reca con sé la macchia del reato. Questa circostanza, ad esempio, nella cultura giuridica nostrana ha notevoli difficoltà ad essere accettata, dimostrazione ne è che la norma sopra citata, a proposito del whistleblower italiano, afferma: “…condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”. È del tutto evidente che il concorrente nel reato non ha alcun incentivo a soffiare nel fischietto.

Ma la prospettiva andrebbe, ovviamente, ribaltata.

Ne è testimonianza una recentissima e breve analisi finlandese, compiuta dall’Institute for Economies in Transition della Bank of Filand, dal titolo “Effectiveness of whistleblower laws in combating corruption”, sulla legislazione americana[3]. Lo studio parte dalla constatazione che la figura del whistleblower, fino a pochi anni or sono solo appannaggio di chi lavora nel settore dell’anticorruzione, è salita all’attenzione pubblica proprio per un caso emerso all’interno della rete internet, ossia Wikileaks. Certamente Wikileaks ha rappresentato, e rappresenta, un fenomeno complesso sotto diversi aspetti, ma alla genesi di esso c’è proprio il whistle blowing, inteso come l’attività di colui che dichiara pubblicamente semplici fatti occulti di cui sia venuto a conoscenza, spesso anche a prescindere da una loro rilevanza sotto il profilo giuridico, verso i quali occorre tuttavia procedere attraverso un procedimento di verifica sulla veridicità e fondatezza. Comunque nel recentissimo periodo gli stati membri della federazione americana hanno notevolmente incrementato la legislazione in materia, fino a coprire il 90% dell’intero territorio statunitense[4]. Tuttavia, ed è questo l’aspetto interessante dell’analisi finlandese, la legislazione statale da sola non sembra rappresentare un serio deterrente alla corruzione. È  invece necessario implementare una strategia più ampia per creare una consapevolezza dell’esistenza di una specifica legislazione in materia di corruzione. Ancor di più, l’analisi nord europea mette in evidenza come internet possa essere lo strumento più idoneo per rendere effettiva ed efficace la consapevolezza dell’esistenza di una legislazione specifica in materia di frodi e di corruzione, tanto più dell’esistenza di una legge in materia di whistleblower.

È verosimile infatti che la legislazione in materia di whistleblower sia indotta e guidata dall’attività anticorruzione presente nel territorio, ad esempio attraverso i media, i convegni, l’interesse a livello accademico (corsi universitari, momenti di studio e seminari), favorendo un ampio dibattito pubblico anche attraverso blogs. Maggiore sarà l’accesso ad internet ed il suo uso e maggiore sarà l’interesse per la materia, numerose saranno le informazioni condivise e le esperienze raccontate. Al contrario, un basso livello di conoscenza o di conoscibilità, darebbe luogo ad una scarsa attenzione alla materia e quindi ad un aumento, o non diminuzione, del fenomeno fraudolento. Non a caso i noti motori di ricerca vengono normalmente utilizzati per effettuare delle verifiche in materia di anti-corruzione.

Non abbiamo certezza di quale sia lo strumento normativo più idoneo a contrastare il fenomeno delle frodi amministrative e private, ma non possiamo trascurare il fatto che tale strumento non può prescindere da una maturazione culturale, anche attraverso la condivisione di culture giuridiche storicamente diverse.

[1] Ci si riferisce all’istituto giuridico americano della “qui tam” action prevista nel False Claim Act.

[2] «Art. 54-bis. - (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). - 1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

2. Nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato.

3. L'adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.

4. La denuncia è sottratta all'accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.»

[3] Lo studio è reperibile al seguente link: http://www.suomenpankki.fi/bofit_en/tutkimus/tutkimusjulkaisut/dp/Pages/default.aspx .

[4] Come è nella tradizione giuridica statunitense ogni stato ha una sua legislazione per cui anche tali norme non sono tutte uguali negli stati della federazione.

Con il termine di whistleblower, in generale, si intende qualcuno che riferisce un illecito compiuto ai danni delle autorità governative nell’ambito di un procedimento più o meno disciplinato dalla legge. Il termine è anglosassone e deriva dall’inglese "blow the whistle" e si riferisce all’azione dell’arbitro di segnalare un fallo o una infrazione.

Nella cultura italiana questo parallelismo potrebbe non risultare di immediata comprensione, soprattutto a causa dell’idea dispregiativa che si ha di chi pone in essere un comportamento assimilabile alla spia e che come tale tradisce un legame o una fiducia preesistente.

Le origini risalgono al 1863 quando Abraham Lincoln sottopose, con urgenza, al Congresso  americano l’approvazione di un testo legislativo, più volte emendato negli anni, chiamato False Claim Act, finalizzato a prevenire le frodi contro il Governo.

Da quell’anno ai giorni nostri il ruolo del whisteblower, negli Stati Uniti, si è notevolmente modificato e sono aumentati anche i riconoscimenti di natura economica. È stato inoltre concesso al whistleblower di assumere un ruolo attivo anche nella fase processuale. In altri termini al whistleblower viene riconosciuto il ruolo di chi agisce “a nome” dell’interesse del Governo e quindi basta la sua deposizione ad un attorney per intentare un’azione legale a favore dell’autorità governativa[1]. L’ipotesi emblematica è quella di un impiegato dell’amministrazione pubblica che avendo avuto notizia e prova o, addirittura, avendo partecipato ad un evento fraudolento, decide di investirsi come paladino di giustizia denunciando l’accaduto. In questo senso l’immagine di colui il quale, assistendo al gioco ne rileva una scorrettezza e quindi tenta di fermarlo denunciando pubblicamente (fischiando) l’accaduto, non è poi così peregrina.

