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SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali

[Estratto dal libro "SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali" scaricabile gratuitamente dal sito di Filodiritto Editore]

Parte I

Parte II

7) Continua: l’intenzionalità della condotta di abuso

L’elemento psicologico del reato costituisce uno degli aspetti più controversi della riforma operata con la legge n. 234 del 1997, che, per la prima volta nella storia dell’ordinamento giuridico italiano, ha espressamente previsto, mediante l’utilizzo dell’avverbio “intenzionalmente” [1], il dolo generico intenzionale, figura sino a quel momento solo elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nella quale l’evento del reato è perseguito quale lo scopo finale della condotta[2].

Come si desume in modo palese dal dibattito parlamentare, l’obiettivo perseguito dal legislatore con l’utilizzazione di quella locuzione, certamente non pleonastica o ridondante, è stato di limitare, con l’elevare l’intensità del dolo richiesto per l’integrazione del reato, la sfera di operatività della norma ad ipotesi prefissate in modo tassativo, «nella prospettiva di non penalizzare in via residuale ogni attività amministrativa, soltanto perché la stessa si presenti viziata da violazione di legge o di regolamento», in modo da escludere la rilevanza penale «di attività e prassi amministrative contra ius, scelte come mezzo per il raggiungimento di uno scopo ritenuto meritevole», che restano, invece, sottoposte unicamente al sindacato del giudice amministrativo[3].

La novità introdotta dal legislatore comporta che, poiché la struttura dell’abuso di ufficio è stata trasformata da reato di pura condotta a dolo specifico, come era nella precedente formulazione, in reato di evento, l’elemento soggettivo ora richiesto assume una connotazione articolata e complessa, perché è generico con riferimento alla condotta, consistendo nella coscienza e nella volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l’obbligo di astensione, nello svolgimento della pubblica funzione o del pubblico servizio; ed è intenzionale rispetto all’evento ingiusto di vantaggio patrimoniale o di danno[4], che deve essere voluto dal reo come lo scopo primario e finale della propria condotta illegittima[5].

Avendo incentrato oggettivamente il disvalore della fattispecie incriminatrice sul verificarsi dell’evento ingiusto, l’art. 323 codice penale impone dal punto di vista dell’elemento soggettivo, che il soggetto agisca proprio per perseguire l’evento contra ius normativamente previsto in modo alternativo[6], e, cioè, che l’agente abbia una volontà diretta univocamente verso tale risultato, che è lo scopo, il fine precipuo, l’obiettivo mirato da lui perseguito con la sua condotta[7].

Il pubblico amministratore, pertanto, deve agire con la coscienza e la volontà di fare un uso non legittimo dei poteri inerenti alla funzione o al servizio svolto, per procurare o un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto per altri, che deve essere lo scopo perseguito in via primaria, diretta ed immediata[8], anche se non in via esclusiva[9].

Appare, così, non del tutto razionale la scelta del legislatore del 1997 di aver richiesto per l’integrazione del reato una forma particolarmente grave di dolo, che di per sé esprime una forte ribellione alla legalità da parte del pubblico amministratore; e nello stesso tempo di aver abbassato considerevolmente i limiti edittali, portandoli dalla pena compresa tra i due e i cinque anni di reclusione, prevista dall’art. 13 della legge n. 86 del 1990 nell’ipotesi di cui al II comma dell’art. 323 codice penale, che il fatto fosse stato «commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale»; ad una pena compresa tra i sei mesi ed i tre anni di reclusione, aumentabile di un terzo nel caso ricorra la circostanza aggravante che il vantaggio o il danno abbiano «un carattere di rilevante gravità».

