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Lavoratore e documentazione d'ufficio: condizioni per la legittima produzione in giudizio

Premessa

È consuetudine, normalmente seguita dal lavoratore nell’atto di sostenere le proprie pretese o diritti in un giudizio teso a rivendicare una qualifica superiore o volto a prospettare una illegittima dequalificazione e simili, quella di allegare documentazione d’ufficio, sia consistente in circolari e comunicazioni aziendali sia in propri elaborati approntati nel corso dell’attività svolta, di norma sottoscritti o firmati dal superiore o dal dirigente del servizio cui il lavoratore appartiene. Documentazione talora costituita da veri e propri originali estratti dall’archivio aziendale, talora da semplici fotocopie.

Conviene che l’orientamento giurisprudenziale, seppure in precedenza variegato su questo importante tema sia di pubblico dominio, affinché il lavoratore che ha trovato il coraggio di agire (e di reagire) giudizialmente in corso di rapporto avverso le inadempienze del proprio datore di lavoro, conosca come deve comportarsi e non si trovi esposto al rischio di una sanzione disciplinare che può dilatarsi fino al punto di privarlo dell’occupazione e cioè della fonte di sostentamento personale e familiare.

E di ciò si deve essere particolarmente edotti sia in linea generale sia eminentemente nel settore del credito, qui a causa della presenza di una giurisprudenza che, élitariamente e non sempre giustificatamente, a nostro avviso, pretende dal bancario un rapporto di più intensa fiducia, in dipendenza dei compiti (asseritamente più delicati) svolti dai prestatori all’interno dell’azienda di credito (piuttosto che in quelle industriali o commerciali) ovvero in ragione dell’asserita maggiore riservatezza delle informazioni che i bancari gestirebbero o con le quali verrebbero in contatto.

Il panorama giurisprudenziale in tema di allegazione in giudizio di documentazione d’ufficio

Sulla tematica va detto che l’esame comparativo della giurisprudenza della Cassazione evidenzia che la “quaestio iuris” se la produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata costituisca violazione del dovere di fedeltà, quindi sanzionabile, ovvero comportamento legittimo per finalità difensive in giudizio, risulta nel corso del tempo decisa in modo non uniforme di cui di seguito diamo analiticamente conto.

Un primo orientamento si è espresso per l’illegittimità di una tale produzione, in quanto la violazione dell’obbligo della riservatezza comporterebbe inevitabilmente la lesione dell’elemento fiduciario e può, quindi, integrare gli estremi della giusta causa (o giustificato motivo) di licenziamento (ex plurimis, Cassazione n. 2560 del 1993; Cassazione n. 4328 del 1996; Cassazione n. 6352 del 1998; Cassazione n. 13188 del 2001).

Questa impostazione restrittiva ritenne sussistente l’illiceità del comportamento del lavoratore sia che questi produca in giudizio “originali” di documenti sia “fotocopie” degli stessi, l’unica differenza consistendo, secondo il variegato orientamento giurisprudenziale, nel grado di intensità dell’illecito, tale da ripercuotersi sulla tipologia delle sanzioni dispiegabili (conservative o espulsive, a secondo dei casi).

Nella sentenza del Tribunale di Milano (che fu pienamente condivisa dall’orientamento intransigente e rigorista di Cassazione n. 2560/1993) venne asserito che: “si è molto discettato sulla distinzione tra asporto di fotocopie e asporto di originale. Il Collegio non ha difficoltà a riconoscere che l’estrazione di notizie mediante fotocopiatura è cosa diversa dall’asporto dell’originale e che la fotocopiatura arbitraria è certamente meno grave dell’asporto dell’originale. Si deve tuttavia riconoscere che anche l’estrazione di copia (rectius, di fotocopia) è un modo di disporre di beni che appartengono all’imprenditore, unico titolare del diritto di stabilire gli utilizzi più conformi ai propri interessi.

In sostanza – secondo tale orientamento – anche la produzione in giudizio di “fotocopie” di documentazione aziendale (riservata) costituiva violazione dell’obbligo di fedeltà – estrinsecantesi, ex articolo 2105 del Codice Civile, nel divieto di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio” – disciplinarmente sanzionabile, con la differenza, dal punto di vista della responsabilità penale, che mentre l’asportazione di documento (in originale) di cui non si abbia la disponibilità attualizzava il reato di furto (a causa della sottrazione dagli archivi aziendali), l’utilizzo di documento aziendale di cui si abbia la disponibilità concretizzava il reato di “appropriazione indebita”.

In buona sostanza, la citata decisione della Cassazione (n. 2560/1993) stabilì che nella fase patologica del rapporto – sconfinato in contrasto giudiziario – il dipendente non può giocare “strappando” le carte dalle mani dell’avversario per rafforzare la propria posizione processuale (sottovalutando, da una posizione troppo partigianamente datoriale, il fatto che il lavoratore, per far accertare e far esprimere con tempestività al Giudice un giudizio sulla qualità del proprio lavoro a fini di ottenere il riconoscimento della qualifica superiore, altro non poteva che sottoporre la propria “produzione” alla valutazione del magistrato).

Ma, per sottrarsi a quest’ultimo rilievo di buon senso, la Cassazione, a suo tempo, eresse le sovrastrutture giuridico-formalistiche ostative per il contraente debole, asserendo che il dipendente che voglia provare le proprie affermazioni può chiedere che il Magistrato ordini al datore di lavoro convenuto l’ispezione sulla documentazione probante ex articolo 118 del Codice di Procedura Civile, articolo che così recita: “il Giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire […] sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa [...] Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’articolo 116, comma 2”, ovvero l’esibizione della documentazione medesima ex articolo 210 del Codice di Procedura Civile (che così recita: “il Giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare l’esibizione il Giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo ed il modo dell’esibizione”).