In Italia la situazione, così come sopra delineata, è notevolmente diversa e non perché l’ordinamento giuridico non consenta a chiunque sia a conoscenza di un illecito di andare presso la Procura della Repubblica a denunciare i fatti, piuttosto perché manca ancora una vera e propria legge che individui e disciplini l’istituto del whistleblower.

Un primordiale accenno è stato recentemente rinvenuto nella Legge Anticorruzione, all’articolo 1, comma 51 (Legge 190/2012)[2], ma con una norma che in realtà sembra tutta orientata a garantire il whistleblower italiano dalle conseguenze pregiudizievoli a cui, verosimilmente, può incorrere colui il quale per la scelta fatta potrebbe subire ritorsioni di vario genere, dalle sanzioni al licenziamento o ad altra misura sanzionatoria. Ciò, probabilmente, perché nella cultura generale italiana la denuncia di un illecito amministrativo non è vista come nobile azione di colui il quale agisce tutelando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, quanto piuttosto una conferma del fatto che la corruzione impera nelle maglie della pubblica amministrazione. Paradossalmente, all’aumentare del numero o dei casi di denuncia da whistleblower, aumenterebbe la percezione pubblica di un apparato amministrativo ed economico corrotto e non funzionante.

A ciò si aggiungerebbe una circostanza di non poco rilievo e cioè il fatto che spesso il whistleblower, in senso stretto, è anche uno dei soggetti che ha concorso all’evento fraudolento e quindi, a prescindere dall’operoso ravvedimento – sempre tardivo – è anche colui il quale reca con sé la macchia del reato. Questa circostanza, ad esempio, nella cultura giuridica nostrana ha notevoli difficoltà ad essere accettata, dimostrazione ne è che la norma sopra citata, a proposito del whistleblower italiano, afferma: “…condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”. È del tutto evidente che il concorrente nel reato non ha alcun incentivo a soffiare nel fischietto.

Ma la prospettiva andrebbe, ovviamente, ribaltata.

Ne è testimonianza una recentissima e breve analisi finlandese, compiuta dall’Institute for Economies in Transition della Bank of Filand, dal titolo “Effectiveness of whistleblower laws in combating corruption”, sulla legislazione americana[3]. Lo studio parte dalla constatazione che la figura del whistleblower, fino a pochi anni or sono solo appannaggio di chi lavora nel settore dell’anticorruzione, è salita all’attenzione pubblica proprio per un caso emerso all’interno della rete internet, ossia Wikileaks. Certamente Wikileaks ha rappresentato, e rappresenta, un fenomeno complesso sotto diversi aspetti, ma alla genesi di esso c’è proprio il whistle blowing, inteso come l’attività di colui che dichiara pubblicamente semplici fatti occulti di cui sia venuto a conoscenza, spesso anche a prescindere da una loro rilevanza sotto il profilo giuridico, verso i quali occorre tuttavia procedere attraverso un procedimento di verifica sulla veridicità e fondatezza. Comunque nel recentissimo periodo gli stati membri della federazione americana hanno notevolmente incrementato la legislazione in materia, fino a coprire il 90% dell’intero territorio statunitense[4]. Tuttavia, ed è questo l’aspetto interessante dell’analisi finlandese, la legislazione statale da sola non sembra rappresentare un serio deterrente alla corruzione. È  invece necessario implementare una strategia più ampia per creare una consapevolezza dell’esistenza di una specifica legislazione in materia di corruzione. Ancor di più, l’analisi nord europea mette in evidenza come internet possa essere lo strumento più idoneo per rendere effettiva ed efficace la consapevolezza dell’esistenza di una legislazione specifica in materia di frodi e di corruzione, tanto più dell’esistenza di una legge in materia di whistleblower.

È verosimile infatti che la legislazione in materia di whistleblower sia indotta e guidata dall’attività anticorruzione presente nel territorio, ad esempio attraverso i media, i convegni, l’interesse a livello accademico (corsi universitari, momenti di studio e seminari), favorendo un ampio dibattito pubblico anche attraverso blogs. Maggiore sarà l’accesso ad internet ed il suo uso e maggiore sarà l’interesse per la materia, numerose saranno le informazioni condivise e le esperienze raccontate. Al contrario, un basso livello di conoscenza o di conoscibilità, darebbe luogo ad una scarsa attenzione alla materia e quindi ad un aumento, o non diminuzione, del fenomeno fraudolento. Non a caso i noti motori di ricerca vengono normalmente utilizzati per effettuare delle verifiche in materia di anti-corruzione.

Non abbiamo certezza di quale sia lo strumento normativo più idoneo a contrastare il fenomeno delle frodi amministrative e private, ma non possiamo trascurare il fatto che tale strumento non può prescindere da una maturazione culturale, anche attraverso la condivisione di culture giuridiche storicamente diverse.

[1] Ci si riferisce all’istituto giuridico americano della “qui tam” action prevista nel False Claim Act.

[2] «Art. 54-bis. - (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). - 1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

2. Nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato.

3. L'adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.

4. La denuncia è sottratta all'accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.»

[3] Lo studio è reperibile al seguente link: http://www.suomenpankki.fi/bofit_en/tutkimus/tutkimusjulkaisut/dp/Pages/default.aspx .

[4] Come è nella tradizione giuridica statunitense ogni stato ha una sua legislazione per cui anche tali norme non sono tutte uguali negli stati della federazione.