Per effetto delle pene previste, la legge n. 234 del 1997 non ha più consentito, per le indagini in materia di abuso d’ufficio, né l’utilizzazione del mezzo investigativo delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre telecomunicazioni anche informatiche o telematiche, che è di estrema importanza per ricostruire gli effettivi rapporti intercorrenti tra il pubblico amministratore ed il soggetto privato, indebitamente favorito o discriminato dal primo; né la possibilità di adottare adeguate misure coercitive, pur in presenza di esigenze cautelari e di gravi indizi di reità, prevedendo esclusivamente il ricorso alla misura interdittiva della sospensione dalle funzioni o dal servizio per la durata non superiore a due mesi, adottabile da parte del Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero, dopo aver interrogato l’indagato, secondo una forma di garanzia del diritto di difesa dell’indagato introdotta unicamente in favore dei pubblici amministratori.

L’incongruenza tra l’accentuata intensità del dolo richiesto per l’integrazione della fattispecie in esame e il complesso sanzionatorio previsto è stata, in parte, colmata dall’art. 1, comma 75 lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190, che ha elevato la pena stabilita per l’ipotesi semplice, portandola da un minimo di un anno ad un massimo di quattro anni di reclusione, così da consentire l’adozione anche delle misure coercitive, qualora ricorrano, nel caso concreto, i gravi indizi di reità e le esigenze cautelari stabiliti dagli artt. 273 e ss. codice di procedura penale, ma mantenendo fermo il divieto delle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, che l’art. 266, I comma lettera b), codice di procedura penale consente soltanto per i delitti contro la pubblica amministrazione «per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4» codice di procedura penale, ossia senza tenere conto dell’aumento di pena previsto per le circostanze generiche.

Dopo aver fatto questa precisazione, per evitare possibili fraintendimenti in tema di elemento soggettivo, appare d’uopo chiarire, in primo luogo, che il pubblico amministratore può addurre, per escludere la sussistenza del dolo nel reato qui analizzato, «l’ignoranza di circostanze di fatto, anche attinenti all’ufficio, ma non già quella delle norme che regolano lo svolgimento delle proprie funzioni»[10] per la regola fondamentale nell’ordinamento giuridico italiano «secondo cui la mancata o erronea conoscenza della disciplina che regola la materia non può essere addotta da chi svolga professionalmente una determinata attività»[11]. Tali norme, perciò, devono considerarsi «implicitamente richiamate dalla legge penale ad integrazione dell’ipotesi criminosa, per cui la non conoscenza delle stesse sarebbe relativa alla suddetta legge, e quindi irrilevante»[12].

Ai sensi, infatti, dell’art. 47 codice penale, «legge diversa dalla penale è quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale o da questa non richiamata anche implicitamente», cosicché, «deve essere considerato errore sulla legge penale, e quindi inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche di diritto, introdotte nella norma penale a integrazione della fattispecie criminosa». Questo avviene certamente con le disposizioni legislative regolanti l’operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblici servizi, che non possono avere «natura di norme extrapenali, poiché l’art. 323 codice penale, obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio del pubblico ufficio, recepisce, anche se in modo non recettizio, le regole riguardanti l’attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio»[13].

Chiarito questo aspetto, si deve rilevare che giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che l’avverbio «intenzionalmente» è, in buona sostanza, un rafforzativo del dolo generico, enunciato per escludere la configurabilità del reato, per difetto dell’elemento soggettivo, non solo se si è in presenza di dolo eventuale[14], connotato dalla accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, che si rappresenta in termini di mera possibilità di un determinato risultato quale conseguenza di una determinata condotta[15]; ma anche in presenza del dolo diretto, «caratterizzato dalla rappresentazione dell’evento come verificabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, ma non come obiettivo perseguito. Per l’integrazione del reato, è, invece, richiesto il dolo intenzionale, inteso come rappresentazione e volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui), quale conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito»[16], ossia che «l’agente abbia avuto di mira uno degli elementi tipici presi in considerazione dalla norma, alternativamente o congiuntamente, cioè l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o altri e/o il danno ingiusto per altri»[17].

Così concepita, è evidente che l’intenzionalità restringe notevolmente il campo di applicazione della norma incriminatrice, perché rende penalmente punibili esclusivamente quelle condotte ispirate, in via immediata, dalla prava voluntas del favoritismo privatistico o della discriminazione arbitraria, e che sono proiettate ad assicurare ed assicurano la realizzazione di tali eventi, venendo, in particolare, richiesto «un acclarato e provato grado di partecipazione dell’agente al reato, commisurabile sia al quantum del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso, essendosi voluto escludere l’evocazione del dolus in re ipsa, connesso alla mera illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»[18].