Da questo superato orientamento si disse, insomma, che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale delle proprie rivendicazioni e quello del datore di lavoro alla riservatezza, non può essere risolto unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria, nella quale il datore di lavoro – a fronte dell’eventuale ordine di ispezione o di esibizione impartito dal giudice – può resistere a tale comando, preferendo esporsi alle conseguenze che il giudice è libero di trarre ex articolo 116 del Codice di Procedura Civile (afferente alla valutazione delle prove), secondo cui: “il Giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti nel processo”.

Un secondo orientamento ritiene che la “produzione in giudizio di fotocopie” di documenti aziendali riservati costituisca una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di “sottrazione di documenti”, sicché, nel quadro concreto delle circostanze di fatto, il licenziamento disciplinare può essere considerato illegittimo (Cassazione n. 1144 del 2000; Cassazione n. 4328 del 1996).

Una variante del secondo orientamento è costituita dal più recente filone giurisprudenziale (in particolare Cassazione n. 6420 del 2002 e Cassazione n. 12528 del 2004), che ha riconosciuto la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza dei dati in possesso di enti privati o pubblici, tanto più che la stessa normativa (articolo 12 della legge n. 675 del 1996 e successive modifiche ed integrazioni) in tema di tutela della riservatezza (cosiddetta privacy) non richiede il consenso dell’interessato nell’ipotesi in cui il trattamento sia necessario “per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.

Ciò esposto sullo stato della giurisprudenza, si ritiene che dall’orientamento della giurisprudenza possa dirsi essere stata affermata la fondamentale distinzione tra produzione in giudizio di documenti aziendali riservati al fine di esercitare il diritto di difesa – di per sé da considerarsi lecita (al riguardo ampie ed esaurienti sono le argomentazioni svolte nelle ricordate sentenze n. 6420/2002 e n. 12528 del 2004) – e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate.

L’orientamento più recente e affidabile

Sulla tematica vanno ritenute fondamentali le statuizioni di Cassazione 4 maggio 2002, n. 6420, la quale ha affermato la legittimità della produzione in giudizio di fotocopie di documentazione aziendale riservata, sempreché non sottratta artatamente dagli archivi aziendali non accessibili al prestatore di lavoro, ma detenuta in ragione del disimpegno delle proprie mansioni e, quindi, entrata legittimamente nella sfera della sua disponibilità.

Nella vertenza decisa da questa sentenza che aveva visto, in primo e secondo grado, la soccombenza di un dirigente della filiale di Ancona della Cassa di risparmio di Fano – che aveva prodotto, a titolo esemplificativo, fotocopie di 11 proposte di concessione fidi a clienti non proseguite dalla direzione della banca, per dimostrare la dequalificazione in cui era stato confinato – la Cassazione ha accolto il ricorso per reintegra nel posto di lavoro proposto dal dirigente licenziato per “violazione dell’obbligo di fedeltà” e riservatezza, affermando la legittimità e non sanzionabilità del suo comportamento, motivandolo con le argomentazioni riassunte nella massima (da noi elaborata) che di seguito riportiamo:

“L’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, circoscritto sostanzialmente al divieto di concorrenza nei confronti del proprio datore di lavoro – ma giurisprudenzialmente ampliato ed integrato dai principi di correttezza e buona fede (articolo 1175 e 1375 del Codice Civile) – costituisce una “norma elastica” la cui applicazione richiede un’attività di specificazione da parte del giudice di merito alla stregua dei principi generali dell’ordinamento attuali nel contesto storico sociale del momento e quindi, ora in periodo post-corporativo, in aderenza in particolare al principio di solidarietà ex articolo 2 della Costituzione(che ha sostituito la “solidarietà corporativa” che lo caratterizzava), con la conseguenza che l’attuale necessaria rilettura dell’articolo 2105 del Codice Civile comporta che la clausola generale di buona fede deve abilitare il Giudice a concedere spazio di effettività, più che a valori etici e morali collocati fuori del “territorio positivo”, ai valori sui quali si fonda il sistema giuridico e che per tale ragione vantano un titolo poziore per influenzare ed ottenere l’adempimento dell’obbligazione.

Ne consegue che, nell’ipotesi di produzione in giudizio (allo scopo di ottenere il risarcimento del danno derivante da asserita dequalificazione) da parte del lavoratore di copia di documenti aziendali riservati riguardanti clienti di un istituto di credito ed in suo possesso per ragioni d’ufficio, non è configurabile la fattispecie della sottrazione o spossessamento per l’azienda di documentazione riservata ma si versa nell’ipotesi di mera allegazione nel fascicolo processuale di fotocopie detenute in ragione delle proprie mansioni. Tale comportamento finalizzato al diritto di difesa ex articolo 24 della Costituzione, che prevale sul diritto di riservatezza dell’azienda (garantito dalla norma elastica dell’articolo 2105 del Codice Civile) – considerato anche che non determina la fattispecie della “divulgazione” della documentazione riservata, in quanto esclusivamente prodotta nel processo in cui i soggetti che ne dispongono sono tenuti al segreto d’ufficio –, si rivela pertanto non sanzionabile e quindi legittimo, in quanto non sussistono ab imis i presupposti per l’adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo.

Nel caso in esame, è incorso quindi in un decisivo errore il Tribunale nel circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa del lavoratore, escludendo la liceità della produzione in giudizio di fotocopie di documenti aziendali nella di lui disponibilità per ragioni d’ufficio ed è, quindi, illegittimo - per errata interpretazione del concetto dell’obbligo di fedeltà ex art 2105 cod. civ., dell’articolo2119 cod. civ. e degli articolo 1 e 3 l. n. 604/66 - il licenziamento del lavoratore, che va pertanto reintegrato ex articolo 18 l. n. 300/70 nel posto di lavoro, mentre il giudice del rinvio determinerà l’entità del risarcimento danno da licenziamento illegittimo, ai sensi di legge”.

