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CEDU: Enti pubblici in dissesto, più garanzie dall'Italia

Con le sentenze del 24 settembre 2013 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha affrontato una questione molto interessante. La Corte è stata adita da due cittadini italiani che, pur avendo conseguito sentenze passate in giudicato, rispettivamente, il 9 maggio 2004 e il 22 marzo 2003, che li riconoscevano creditori nei confronti del Comune di Benevento a seguito di azioni risarcitorie, non hanno potuto intraprendere l’azione esecutiva delle conseguenti condanne.

Infatti, nel dicembre del 1993, pendenti i giudizi, era intervenuta la dichiarazione di dissesto finanziario dell’ente pubblico. La gestione del risanamento del Comune era stata affidata all'organismo straordinario di liquidazione.

Com’è noto, l’articolo 248, secondo comma, del Testo Unico degli Enti locali stabilisce che: “Dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'articolo 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell'ente per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per l'opposizione giudiziale da parte dell'ente, o la stessa benché proposta è stata rigettata, sono dichiarate estinte d'ufficio dal giudice con inserimento nella massa passiva dell'importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese.”

Tale disciplina normativa è finalizzata a garantire la par condicio creditorum e a permettere l’effettivo risanamento dei conti dell’ente in dissesto.

Tuttavia, nei casi sottoposti alla CEDU i giudizi di risarcimento del danno sono stati molto lunghi, come, del resto, la procedura di risanamento dei conti del Comune. In questo lasso di tempo, dunque, come rilevato dai ricorrenti, è stato impedito loro di porre in esecuzione le sentenze definitive e di accedere al Tribunale, con conseguente violazione dell’articolo 6 § 1 delle Convenzione Europea dei diritti per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Inoltre, i ricorrenti lamentano anche la violazione dell'articolo 1 del Protocollo 1 della Convezione, posto a tutela della proprietà. Tale disposizione, infatti, stabilisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

A ciò si aggiunga la violazione dell'articolo 13 della citata Convenzione in base al quale “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

A fronte di tali doglianze lo Stato italiano nelle proprie difese ha affermato che nei casi di specie non potesse trovare applicazione l'articolo 13 e che alcuna violazione dell'articolo 1 Protocollo 1 fosse configurabile in quanto il credito dei ricorrenti era stato ammesso al passivo. Inoltre, lo Stato ha ribadito la legittimità della limitazione all'accesso al Tribunale ex articolo 248, secondo comma TUEL in virtù del principio della par condicio creditorum.

La Corte ha accolto i ricorsi ritenendo che, nei casi di specie, sia stato violato il diritto sancito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione. Infatti, anche in precedenti pronunce, la Corte ha rilevato che tale diritto sarebbe vanificato se l’ordinamento interno di uno Stato contraente permettesse che una sentenza definitiva ed esecutiva, non potesse essere eseguita a danno di una parte. L’esecuzione di una sentenza pronunciata da un tribunale, deve essere considerata come facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’articolo 6 (Hornsby. Grecia, 19 Marzo, 1997, § 40, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997 II e Burdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, 15 gennaio 2009). Il diritto di accesso al Tribunale, poi, non è assoluto.

Infatti, la Corte ha ribadito che alcune limitazioni sono implicitamente ammesse, purché non restringano il citato diritto in modo o in misura tale da comprometterlo nella sua stessa sostanza. Inoltre, dette limitazioni sono compatibili con l'articolo 6 § 1, solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. (tra le tante si vedano Khalfaoui c . Francia, n. 34791/97, § § 35-36, CEDU 1999-IX, e Papon c. Francia, n. 54210/00, § 90, 25 luglio 2002, si veda anche il richiamo dei principi pertinenti in Fayed c. Regno Unito, 21 settembre 1994, § 65, serie A n. 294-B).

Ebbene, nei casi sottoposti all'esame della Corte la limitazione contestata, come correttamente osservato dallo Stato italiano, è finalizzata a perseguire il legittimo scopo di garantire la par condicio creditorum. Il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive nei confronti del Comune sancito dalla normativa italiana rimane in vigore fino alla chiusura del procedimento di risanamento. Tuttavia, la durata del procedimento sfugge al controllo del ricorrente.

Il Comune di Benevento è stato dichiarato in stato di dissesto nel dicembre del 1993 e la Corte non è stata informata in merito alla data di chiusura del procedimento.

Pertanto, i ricorrenti, che hanno ottenuto l'accertamento giudiziale definitivo dei propri crediti nel 2003 e nel 2004, sono stati privati del diritto di accesso al Tribunale, per un periodo troppo lungo. Agli occhi della Corte, non vi è proporzionalità tra il limite all'accesso al Tribunale e lo scopo perseguito.Vi è stata, quindi, una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo che assorbe gli altri motivi di ricorso.

In applicazione dell'articolo 41 della Convenzione, la Corte ha condannato lo Stato italiano a risarcire i ricorrenti per i danni subiti.