Intenzionalità, però, «non significa esclusività del fine che deve animare l’agente, ma preminenza data all’evento tipico rispetto al pur concorrente interesse pubblico, che finisce con l’assumere un rilievo secondario e, per così dire, “derivato” o “accessorio”[19].

Si è, così, affermato, in un’ipotesi di abuso di ufficio relativa all’affidamento di incarichi di progettazione preliminare a professionisti esterni all’amministrazione comunale, per l’avvio di appalti per la realizzazione di opere di riqualificazione urbana finanziate con fondi comunitari, che «l’intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale»[20].

Portando sino alle estreme conseguenze questi principi, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che «se il detto evento tipico è una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente che persegue, invece, in via primaria, l’obiettivo dell’interesse pubblico», difetta il dolo intenzionale, in quanto l’evento tipico, pur essendo certamente voluto, non può dirsi intenzionale, occupando una posizione defilata e rappresentando soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere per perseguire l’interesse pubblico, che in realtà occupa «una posizione di supremazia nella mente del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio), al quale l’ordinamento affida effettivamente la cura di quell’interesse pubblico»[21].

Per evitare il rischio di confrontarsi con inafferrabili motivazioni interne al reo, la Corte ha precisato che, poiché «violare la legge col risultato consapevole di recare un ingiusto vantaggio è di regola un favoritismo, l’elemento volontario del privilegio così reso può ritenersi recessivo a condizione che la stessa legge indichi come meritevole in grado primario il concomitante fine» pubblico perseguito «e in questo senso orienti il giudice a declassare a evento voluto, ma non intenzionale, il vantaggio recato»[22].

Purché «non sia acquisito un rapporto personalistico tra l’agente ed il beneficiato, tale da ricondurre a pretesto il perseguimento (…) del fine pubblico», deve trattarsi, ha sottolineato la Cassazione, di un interesse pubblico «di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo privato, degradato ad elemento privo di valenza penale», con l’effetto che non hanno alcun rilievo: - il “fine privato, per quanto lecito”; - il fine collettivo; - il fine privato di un ente pubblico; - il fine politico, «il quale per definizione non ha ancora trovato una collocazione positiva, pur quando, si intende, esso sia ben invocato e non corrisponda invece, come spesso è dato riscontrare, a fini personali di soggetti cd. politici»[23].

Seguendo tale indirizzo, la Corte ha ritenuto non responsabile del reato di cui all’art. 323 codice penale l’amministratore di un Comune che aveva procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ad un imprenditore rilasciandogli un certificato di abitabilità e di agibilità di un complesso turistico, in violazione delle norme in materia urbanistica e sanitaria, che imponevano il previo rilascio di concessione edilizia in sanatoria, subordinata a nulla osta ambientale. E ciò sul rilievo che tale amministratore, così facendo, aveva perseguito il fine pubblico dello sviluppo del turismo di quel Comune, avendo adottato delle decisioni che non erano frutto di un collegamento personale tra lui ed i titolari del complesso beneficiato e che comunque avevano ad oggetto una situazione nella quale tale complesso turistico si trovava che era comune praticamente a tutti i villaggi turistici della zona[24].

Per cercare di meglio definire la portata della norma incriminatrice, la Cassazione ha elaborato un canovaccio degli elementi sintomatici dai quali è desumibile il dolo intenzionale richiesto, partendo dall’osservazione che, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 323 codice penale, «assume rilievo non solo l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale singolarmente valutato, ma altresì ogni altro elemento che, apparentemente estrinseco all’atto o al comportamento, consenta comunque una verifica maggiormente significativa e, pertanto, anche gli atteggiamenti antecedenti, contestuali e successivi all’attività che di per sé realizza l’abuso»[25].