Dopo questa decisione, in senso conforme si registra Cassazione, 7 luglio 2004, n. 12528 che ha riconfermato come: “Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, la produzione in giudizio di copie di atti ai quali il dipendente abbia avuto accesso, giacché tale produzione, avendo ad oggetto copie – e non originali –, da un lato, non costituisce sottrazione di documenti in senso proprio e, dall’altro, essendo finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ed esclusivamente a tale esercizio, con le modalità prescritte dal codice di rito, non comporta divulgazione del contenuto dei documenti e assolve ad una esigenza prevalente su quella di riservatezza propria del datore di lavoro”.

Nello stesso senso, consolidando l’orientamento legittimista, Cassazione del 7 dicembre 2004, n. 22923, secondo cui: “il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda”.

Il principio di cui sopra viene riaffermato, a distanza di anni, dalla Cassazione n. 3038 del 2011, ove – in una controversia per rivendicazione di lavoro straordinario e notturno – i lavoratori avevano depositato in giudizio copia di documentazione aziendale che documentava l’effettività dello svolgimento delle prestazioni eccedenti l’orario normale.

A fronte del provvedimento sanzionatorio aziendale, la Suprema Corte statuisce che: “La produzione doveva ritenersi legittima, per la ragione assorbente che, il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda”». Più recentemente, in senso analogo si sono espresse, prima Cassazione 16 luglio 2012 n. 12119 e poi Cassazione16 novembre 2012 n. 20163, quest’ultima asserendo che: “il lavoratore che in un contesto di accertata vessazione, abbia posto la documentazione aziendale a fondamento di una denuncia proposta unicamente al fine di far valere i propri diritti nonché a far emergere, anche per il suo ruolo di sindacalista attivo all’interno dell’azienda, condotte inadempienti e antisindacali della datrice di lavoro, attua un comportamento legittimo che va esente da qualsiasi sanzione disciplinare”.

Casistica confermativa

Alla luce di questo orientamento, da ritenersi oramai consolidato, è stata, ad esempio, ritenuta legittima la condotta del lavoratore che:

- abbia prodotto in giudizio copia di documenti aziendali originariamente fotocopiati per mostrarli al solo datore di lavoro in sede di giustificazioni ex articolo 7 Statuto dei lavoratori (cfr: Cassazione n. 7993/2012),

- abbia usato documentazione cui aveva avuto accesso per ragioni d’ufficio (Cassazione n. 12528/2004);

diversamente è stato ritenuto illecito:

- il possesso di documenti sottratti al datore di lavoro mediante accesso non autorizzato ad una banca dati aziendale e non attinenti all’attività lavorativa del dipendente (Cassazione n.153/2007),

- la sottrazione di documentazione, poi inoltrata ad una pubblica amministrazione esercitante funzioni di controllo sul datore di lavoro, al fine di far apparire, contrariamente al vero, che l’azienda induceva il lavoratori a violare norme di legge (Cassazione n. 6352/1998).

A questo riguardo va peraltro evidenziato come sia stata, invece, ritenuta legittima dalla Cassazione 14 marzo 2013 n. 6501 la consegna all’autorità giudiziaria da parte del lavoratore di fotocopia di documentazione aziendale idonea a provare l’effettivo comportamento illecito del datore di lavoro (in fattispecie, in relazione ad irregolarità afferenti ad un appalto pubblico per la manutenzione dei semafori cittadini), riconoscendosi dalla Suprema Corte estraneo ai doveri del lavoratore un presunto obbligo di omertà verso il datore di lavoro.

Così esprimendosi: “Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto. Neppure costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.

Proseguendo col dire che: “se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all’Autorità Giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri tra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile o amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda”.

Aggiungendo inoltre che: “va poi escluso in punto di diritto che il denunciare o l’esporre all’AG fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta di condotta lecita […] vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa”.

Nel ricordare poi che essendo oramai assodato che “il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice Civile”, la Corte afferma che: “a maggior ragione, dunque, il lavoratore può produrre tali documenti a corredo d’un esposto o di una denuncia penale, dovendo precostituirsi la dimostrazione di aver agito con cognizione di causa per evitare rischi di incriminazione per calunnia, a tal fine potendo non rivelarsi sufficiente la mera indicazione all’AG dell’esistenza dei documenti medesimi affinché provveda ad acquisirli (nel frattempo potrebbero venire distrutti od occultati)”.

In tal modo replicando a quell’orientamento di minoranza che considerava scorretta (quindi sanzionabile) l’allegazione di documentazione aziendale probante, quando il lavoratore poteva giovarsi dell’alternativa di richiedere al Giudice di ordinare al datore l’esibizione giudiziale, ex articolo 210 del Codice di Procedura Civile, dei documenti indicatigli dal lavoratore.

Conclusioni

Ne consegue la conclusione che deve ritenersi legittima la produzione in giudizio da parte dei lavoratori di fotocopie di documentazione aziendale riservata (sempre che non sottratta, ma) nella loro disponibilità per ragioni d’ufficio, a causa:

a) della prevalenza del diritto di difesa giudiziale ex articolo 24 della Costituzione su quello alla riservatezza aziendale, desunta sia dal rango costituzionale dell’articolo 24 (e dalla preminenza accordata da parte della giurisprudenza di legittimità al diritto di difesa giudiziale sul diritto alla riservatezza: cfr. Cassazione Penale del 24 gennaio 1989, n., Crincoli), sia da riferimenti storici in ordine alla riforma del segreto d’ufficio (ipotizzato sacrificabile in caso di difesa personale in giudizio), sia dal diritto (rinvenibile nell’articolo 12, Legge n. 675/96 sulla cosiddetta privacy) al trattamento dei dati personali svincolato dalla necessità del consenso dell’interessato quando l’uso degli stessi sia necessario “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria” tanto da far affermare alla Corte che “ciò (è) a definitiva convalida della prevalenza del diritto di difesa in giudizio da riconoscersi al prestatore di lavoro rispetto ad un’accezione genericamente estesa dell’obbligo di fedeltà alla stregua del principio costituzionale sancito dall’articolo 24”;

b) dell’insussistenza di un asserito pregiudizio per il datore, ipotizzato conseguente alla “divulgazione” dei documenti, in quanto esclusivamente destinati al solo inserimento nel fascicolo processuale gestito e consultato da soggetti (giudici e avvocati) tutti quanti tenuti processualmente al segreto d’ufficio.