Con le sentenze del 24 settembre 2013 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha affrontato una questione molto interessante. La Corte è stata adita da due cittadini italiani che, pur avendo conseguito sentenze passate in giudicato, rispettivamente, il 9 maggio 2004 e il 22 marzo 2003, che li riconoscevano creditori nei confronti del Comune di Benevento a seguito di azioni risarcitorie, non hanno potuto intraprendere l’azione esecutiva delle conseguenti condanne.

Infatti, nel dicembre del 1993, pendenti i giudizi, era intervenuta la dichiarazione di dissesto finanziario dell’ente pubblico. La gestione del risanamento del Comune era stata affidata all'organismo straordinario di liquidazione.

Com’è noto, l’articolo 248, secondo comma, del Testo Unico degli Enti locali stabilisce che: “Dalla data della dichiarazione di dissesto e sino all'approvazione del rendiconto di cui all'articolo 256 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell'ente per i debiti che rientrano nella competenza dell'organo straordinario di liquidazione. Le procedure esecutive pendenti alla data della dichiarazione di dissesto, nelle quali sono scaduti i termini per l'opposizione giudiziale da parte dell'ente, o la stessa benché proposta è stata rigettata, sono dichiarate estinte d'ufficio dal giudice con inserimento nella massa passiva dell'importo dovuto a titolo di capitale, accessori e spese.”

Tale disciplina normativa è finalizzata a garantire la par condicio creditorum e a permettere l’effettivo risanamento dei conti dell’ente in dissesto.

Tuttavia, nei casi sottoposti alla CEDU i giudizi di risarcimento del danno sono stati molto lunghi, come, del resto, la procedura di risanamento dei conti del Comune. In questo lasso di tempo, dunque, come rilevato dai ricorrenti, è stato impedito loro di porre in esecuzione le sentenze definitive e di accedere al Tribunale, con conseguente violazione dell’articolo 6 § 1 delle Convenzione Europea dei diritti per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Inoltre, i ricorrenti lamentano anche la violazione dell'articolo 1 del Protocollo 1 della Convezione, posto a tutela della proprietà. Tale disposizione, infatti, stabilisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

A ciò si aggiunga la violazione dell'articolo 13 della citata Convenzione in base al quale “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

A fronte di tali doglianze lo Stato italiano nelle proprie difese ha affermato che nei casi di specie non potesse trovare applicazione l'articolo 13 e che alcuna violazione dell'articolo 1 Protocollo 1 fosse configurabile in quanto il credito dei ricorrenti era stato ammesso al passivo. Inoltre, lo Stato ha ribadito la legittimità della limitazione all'accesso al Tribunale ex articolo 248, secondo comma TUEL in virtù del principio della par condicio creditorum.

La Corte ha accolto i ricorsi ritenendo che, nei casi di specie, sia stato violato il diritto sancito dall’articolo 6 § 1 della Convenzione. Infatti, anche in precedenti pronunce, la Corte ha rilevato che tale diritto sarebbe vanificato se l’ordinamento interno di uno Stato contraente permettesse che una sentenza definitiva ed esecutiva, non potesse essere eseguita a danno di una parte. L’esecuzione di una sentenza pronunciata da un tribunale, deve essere considerata come facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’articolo 6 (Hornsby. Grecia, 19 Marzo, 1997, § 40, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997 II e Burdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 65, 15 gennaio 2009). Il diritto di accesso al Tribunale, poi, non è assoluto.

Infatti, la Corte ha ribadito che alcune limitazioni sono implicitamente ammesse, purché non restringano il citato diritto in modo o in misura tale da comprometterlo nella sua stessa sostanza. Inoltre, dette limitazioni sono compatibili con l'articolo 6 § 1, solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. (tra le tante si vedano Khalfaoui c . Francia, n. 34791/97, § § 35-36, CEDU 1999-IX, e Papon c. Francia, n. 54210/00, § 90, 25 luglio 2002, si veda anche il richiamo dei principi pertinenti in Fayed c. Regno Unito, 21 settembre 1994, § 65, serie A n. 294-B).

Ebbene, nei casi sottoposti all'esame della Corte la limitazione contestata, come correttamente osservato dallo Stato italiano, è finalizzata a perseguire il legittimo scopo di garantire la par condicio creditorum. Il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive nei confronti del Comune sancito dalla normativa italiana rimane in vigore fino alla chiusura del procedimento di risanamento. Tuttavia, la durata del procedimento sfugge al controllo del ricorrente.

Il Comune di Benevento è stato dichiarato in stato di dissesto nel dicembre del 1993 e la Corte non è stata informata in merito alla data di chiusura del procedimento.

Pertanto, i ricorrenti, che hanno ottenuto l'accertamento giudiziale definitivo dei propri crediti nel 2003 e nel 2004, sono stati privati del diritto di accesso al Tribunale, per un periodo troppo lungo. Agli occhi della Corte, non vi è proporzionalità tra il limite all'accesso al Tribunale e lo scopo perseguito.Vi è stata, quindi, una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo che assorbe gli altri motivi di ricorso.

In applicazione dell'articolo 41 della Convenzione, la Corte ha condannato lo Stato italiano a risarcire i ricorrenti per i danni subiti.