La Corte ha sostenuto che i criteri di individuazione dell’intenzionalità della condotta illecita si possono far consistere: «a) nell’evidenza della violazione di legge, come tale perciò immediatamente riconoscibile dall’agente; b) nella specifica competenza professionale dell’agente, tale da rendergli anch’essa, senza possibile equivoco, riconoscibile la violazione; c) nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente o come manifestamente pretestuosa; d) nei rapporti personali accertati tra l’autore del reato e il soggetto che dal provvedimento illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale»[26], non venendo, però, richiesta la dimostrazione della collusione dell’amministratore pubblico «con i beneficiari dell’abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l’abuso dell’atto di ufficio»[27].

Si è, così affermato che, nel caso di abuso di ufficio consistente nell’illegittimo rilascio di una concessione edilizia, è esente da vizio di motivazione la sentenza che desuma la sussistenza della consapevole e concertata intenzione di porre in essere un comportamento illegittimo nell’interesse altrui, dalla macroscopicità della violazione edilizia, dalla competenza professionale dell’imputato quale ingegnere, dai pregressi rapporti intercorsi tra le parti relativi alla costruzione di un muro che doveva essere di cinta ma che aveva assunto fin dall’inizio le caratteristiche di muro di sostegno, dalle modalità, estremamente veloci ed in ore notturne, di effettuazione della costruzione, dall’abnorme comportamento del pubblico amministratore «che, annullata una precedente concessione poiché l’immobile ricadeva in zona preclusa, rilasciava tuttavia una nuova concessione»[28].

8) Continua: consumazione e concorso di persone

Venendo al momento consumativo del reato, si rileva che, a differenza dell’art. 323 c.p. previgente, il legislatore del 1997 ha configurato l’abuso di ufficio come fattispecie non più di pericolo ma di danno, in quanto richiede, per la sua consumazione, che venga effettivamente procurato a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato ad altri un danno ingiusto[29], “quali conseguenza della condotta tipica”[30], “così da spostare in avanti la realizzazione della fattispecie”[31], con l’ulteriore effetto di far decorrere il termine di prescrizione dalla realizzazione di uno degli eventi ingiusti previsti[32].

Essendo un reato di evento, l’abuso d’ufficio si materializza istantaneamente con la realizzazione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto[33], che “devono essere specificamente voluti dallo stesso agente e debbono essere posti in essere in rapporti di diretta, ancorchè non esclusiva, derivazione dalla violazione di norme ovvero dalla violazione del divieto di astensione”[34], con l’effetto che il tentativo è ipotizzabile in relazione alla condotta abusiva che non riesca a produrre uno dei due eventi ingiusti per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, qualora ricorrano “tutti i presupposti e le condizioni di cui all’art. 56 c.p.”[35].

Le due ipotesi alternative di evento ingiusto si caratterizzano in senso naturalistico, perché devono essere il risultato giuridicamente rilevante prodotto dalla condotta abusiva ad essi causalmente orientata, che si pone come un quid esterno al soggetto agente ed incidente sulla realtà fenomenica.

Dal punto di vista sistematico si deve sottolineare che tale evento ingiusto, che è un requisito di illiceità speciale, esprime il disvalore su cui si incentra la dimensione lesiva della fattispecie[36], in modo da rispettare il principio di materialità per il quale “il fatto tipico, per corrispondere all’esigenza di discriminare in termini di rigorosa certezza tra la sfera del penalmente rilevante e quella del penalmente irrilevante, dovrebbe essere costituito soltanto da elementi obiettivi, perché soltanto il riferimento ad una realtà esterna può assicurare un tale risultato”[37].