Anche tramite l’affermazione in ordine alla legittimità condizionata di produzione in giudizio della documentazione aziendale per esigenze di giustizia, la Cassazione dimostra di proseguire speditamente nel cammino dell’abbandono di principi giuridici formalistici, per mantenersi aderente alla realtà concreta della vita di lavoro, cogliendo esattamente l’aspetto del lavoratore quale contraente svantaggiato nel rapporto contrattuale. Soggetto notoriamente posto in condizioni di difficoltà nel ricorrere al Magistrato – oltre che a causa del timore realistico della compromissione per il futuro dei rapporti con l’azienda datrice di lavoro che è solita memorizzare lo sgarbo dell’azione giudiziaria – da oneri probatori quasi diabolici (aggiuntivi alle già denunciate “sacche di omertà” dei colleghi d’ufficio, omertà che ne inibisce spessissimo le testimonianze, di cui con facilità e per attese convenienze fruisce invece il datore, cfr. al riguardo l’affermazione in Cassazione n. 143/2000)

In questo sentiero di apprezzabilissima concretezza la Cassazione – sia nell’ambito della Sezione Lavoro ma eminentemente a Sezioni Unite – si era già incamminata con decisione, travolgendo vecchi orientamenti.

Tra di essi, ad esempio: a) quello in tema di licenziamento, per impossibilità sopravvenuta ex articolo 1464 del Codice Civile, del lavoratore divenuto inabile alle mansioni, statuendo, invece, l’obbligo del reimpiego (repêchage) in altri compiti sempreché sussistenti in azienda (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, n. 7755/1998); b) in altro caso, statuendo il principio dell’insufficienza della concezione meramente sinallagmatica a governare il rapporto di lavoro, con la conseguenza di stabilire la maturazione delle ferie anche in malattia (Cassazione n. 14020/2001); c) altresì affermando l’obbligo di sottrazione del lavoratore – a pena di incorrere in responsabilità civile ex articolo 2087 del Codice Civile e Penale per lesioni colpose, ex articolo 590 del Codice Penale per danno alla integrità psicofisica – da mansioni “soggettivamente” pregiudizievoli in ragione anche solo della propria struttura fisio/psichica e di fragilità congenite di salute (cfr., Cassazione del 21 gennaio 2002, n. 572); d) addizionalmente sostenendo la sufficienza, in mancanza di testimoni oculari, della versione della vittima di molestie sessuali, se giudicata attendibile, ai fini dell’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno subito (cfr. Cassazione del 22 aprile 2002, n. 5825); e) correttamente sottraendo, dopo tentennamenti, il ricorrente licenziato dal dimostrare la consistenza organica dell’unità produttiva eccedente i 15 dipendenti (cosiddetta soglia dimensionale) ai fini della reintegrazione ex articolo 18 Statuto dei lavorati ragionevolmente ponendo tale onere a carico del convenuto datore di lavoro, necessariamente meglio informato (cfr. l’iniziale Cassazione, Sezioni Unite, n. 141/2006 fino all’attuale Cassazione, n. 23771/2013); f) inoltre operando una moderna delimitazione del concetto di “obbligo di fedeltà” ex articolo 2105 del Codice Civile, da intendersi in senso restrittivo (e non totalizzante od assorbente tutti i comportamenti del lavoratore), tanto da considerarlo insuscettibile di coprire gli illeciti datoriali e tanto da mandar esente da sanzione disciplinare il dipendente che abbia denunciato l’evasione fiscale datoriale alla guardia di finanza (consegnandogli copia della bolla di accompagnamento), in quanto l’”obbligo di fedeltà» non copre i fatti illeciti aziendali ed esonera il lavoratore dalla connivenza od omertà (cfr. Cassazione, 16 gennaio 2001, n. 519 e Cassazione del 14 marzo 2013, n.6501).

Si tratta, indubbiamente, di principi che vengono mal digeriti da chi aveva confidato nella erezione incrollabile di sovrastrutture giuridico-formalistiche e di oneri probatori deterrenti (fidando anche nei tempi lunghi processuali, ai quali sembra, certo non a caso, non si voglia porre rimedio), onde vanificare, tramite la soccombenza in giudizio del lavoratore, le scarne rivendicazioni giudiziarie della parte debole del rapporto che al magistrato ricorre quanto proprio la situazione ha superato la soglia della tollerabilità psicologica e quando è talmente convinta della antigiuridicità del comportamento datoriale, da azzardare un irto percorso giudiziale di conferma.

Sovrastrutture che invece la Corte di cassazione gradualmente – forse troppo gradualmente – sgretola ed abbatte.

Secondo i conservatori ed i datori soccombenti, ciò avverrebbe in quanto sarebbe arrivata in Cassazione la generazione progressista dei “pretori d’assalto” sessantottini, al cui annacquamento e/o neutralizzazione apparve – secondo taluno [1] – funzionale una ventilata riforma governativa dell’ordinamento giudiziario (rimasta inattuata), che contemplava criteri accelerati di accesso e di selezione per la Cassazione, in modo da inserire giovani magistrati rampanti, docili e disponibili verso gli indirizzi del potere politico.

[1] Così, G. D’Avanzo,  nell'articolo titolato “Un’altra battaglia di civiltà: l’indipendenza della magistratura”, in La Repubblica del 21 aprile 2002 (pagine 1 e 16)

Premessa

È consuetudine, normalmente seguita dal lavoratore nell’atto di sostenere le proprie pretese o diritti in un giudizio teso a rivendicare una qualifica superiore o volto a prospettare una illegittima dequalificazione e simili, quella di allegare documentazione d’ufficio, sia consistente in circolari e comunicazioni aziendali sia in propri elaborati approntati nel corso dell’attività svolta, di norma sottoscritti o firmati dal superiore o dal dirigente del servizio cui il lavoratore appartiene. Documentazione talora costituita da veri e propri originali estratti dall’archivio aziendale, talora da semplici fotocopie.

Conviene che l’orientamento giurisprudenziale, seppure in precedenza variegato su questo importante tema sia di pubblico dominio, affinché il lavoratore che ha trovato il coraggio di agire (e di reagire) giudizialmente in corso di rapporto avverso le inadempienze del proprio datore di lavoro, conosca come deve comportarsi e non si trovi esposto al rischio di una sanzione disciplinare che può dilatarsi fino al punto di privarlo dell’occupazione e cioè della fonte di sostentamento personale e familiare.

E di ciò si deve essere particolarmente edotti sia in linea generale sia eminentemente nel settore del credito, qui a causa della presenza di una giurisprudenza che, élitariamente e non sempre giustificatamente, a nostro avviso, pretende dal bancario un rapporto di più intensa fiducia, in dipendenza dei compiti (asseritamente più delicati) svolti dai prestatori all’interno dell’azienda di credito (piuttosto che in quelle industriali o commerciali) ovvero in ragione dell’asserita maggiore riservatezza delle informazioni che i bancari gestirebbero o con le quali verrebbero in contatto.

Il panorama giurisprudenziale in tema di allegazione in giudizio di documentazione d’ufficio

Sulla tematica va detto che l’esame comparativo della giurisprudenza della Cassazione evidenzia che la “quaestio iuris” se la produzione in giudizio di documentazione aziendale riservata costituisca violazione del dovere di fedeltà, quindi sanzionabile, ovvero comportamento legittimo per finalità difensive in giudizio, risulta nel corso del tempo decisa in modo non uniforme di cui di seguito diamo analiticamente conto.

Un primo orientamento si è espresso per l’illegittimità di una tale produzione, in quanto la violazione dell’obbligo della riservatezza comporterebbe inevitabilmente la lesione dell’elemento fiduciario e può, quindi, integrare gli estremi della giusta causa (o giustificato motivo) di licenziamento (ex plurimis, Cassazione n. 2560 del 1993; Cassazione n. 4328 del 1996; Cassazione n. 6352 del 1998; Cassazione n. 13188 del 2001).

Questa impostazione restrittiva ritenne sussistente l’illiceità del comportamento del lavoratore sia che questi produca in giudizio “originali” di documenti sia “fotocopie” degli stessi, l’unica differenza consistendo, secondo il variegato orientamento giurisprudenziale, nel grado di intensità dell’illecito, tale da ripercuotersi sulla tipologia delle sanzioni dispiegabili (conservative o espulsive, a secondo dei casi).

Nella sentenza del Tribunale di Milano (che fu pienamente condivisa dall’orientamento intransigente e rigorista di Cassazione n. 2560/1993) venne asserito che: “si è molto discettato sulla distinzione tra asporto di fotocopie e asporto di originale. Il Collegio non ha difficoltà a riconoscere che l’estrazione di notizie mediante fotocopiatura è cosa diversa dall’asporto dell’originale e che la fotocopiatura arbitraria è certamente meno grave dell’asporto dell’originale. Si deve tuttavia riconoscere che anche l’estrazione di copia (rectius, di fotocopia) è un modo di disporre di beni che appartengono all’imprenditore, unico titolare del diritto di stabilire gli utilizzi più conformi ai propri interessi.

In sostanza – secondo tale orientamento – anche la produzione in giudizio di “fotocopie” di documentazione aziendale (riservata) costituiva violazione dell’obbligo di fedeltà – estrinsecantesi, ex articolo 2105 del Codice Civile, nel divieto di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio” – disciplinarmente sanzionabile, con la differenza, dal punto di vista della responsabilità penale, che mentre l’asportazione di documento (in originale) di cui non si abbia la disponibilità attualizzava il reato di furto (a causa della sottrazione dagli archivi aziendali), l’utilizzo di documento aziendale di cui si abbia la disponibilità concretizzava il reato di “appropriazione indebita”.

In buona sostanza, la citata decisione della Cassazione (n. 2560/1993) stabilì che nella fase patologica del rapporto – sconfinato in contrasto giudiziario – il dipendente non può giocare “strappando” le carte dalle mani dell’avversario per rafforzare la propria posizione processuale (sottovalutando, da una posizione troppo partigianamente datoriale, il fatto che il lavoratore, per far accertare e far esprimere con tempestività al Giudice un giudizio sulla qualità del proprio lavoro a fini di ottenere il riconoscimento della qualifica superiore, altro non poteva che sottoporre la propria “produzione” alla valutazione del magistrato).

Ma, per sottrarsi a quest’ultimo rilievo di buon senso, la Cassazione, a suo tempo, eresse le sovrastrutture giuridico-formalistiche ostative per il contraente debole, asserendo che il dipendente che voglia provare le proprie affermazioni può chiedere che il Magistrato ordini al datore di lavoro convenuto l’ispezione sulla documentazione probante ex articolo 118 del Codice di Procedura Civile, articolo che così recita: “il Giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire […] sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa [...] Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’articolo 116, comma 2”, ovvero l’esibizione della documentazione medesima ex articolo 210 del Codice di Procedura Civile (che così recita: “il Giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o ad un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare l’esibizione il Giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo ed il modo dell’esibizione”).

Da questo superato orientamento si disse, insomma, che il contrasto fra il diritto del dipendente alla tutela giurisdizionale delle proprie rivendicazioni e quello del datore di lavoro alla riservatezza, non può essere risolto unilateralmente dal lavoratore, ma deve essere valutato in sede giudiziaria, nella quale il datore di lavoro – a fronte dell’eventuale ordine di ispezione o di esibizione impartito dal giudice – può resistere a tale comando, preferendo esporsi alle conseguenze che il giudice è libero di trarre ex articolo 116 del Codice di Procedura Civile (afferente alla valutazione delle prove), secondo cui: “il Giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti nel processo”.