Con la modifica della previsione normativa in termini di reato di evento, si è certamente rimediato all’aspetto più criticato delle figure del reato di abuso di ufficio contenute tanto nel codice Rocco quanto nella legge n. 86 del 1990, che, trovando l’ostilità della dottrina più sensibile alle esigenze di garanzia delle libertà individuali, fondavano l’antigiuridicità essenzialmente sul dolo specifico, ossia sullo scopo di recare a sè o ad altri u

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Parte I

Parte II

7) Continua: l’intenzionalità della condotta di abuso

L’elemento psicologico del reato costituisce uno degli aspetti più controversi della riforma operata con la legge n. 234 del 1997, che, per la prima volta nella storia dell’ordinamento giuridico italiano, ha espressamente previsto, mediante l’utilizzo dell’avverbio “intenzionalmente” [1], il dolo generico intenzionale, figura sino a quel momento solo elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nella quale l’evento del reato è perseguito quale lo scopo finale della condotta[2].

Come si desume in modo palese dal dibattito parlamentare, l’obiettivo perseguito dal legislatore con l’utilizzazione di quella locuzione, certamente non pleonastica o ridondante, è stato di limitare, con l’elevare l’intensità del dolo richiesto per l’integrazione del reato, la sfera di operatività della norma ad ipotesi prefissate in modo tassativo, «nella prospettiva di non penalizzare in via residuale ogni attività amministrativa, soltanto perché la stessa si presenti viziata da violazione di legge o di regolamento», in modo da escludere la rilevanza penale «di attività e prassi amministrative contra ius, scelte come mezzo per il raggiungimento di uno scopo ritenuto meritevole», che restano, invece, sottoposte unicamente al sindacato del giudice amministrativo[3].

La novità introdotta dal legislatore comporta che, poiché la struttura dell’abuso di ufficio è stata trasformata da reato di pura condotta a dolo specifico, come era nella precedente formulazione, in reato di evento, l’elemento soggettivo ora richiesto assume una connotazione articolata e complessa, perché è generico con riferimento alla condotta, consistendo nella coscienza e nella volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l’obbligo di astensione, nello svolgimento della pubblica funzione o del pubblico servizio; ed è intenzionale rispetto all’evento ingiusto di vantaggio patrimoniale o di danno[4], che deve essere voluto dal reo come lo scopo primario e finale della propria condotta illegittima[5].

Avendo incentrato oggettivamente il disvalore della fattispecie incriminatrice sul verificarsi dell’evento ingiusto, l’art. 323 codice penale impone dal punto di vista dell’elemento soggettivo, che il soggetto agisca proprio per perseguire l’evento contra ius normativamente previsto in modo alternativo[6], e, cioè, che l’agente abbia una volontà diretta univocamente verso tale risultato, che è lo scopo, il fine precipuo, l’obiettivo mirato da lui perseguito con la sua condotta[7].

Il pubblico amministratore, pertanto, deve agire con la coscienza e la volontà di fare un uso non legittimo dei poteri inerenti alla funzione o al servizio svolto, per procurare o un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto per altri, che deve essere lo scopo perseguito in via primaria, diretta ed immediata[8], anche se non in via esclusiva[9].

Appare, così, non del tutto razionale la scelta del legislatore del 1997 di aver richiesto per l’integrazione del reato una forma particolarmente grave di dolo, che di per sé esprime una forte ribellione alla legalità da parte del pubblico amministratore; e nello stesso tempo di aver abbassato considerevolmente i limiti edittali, portandoli dalla pena compresa tra i due e i cinque anni di reclusione, prevista dall’art. 13 della legge n. 86 del 1990 nell’ipotesi di cui al II comma dell’art. 323 codice penale, che il fatto fosse stato «commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale»; ad una pena compresa tra i sei mesi ed i tre anni di reclusione, aumentabile di un terzo nel caso ricorra la circostanza aggravante che il vantaggio o il danno abbiano «un carattere di rilevante gravità».

Per effetto delle pene previste, la legge n. 234 del 1997 non ha più consentito, per le indagini in materia di abuso d’ufficio, né l’utilizzazione del mezzo investigativo delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre telecomunicazioni anche informatiche o telematiche, che è di estrema importanza per ricostruire gli effettivi rapporti intercorrenti tra il pubblico amministratore ed il soggetto privato, indebitamente favorito o discriminato dal primo; né la possibilità di adottare adeguate misure coercitive, pur in presenza di esigenze cautelari e di gravi indizi di reità, prevedendo esclusivamente il ricorso alla misura interdittiva della sospensione dalle funzioni o dal servizio per la durata non superiore a due mesi, adottabile da parte del Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero, dopo aver interrogato l’indagato, secondo una forma di garanzia del diritto di difesa dell’indagato introdotta unicamente in favore dei pubblici amministratori.