Un secondo orientamento ritiene che la “produzione in giudizio di fotocopie” di documenti aziendali riservati costituisca una ipotesi di gran lunga più lieve rispetto a quella di “sottrazione di documenti”, sicché, nel quadro concreto delle circostanze di fatto, il licenziamento disciplinare può essere considerato illegittimo (Cassazione n. 1144 del 2000; Cassazione n. 4328 del 1996).

Una variante del secondo orientamento è costituita dal più recente filone giurisprudenziale (in particolare Cassazione n. 6420 del 2002 e Cassazione n. 12528 del 2004), che ha riconosciuto la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza dei dati in possesso di enti privati o pubblici, tanto più che la stessa normativa (articolo 12 della legge n. 675 del 1996 e successive modifiche ed integrazioni) in tema di tutela della riservatezza (cosiddetta privacy) non richiede il consenso dell’interessato nell’ipotesi in cui il trattamento sia necessario “per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.

Ciò esposto sullo stato della giurisprudenza, si ritiene che dall’orientamento della giurisprudenza possa dirsi essere stata affermata la fondamentale distinzione tra produzione in giudizio di documenti aziendali riservati al fine di esercitare il diritto di difesa – di per sé da considerarsi lecita (al riguardo ampie ed esaurienti sono le argomentazioni svolte nelle ricordate sentenze n. 6420/2002 e n. 12528 del 2004) – e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate.

L’orientamento più recente e affidabile

Sulla tematica vanno ritenute fondamentali le statuizioni di Cassazione 4 maggio 2002, n. 6420, la quale ha affermato la legittimità della produzione in giudizio di fotocopie di documentazione aziendale riservata, sempreché non sottratta artatamente dagli archivi aziendali non accessibili al prestatore di lavoro, ma detenuta in ragione del disimpegno delle proprie mansioni e, quindi, entrata legittimamente nella sfera della sua disponibilità.

Nella vertenza decisa da questa sentenza che aveva visto, in primo e secondo grado, la soccombenza di un dirigente della filiale di Ancona della Cassa di risparmio di Fano – che aveva prodotto, a titolo esemplificativo, fotocopie di 11 proposte di concessione fidi a clienti non proseguite dalla direzione della banca, per dimostrare la dequalificazione in cui era stato confinato – la Cassazione ha accolto il ricorso per reintegra nel posto di lavoro proposto dal dirigente licenziato per “violazione dell’obbligo di fedeltà” e riservatezza, affermando la legittimità e non sanzionabilità del suo comportamento, motivandolo con le argomentazioni riassunte nella massima (da noi elaborata) che di seguito riportiamo:

“L’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, circoscritto sostanzialmente al divieto di concorrenza nei confronti del proprio datore di lavoro – ma giurisprudenzialmente ampliato ed integrato dai principi di correttezza e buona fede (articolo 1175 e 1375 del Codice Civile) – costituisce una “norma elastica” la cui applicazione richiede un’attività di specificazione da parte del giudice di merito alla stregua dei principi generali dell’ordinamento attuali nel contesto storico sociale del momento e quindi, ora in periodo post-corporativo, in aderenza in particolare al principio di solidarietà ex articolo 2 della Costituzione(che ha sostituito la “solidarietà corporativa” che lo caratterizzava), con la conseguenza che l’attuale necessaria rilettura dell’articolo 2105 del Codice Civile comporta che la clausola generale di buona fede deve abilitare il Giudice a concedere spazio di effettività, più che a valori etici e morali collocati fuori del “territorio positivo”, ai valori sui quali si fonda il sistema giuridico e che per tale ragione vantano un titolo poziore per influenzare ed ottenere l’adempimento dell’obbligazione.

Ne consegue che, nell’ipotesi di produzione in giudizio (allo scopo di ottenere il risarcimento del danno derivante da asserita dequalificazione) da parte del lavoratore di copia di documenti aziendali riservati riguardanti clienti di un istituto di credito ed in suo possesso per ragioni d’ufficio, non è configurabile la fattispecie della sottrazione o spossessamento per l’azienda di documentazione riservata ma si versa nell’ipotesi di mera allegazione nel fascicolo processuale di fotocopie detenute in ragione delle proprie mansioni. Tale comportamento finalizzato al diritto di difesa ex articolo 24 della Costituzione, che prevale sul diritto di riservatezza dell’azienda (garantito dalla norma elastica dell’articolo 2105 del Codice Civile) – considerato anche che non determina la fattispecie della “divulgazione” della documentazione riservata, in quanto esclusivamente prodotta nel processo in cui i soggetti che ne dispongono sono tenuti al segreto d’ufficio –, si rivela pertanto non sanzionabile e quindi legittimo, in quanto non sussistono ab imis i presupposti per l’adozione di un provvedimento disciplinare (in generale e specie) espulsivo.

Nel caso in esame, è incorso quindi in un decisivo errore il Tribunale nel circoscrivere illegittimamente il diritto di difesa del lavoratore, escludendo la liceità della produzione in giudizio di fotocopie di documenti aziendali nella di lui disponibilità per ragioni d’ufficio ed è, quindi, illegittimo - per errata interpretazione del concetto dell’obbligo di fedeltà ex art 2105 cod. civ., dell’articolo2119 cod. civ. e degli articolo 1 e 3 l. n. 604/66 - il licenziamento del lavoratore, che va pertanto reintegrato ex articolo 18 l. n. 300/70 nel posto di lavoro, mentre il giudice del rinvio determinerà l’entità del risarcimento danno da licenziamento illegittimo, ai sensi di legge”.

Dopo questa decisione, in senso conforme si registra Cassazione, 7 luglio 2004, n. 12528 che ha riconfermato come: “Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, la produzione in giudizio di copie di atti ai quali il dipendente abbia avuto accesso, giacché tale produzione, avendo ad oggetto copie – e non originali –, da un lato, non costituisce sottrazione di documenti in senso proprio e, dall’altro, essendo finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ed esclusivamente a tale esercizio, con le modalità prescritte dal codice di rito, non comporta divulgazione del contenuto dei documenti e assolve ad una esigenza prevalente su quella di riservatezza propria del datore di lavoro”.

Nello stesso senso, consolidando l’orientamento legittimista, Cassazione del 7 dicembre 2004, n. 22923, secondo cui: “il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda”.

Il principio di cui sopra viene riaffermato, a distanza di anni, dalla Cassazione n. 3038 del 2011, ove – in una controversia per rivendicazione di lavoro straordinario e notturno – i lavoratori avevano depositato in giudizio copia di documentazione aziendale che documentava l’effettività dello svolgimento delle prestazioni eccedenti l’orario normale.

A fronte del provvedimento sanzionatorio aziendale, la Suprema Corte statuisce che: “La produzione doveva ritenersi legittima, per la ragione assorbente che, il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’articolo 2105 del Codice Civile, tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda”». Più recentemente, in senso analogo si sono espresse, prima Cassazione 16 luglio 2012 n. 12119 e poi Cassazione16 novembre 2012 n. 20163, quest’ultima asserendo che: “il lavoratore che in un contesto di accertata vessazione, abbia posto la documentazione aziendale a fondamento di una denuncia proposta unicamente al fine di far valere i propri diritti nonché a far emergere, anche per il suo ruolo di sindacalista attivo all’interno dell’azienda, condotte inadempienti e antisindacali della datrice di lavoro, attua un comportamento legittimo che va esente da qualsiasi sanzione disciplinare”.

Casistica confermativa

Alla luce di questo orientamento, da ritenersi oramai consolidato, è stata, ad esempio, ritenuta legittima la condotta del lavoratore che:

- abbia prodotto in giudizio copia di documenti aziendali originariamente fotocopiati per mostrarli al solo datore di lavoro in sede di giustificazioni ex articolo 7 Statuto dei lavoratori (cfr: Cassazione n. 7993/2012),

- abbia usato documentazione cui aveva avuto accesso per ragioni d’ufficio (Cassazione n. 12528/2004);

diversamente è stato ritenuto illecito:

- il possesso di documenti sottratti al datore di lavoro mediante accesso non autorizzato ad una banca dati aziendale e non attinenti all’attività lavorativa del dipendente (Cassazione n.153/2007),

- la sottrazione di documentazione, poi inoltrata ad una pubblica amministrazione esercitante funzioni di controllo sul datore di lavoro, al fine di far apparire, contrariamente al vero, che l’azienda induceva il lavoratori a violare norme di legge (Cassazione n. 6352/1998).

A questo riguardo va peraltro evidenziato come sia stata, invece, ritenuta legittima dalla Cassazione 14 marzo 2013 n. 6501 la consegna all’autorità giudiziaria da parte del lavoratore di fotocopia di documentazione aziendale idonea a provare l’effettivo comportamento illecito del datore di lavoro (in fattispecie, in relazione ad irregolarità afferenti ad un appalto pubblico per la manutenzione dei semafori cittadini), riconoscendosi dalla Suprema Corte estraneo ai doveri del lavoratore un presunto obbligo di omertà verso il datore di lavoro.

Così esprimendosi: “Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto. Neppure costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.

Proseguendo col dire che: “se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia o un esposto all’Autorità Giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale: diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti, ma impliciti, riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” che ovviamente non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento non può nemmeno lontanamente ipotizzarsi che rientri tra i doveri del prestatore di lavoro il tacere anche fatti illeciti (da un punto di vista penale, civile o amministrativo) che egli veda accadere intorno a sé in azienda”.

Aggiungendo inoltre che: “va poi escluso in punto di diritto che il denunciare o l’esporre all’AG fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta di condotta lecita […] vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa”.

Nel ricordare poi che essendo oramai assodato che “il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all’articolo 2105 del Codice Civile”, la Corte afferma che: “a maggior ragione, dunque, il lavoratore può produrre tali documenti a corredo d’un esposto o di una denuncia penale, dovendo precostituirsi la dimostrazione di aver agito con cognizione di causa per evitare rischi di incriminazione per calunnia, a tal fine potendo non rivelarsi sufficiente la mera indicazione all’AG dell’esistenza dei documenti medesimi affinché provveda ad acquisirli (nel frattempo potrebbero venire distrutti od occultati)”.

In tal modo replicando a quell’orientamento di minoranza che considerava scorretta (quindi sanzionabile) l’allegazione di documentazione aziendale probante, quando il lavoratore poteva giovarsi dell’alternativa di richiedere al Giudice di ordinare al datore l’esibizione giudiziale, ex articolo 210 del Codice di Procedura Civile, dei documenti indicatigli dal lavoratore.

Conclusioni

Ne consegue la conclusione che deve ritenersi legittima la produzione in giudizio da parte dei lavoratori di fotocopie di documentazione aziendale riservata (sempre che non sottratta, ma) nella loro disponibilità per ragioni d’ufficio, a causa:

a) della prevalenza del diritto di difesa giudiziale ex articolo 24 della Costituzione su quello alla riservatezza aziendale, desunta sia dal rango costituzionale dell’articolo 24 (e dalla preminenza accordata da parte della giurisprudenza di legittimità al diritto di difesa giudiziale sul diritto alla riservatezza: cfr. Cassazione Penale del 24 gennaio 1989, n., Crincoli), sia da riferimenti storici in ordine alla riforma del segreto d’ufficio (ipotizzato sacrificabile in caso di difesa personale in giudizio), sia dal diritto (rinvenibile nell’articolo 12, Legge n. 675/96 sulla cosiddetta privacy) al trattamento dei dati personali svincolato dalla necessità del consenso dell’interessato quando l’uso degli stessi sia necessario “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria” tanto da far affermare alla Corte che “ciò (è) a definitiva convalida della prevalenza del diritto di difesa in giudizio da riconoscersi al prestatore di lavoro rispetto ad un’accezione genericamente estesa dell’obbligo di fedeltà alla stregua del principio costituzionale sancito dall’articolo 24”;

b) dell’insussistenza di un asserito pregiudizio per il datore, ipotizzato conseguente alla “divulgazione” dei documenti, in quanto esclusivamente destinati al solo inserimento nel fascicolo processuale gestito e consultato da soggetti (giudici e avvocati) tutti quanti tenuti processualmente al segreto d’ufficio.