L’incongruenza tra l’accentuata intensità del dolo richiesto per l’integrazione della fattispecie in esame e il complesso sanzionatorio previsto è stata, in parte, colmata dall’art. 1, comma 75 lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190, che ha elevato la pena stabilita per l’ipotesi semplice, portandola da un minimo di un anno ad un massimo di quattro anni di reclusione, così da consentire l’adozione anche delle misure coercitive, qualora ricorrano, nel caso concreto, i gravi indizi di reità e le esigenze cautelari stabiliti dagli artt. 273 e ss. codice di procedura penale, ma mantenendo fermo il divieto delle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, che l’art. 266, I comma lettera b), codice di procedura penale consente soltanto per i delitti contro la pubblica amministrazione «per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4» codice di procedura penale, ossia senza tenere conto dell’aumento di pena previsto per le circostanze generiche.

Dopo aver fatto questa precisazione, per evitare possibili fraintendimenti in tema di elemento soggettivo, appare d’uopo chiarire, in primo luogo, che il pubblico amministratore può addurre, per escludere la sussistenza del dolo nel reato qui analizzato, «l’ignoranza di circostanze di fatto, anche attinenti all’ufficio, ma non già quella delle norme che regolano lo svolgimento delle proprie funzioni»[10] per la regola fondamentale nell’ordinamento giuridico italiano «secondo cui la mancata o erronea conoscenza della disciplina che regola la materia non può essere addotta da chi svolga professionalmente una determinata attività»[11]. Tali norme, perciò, devono considerarsi «implicitamente richiamate dalla legge penale ad integrazione dell’ipotesi criminosa, per cui la non conoscenza delle stesse sarebbe relativa alla suddetta legge, e quindi irrilevante»[12].

Ai sensi, infatti, dell’art. 47 codice penale, «legge diversa dalla penale è quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale o da questa non richiamata anche implicitamente», cosicché, «deve essere considerato errore sulla legge penale, e quindi inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche di diritto, introdotte nella norma penale a integrazione della fattispecie criminosa». Questo avviene certamente con le disposizioni legislative regolanti l’operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblici servizi, che non possono avere «natura di norme extrapenali, poiché l’art. 323 codice penale, obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio del pubblico ufficio, recepisce, anche se in modo non recettizio, le regole riguardanti l’attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio»[13].

Chiarito questo aspetto, si deve rilevare che giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che l’avverbio «intenzionalmente» è, in buona sostanza, un rafforzativo del dolo generico, enunciato per escludere la configurabilità del reato, per difetto dell’elemento soggettivo, non solo se si è in presenza di dolo eventuale[14], connotato dalla accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, che si rappresenta in termini di mera possibilità di un determinato risultato quale conseguenza di una determinata condotta[15]; ma anche in presenza del dolo diretto, «caratterizzato dalla rappresentazione dell’evento come verificabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, ma non come obiettivo perseguito. Per l’integrazione del reato, è, invece, richiesto il dolo intenzionale, inteso come rappresentazione e volizione dell’evento di danno (altrui) o di vantaggio patrimoniale (proprio o altrui), quale conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente ed obiettivo primario da costui perseguito»[16], ossia che «l’agente abbia avuto di mira uno degli elementi tipici presi in considerazione dalla norma, alternativamente o congiuntamente, cioè l’ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o altri e/o il danno ingiusto per altri»[17].

Così concepita, è evidente che l’intenzionalità restringe notevolmente il campo di applicazione della norma incriminatrice, perché rende penalmente punibili esclusivamente quelle condotte ispirate, in via immediata, dalla prava voluntas del favoritismo privatistico o della discriminazione arbitraria, e che sono proiettate ad assicurare ed assicurano la realizzazione di tali eventi, venendo, in particolare, richiesto «un acclarato e provato grado di partecipazione dell’agente al reato, commisurabile sia al quantum del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso, essendosi voluto escludere l’evocazione del dolus in re ipsa, connesso alla mera illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio»[18].

Intenzionalità, però, «non significa esclusività del fine che deve animare l’agente, ma preminenza data all’evento tipico rispetto al pur concorrente interesse pubblico, che finisce con l’assumere un rilievo secondario e, per così dire, “derivato” o “accessorio”[19].

Si è, così, affermato, in un’ipotesi di abuso di ufficio relativa all’affidamento di incarichi di progettazione preliminare a professionisti esterni all’amministrazione comunale, per l’avvio di appalti per la realizzazione di opere di riqualificazione urbana finanziate con fondi comunitari, che «l’intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l’obiettivo principale dell’agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale»[20].

Portando sino alle estreme conseguenze questi principi, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare che «se il detto evento tipico è una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente che persegue, invece, in via primaria, l’obiettivo dell’interesse pubblico», difetta il dolo intenzionale, in quanto l’evento tipico, pur essendo certamente voluto, non può dirsi intenzionale, occupando una posizione defilata e rappresentando soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere per perseguire l’interesse pubblico, che in realtà occupa «una posizione di supremazia nella mente del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio), al quale l’ordinamento affida effettivamente la cura di quell’interesse pubblico»[21].

Per evitare il rischio di confrontarsi con inafferrabili motivazioni interne al reo, la Corte ha precisato che, poiché «violare la legge col risultato consapevole di recare un ingiusto vantaggio è di regola un favoritismo, l’elemento volontario del privilegio così reso può ritenersi recessivo a condizione che la stessa legge indichi come meritevole in grado primario il concomitante fine» pubblico perseguito «e in questo senso orienti il giudice a declassare a evento voluto, ma non intenzionale, il vantaggio recato»[22].

Purché «non sia acquisito un rapporto personalistico tra l’agente ed il beneficiato, tale da ricondurre a pretesto il perseguimento (…) del fine pubblico», deve trattarsi, ha sottolineato la Cassazione, di un interesse pubblico «di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo privato, degradato ad elemento privo di valenza penale», con l’effetto che non hanno alcun rilievo: - il “fine privato, per quanto lecito”; - il fine collettivo; - il fine privato di un ente pubblico; - il fine politico, «il quale per definizione non ha ancora trovato una collocazione positiva, pur quando, si intende, esso sia ben invocato e non corrisponda invece, come spesso è dato riscontrare, a fini personali di soggetti cd. politici»[23].

Seguendo tale indirizzo, la Corte ha ritenuto non responsabile del reato di cui all’art. 323 codice penale l’amministratore di un Comune che aveva procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ad un imprenditore rilasciandogli un certificato di abitabilità e di agibilità di un complesso turistico, in violazione delle norme in materia urbanistica e sanitaria, che imponevano il previo rilascio di concessione edilizia in sanatoria, subordinata a nulla osta ambientale. E ciò sul rilievo che tale amministratore, così facendo, aveva perseguito il fine pubblico dello sviluppo del turismo di quel Comune, avendo adottato delle decisioni che non erano frutto di un collegamento personale tra lui ed i titolari del complesso beneficiato e che comunque avevano ad oggetto una situazione nella quale tale complesso turistico si trovava che era comune praticamente a tutti i villaggi turistici della zona[24].

Per cercare di meglio definire la portata della norma incriminatrice, la Cassazione ha elaborato un canovaccio degli elementi sintomatici dai quali è desumibile il dolo intenzionale richiesto, partendo dall’osservazione che, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 323 codice penale, «assume rilievo non solo l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale singolarmente valutato, ma altresì ogni altro elemento che, apparentemente estrinseco all’atto o al comportamento, consenta comunque una verifica maggiormente significativa e, pertanto, anche gli atteggiamenti antecedenti, contestuali e successivi all’attività che di per sé realizza l’abuso»[25].