Anche tramite l’affermazione in ordine alla legittimità condizionata di produzione in giudizio della documentazione aziendale per esigenze di giustizia, la Cassazione dimostra di proseguire speditamente nel cammino dell’abbandono di principi giuridici formalistici, per mantenersi aderente alla realtà concreta della vita di lavoro, cogliendo esattamente l’aspetto del lavoratore quale contraente svantaggiato nel rapporto contrattuale. Soggetto notoriamente posto in condizioni di difficoltà nel ricorrere al Magistrato – oltre che a causa del timore realistico della compromissione per il futuro dei rapporti con l’azienda datrice di lavoro che è solita memorizzare lo sgarbo dell’azione giudiziaria – da oneri probatori quasi diabolici (aggiuntivi alle già denunciate “sacche di omertà” dei colleghi d’ufficio, omertà che ne inibisce spessissimo le testimonianze, di cui con facilità e per attese convenienze fruisce invece il datore, cfr. al riguardo l’affermazione in Cassazione n. 143/2000)

In questo sentiero di apprezzabilissima concretezza la Cassazione – sia nell’ambito della Sezione Lavoro ma eminentemente a Sezioni Unite – si era già incamminata con decisione, travolgendo vecchi orientamenti.

Tra di essi, ad esempio: a) quello in tema di licenziamento, per impossibilità sopravvenuta ex articolo 1464 del Codice Civile, del lavoratore divenuto inabile alle mansioni, statuendo, invece, l’obbligo del reimpiego (repêchage) in altri compiti sempreché sussistenti in azienda (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, n. 7755/1998); b) in altro caso, statuendo il principio dell’insufficienza della concezione meramente sinallagmatica a governare il rapporto di lavoro, con la conseguenza di stabilire la maturazione delle ferie anche in malattia (Cassazione n. 14020/2001); c) altresì affermando l’obbligo di sottrazione del lavoratore – a pena di incorrere in responsabilità civile ex articolo 2087 del Codice Civile e Penale per lesioni colpose, ex articolo 590 del Codice Penale per danno alla integrità psicofisica – da mansioni “soggettivamente” pregiudizievoli in ragione anche solo della propria struttura fisio/psichica e di fragilità congenite di salute (cfr., Cassazione del 21 gennaio 2002, n. 572); d) addizionalmente sostenendo la sufficienza, in mancanza di testimoni oculari, della versione della vittima di molestie sessuali, se giudicata attendibile, ai fini dell’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno subito (cfr. Cassazione del 22 aprile 2002, n. 5825); e) correttamente sottraendo, dopo tentennamenti, il ricorrente licenziato dal dimostrare la consistenza organica dell’unità produttiva eccedente i 15 dipendenti (cosiddetta soglia dimensionale) ai fini della reintegrazione ex articolo 18 Statuto dei lavorati ragionevolmente ponendo tale onere a carico del convenuto datore di lavoro, necessariamente meglio informato (cfr. l’iniziale Cassazione, Sezioni Unite, n. 141/2006 fino all’attuale Cassazione, n. 23771/2013); f) inoltre operando una moderna delimitazione del concetto di “obbligo di fedeltà” ex articolo 2105 del Codice Civile, da intendersi in senso restrittivo (e non totalizzante od assorbente tutti i comportamenti del lavoratore), tanto da considerarlo insuscettibile di coprire gli illeciti datoriali e tanto da mandar esente da sanzione disciplinare il dipendente che abbia denunciato l’evasione fiscale datoriale alla guardia di finanza (consegnandogli copia della bolla di accompagnamento), in quanto l’”obbligo di fedeltà» non copre i fatti illeciti aziendali ed esonera il lavoratore dalla connivenza od omertà (cfr. Cassazione, 16 gennaio 2001, n. 519 e Cassazione del 14 marzo 2013, n.6501).

Si tratta, indubbiamente, di principi che vengono mal digeriti da chi aveva confidato nella erezione incrollabile di sovrastrutture giuridico-formalistiche e di oneri probatori deterrenti (fidando anche nei tempi lunghi processuali, ai quali sembra, certo non a caso, non si voglia porre rimedio), onde vanificare, tramite la soccombenza in giudizio del lavoratore, le scarne rivendicazioni giudiziarie della parte debole del rapporto che al magistrato ricorre quanto proprio la situazione ha superato la soglia della tollerabilità psicologica e quando è talmente convinta della antigiuridicità del comportamento datoriale, da azzardare un irto percorso giudiziale di conferma.

Sovrastrutture che invece la Corte di cassazione gradualmente – forse troppo gradualmente – sgretola ed abbatte.

Secondo i conservatori ed i datori soccombenti, ciò avverrebbe in quanto sarebbe arrivata in Cassazione la generazione progressista dei “pretori d’assalto” sessantottini, al cui annacquamento e/o neutralizzazione apparve – secondo taluno [1] – funzionale una ventilata riforma governativa dell’ordinamento giudiziario (rimasta inattuata), che contemplava criteri accelerati di accesso e di selezione per la Cassazione, in modo da inserire giovani magistrati rampanti, docili e disponibili verso gli indirizzi del potere politico.

[1] Così, G. D’Avanzo,  nell'articolo titolato “Un’altra battaglia di civiltà: l’indipendenza della magistratura”, in La Repubblica del 21 aprile 2002 (pagine 1 e 16)