La Corte ha sostenuto che i criteri di individuazione dell’intenzionalità della condotta illecita si possono far consistere: «a) nell’evidenza della violazione di legge, come tale perciò immediatamente riconoscibile dall’agente; b) nella specifica competenza professionale dell’agente, tale da rendergli anch’essa, senza possibile equivoco, riconoscibile la violazione; c) nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente o come manifestamente pretestuosa; d) nei rapporti personali accertati tra l’autore del reato e il soggetto che dal provvedimento illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale»[26], non venendo, però, richiesta la dimostrazione della collusione dell’amministratore pubblico «con i beneficiari dell’abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l’abuso dell’atto di ufficio»[27].

Si è, così affermato che, nel caso di abuso di ufficio consistente nell’illegittimo rilascio di una concessione edilizia, è esente da vizio di motivazione la sentenza che desuma la sussistenza della consapevole e concertata intenzione di porre in essere un comportamento illegittimo nell’interesse altrui, dalla macroscopicità della violazione edilizia, dalla competenza professionale dell’imputato quale ingegnere, dai pregressi rapporti intercorsi tra le parti relativi alla costruzione di un muro che doveva essere di cinta ma che aveva assunto fin dall’inizio le caratteristiche di muro di sostegno, dalle modalità, estremamente veloci ed in ore notturne, di effettuazione della costruzione, dall’abnorme comportamento del pubblico amministratore «che, annullata una precedente concessione poiché l’immobile ricadeva in zona preclusa, rilasciava tuttavia una nuova concessione»[28].

8) Continua: consumazione e concorso di persone

Venendo al momento consumativo del reato, si rileva che, a differenza dell’art. 323 c.p. previgente, il legislatore del 1997 ha configurato l’abuso di ufficio come fattispecie non più di pericolo ma di danno, in quanto richiede, per la sua consumazione, che venga effettivamente procurato a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato ad altri un danno ingiusto[29], “quali conseguenza della condotta tipica”[30], “così da spostare in avanti la realizzazione della fattispecie”[31], con l’ulteriore effetto di far decorrere il termine di prescrizione dalla realizzazione di uno degli eventi ingiusti previsti[32].

Essendo un reato di evento, l’abuso d’ufficio si materializza istantaneamente con la realizzazione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto[33], che “devono essere specificamente voluti dallo stesso agente e debbono essere posti in essere in rapporti di diretta, ancorchè non esclusiva, derivazione dalla violazione di norme ovvero dalla violazione del divieto di astensione”[34], con l’effetto che il tentativo è ipotizzabile in relazione alla condotta abusiva che non riesca a produrre uno dei due eventi ingiusti per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente, qualora ricorrano “tutti i presupposti e le condizioni di cui all’art. 56 c.p.”[35].

Le due ipotesi alternative di evento ingiusto si caratterizzano in senso naturalistico, perché devono essere il risultato giuridicamente rilevante prodotto dalla condotta abusiva ad essi causalmente orientata, che si pone come un quid esterno al soggetto agente ed incidente sulla realtà fenomenica.

Dal punto di vista sistematico si deve sottolineare che tale evento ingiusto, che è un requisito di illiceità speciale, esprime il disvalore su cui si incentra la dimensione lesiva della fattispecie[36], in modo da rispettare il principio di materialità per il quale “il fatto tipico, per corrispondere all’esigenza di discriminare in termini di rigorosa certezza tra la sfera del penalmente rilevante e quella del penalmente irrilevante, dovrebbe essere costituito soltanto da elementi obiettivi, perché soltanto il riferimento ad una realtà esterna può assicurare un tale risultato”[37].

Con la modifica della previsione normativa in termini di reato di evento, si è certamente rimediato all’aspetto più criticato delle figure del reato di abuso di ufficio contenute tanto nel codice Rocco quanto nella legge n. 86 del 1990, che, trovando l’ostilità della dottrina più sensibile alle esigenze di garanzia delle libertà individuali, fondavano l’antigiuridicità essenzialmente sul dolo specifico, ossia sullo scopo di recare a sè o ad altri u