x

x

La presupposizione e il contratto di vacanza “tutto compreso”

1. La causa del contratto

Al libro IV, nel titolo dedicato alla categoria dei contratti in generale, nel suo capo II, rubricato “dei requisiti del contratto”, l’articolo 1325 del Codice Civile individua tra questi ultimi la causa. Essa costituisce, assieme all’accordo, all’oggetto e alla forma, uno di quei fondamenti del negozio, in difetto dei quali il contratto è irrimediabilmente affetto da nullità manifesta. Essa altro non è che la ragione giustificativa sottesa al contratto, quel suo elemento essenziale in assenza del quale viene meno l’attribuzione al contratto della “forza di legge tra le parti” ex articolo 1372 del Codice Civile.

Ancor prima di esplicarne dettagliatamente la nozione, e il significato conferitole dall’odierna giurisprudenza e dall’opinione dottrinaria, occorre procedere ad un excursus storico-giuridico in materia di causa, in quanto la stessa si è prestata nel tempo a differenti rivisitazioni.

Prova di ciò è, ad esempio, il diritto romano classico, laddove la concezione di causa nemmeno lontanamente si avvicinava a quella dei moderni giuristi; semplicemente, a dire del diritto romano, il patto incontrava la volontà contrattuale di produrre effetti legali, solo allorquando formalizzato e tipizzato.

A screditare una siffatta e rigida posizione dottrinaria, seguì la teoria giusnaturalista la quale, nello spirito di pura esaltazione della volontà individuale, conferiva al patto la sua efficacia contrattuale sul presupposto dell’elemento consensualistico e volontaristico insito nello stesso, a nulla rilevando, pertanto, l’assenza di formalismo o l’assenza di una ratio che ne sorreggesse la struttura.

È stato solo successivamente, con la ciclica evoluzione del pensiero giuridico europeo-continentale, che si è sviluppato quel principio causalista sulla scorta del quale il semplice patto e, con esso, la semplice volontà d’impegnarsi non sono sufficienti a creare l’impegno legale se non sorretti da una ragione giustificativa, id est dalla causa.

Oggi giorno, superate le reticenze storiche frutto di concezioni arcaiche, rigide e non evolute del diritto, epperò, il tema della causa si presta a divenire il principale oggetto di discussione in quell’annoso dibattito tra i fautori della sua soggettività e quelli che propendono, diversamente, per la teoria oggettiva della causa.

I primi (trattasi prevalentemente dei compilatori del Codice Civile del 1942) rinvengono l’elemento causale nella rappresentazione mentale del contraente, in quello scopo, fine e motivo che induce la parte a prestare il proprio consenso, contrattualmente inteso. Ma così operando finiscono per confondere l’elemento dell’accordo con quello della causa ed è per tale ragione che ad una siffatta corrente di pensiero ha fatto seguito quella prevalente concezione dottrinaria che ravvisa l’essenza dell’elemento causale in un elemento oggettivo, obiettivo e autonomo, distinto e separato dalla rappresentazione psichica della parte.

All’interno dei fautori della teoria oggettiva, si individuano, poi, ulteriori filoni interpretativi. Da una parte, gli esponenti di quella corrente (BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1955), che predilige l’astrattezza della causa, così definendola come funzione economico-sociale sul presupposto di una generica esigenza di socialità propria del contratto, sostrato sulla base del quale si ottiene un suo riconoscimento da parte dell’ordinamento statale. Dall’altra, i fautori della teoria della causa cosiddetta concreta (FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965; BIANCA, Diritto Civile, Vol.3, Il contratto, Milano, 1987, 425 ss.; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 808. ) che definiscono la stessa come la concreta ed individuale funzione economica che le parti hanno voluto attribuire al contratto.

Sia per l’una che per l’altra, non sono di certo mancate critiche. Ed invero, quanto alla prima si è obiettato che il richiamo alla causa come funzione economico-sociale finisce poi per tradursi in una sovrapposizione con il tipo, con l’inevitabile conseguenza che, laddove la causa venga approvata dal legislatore, questi nominerà il corrispondente tipo contrattuale, con l’effetto che ogni contratto legalmente tipico avrà di per sé causa lecita. E a ciò si aggiunga anche che, se fosse vera l’idea che un contratto privo di una positiva specifica utilità sociale vada dichiarato nullo perché privo di causa, ciò sarebbe in linea con un’idea paternalistica dell’autonomia privata che alla fine arriva a negare la stessa.

Quanto alla seconda delle due teorie, invece, la nozione di causa in termini concreti avrebbe insospettito i teorici del diritto circa il prospettarsi di “ritorni” all’idea di soggettività causale. Ma l’equazione causa concreta-causa soggettiva è da bandirsi. Essa, pur nella sua figurazione concreta, va sempre intesa come oggettiva e lontana da quelle motivazioni strettamente individuali di una parte.

Se quelli appena descritti sono gli orientamenti di una dottrina un po’ ondivaga ma che, oggi, proprio per le ragioni sopra spiegate, maggiormente è affezionata a quella teoria della funzione economico-individuale del contratto, la recente giurisprudenza (si veda su tutte: Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 luglio 2007 n. 16315 e Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 aprile 2008 n. 16651), d’altro canto, pur in presenza di contrarie e più risalenti pronunce sul punto, predilige l’opzione della concretezza della causa, costituita, a suo dire, dalle sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente e praticamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato.

2. I motivi del contratto

Avuta ben chiara la qualificazione giuridica fornita in tema di causa, occorre ora sottolineare come dalla causa in re ipsa vadano tenuti distinti i cosiddetti motivi del contratto.

Detta operazione logico sistematica di sostanziale separazione tra i due elementi contrattuali si rende agevole da compiere non per mezzo del richiamo a quella funzione individuale della causa ma mediante il richiamo a quella sua funzione tradizionale tipica. È palese, difatti, che ogni elemento estraneo alla stessa andrà assunto come motivo irrilevante.

Laddove, invece, parametro ai fini della necessaria distinzione dovesse essere quel concetto di causa come funzione economico-individuale, la situazione potrebbe districarsi notevolmente, in quanto andrà compiuta una sorta di selezione tra quelle motivazioni individuali sic et simpliciter e quelle integranti invero la causa del contratto.

Stante la sussistenza di dette problematiche di ordine pratico, si è ritenuto che il criterio maggiormente attendibile per verificarne l’intrinseca portata possa esser quello di esaminare se questi fini ulteriori, questi scopi individuali, abbiano realmente intriso l’economia del contratto.

Ed ecco allora che, allorquando la protezione di un dato interesse sotteso al motivo abbia determinato il sopportare un costo, lo stesso potrà integrare la funzione economica-individuale del contratto. Al di fuori di questa specifica ipotesi, i motivi, pur rilevanti per il singolo, saranno giuridicamente irrilevanti per legge.

3. Natura giuridica e portata applicativa della presupposizione

Orbene, ridefinita la netta demarcazione tra causa e motivi del contratto, attesa l’irrilevanza giuridica addebitata a questi ultimi dall’ordinamento statale, sopraggiunge una figura di matrice giurisprudenziale atta a conferire loro uguale rilevanza: trattasi della presupposizione. Essa altro non è che quella situazione di fatto sul presupposto della quale si erge l’intero regolamento contrattuale e comune, peraltro, ad entrambe le parti.

Chiaro è che ogni qual volta la stessa risulti originariamente insussistente o ogni qual volta essa venga meno successivamente, ciò costituirà la preclusione diretta della realizzazione del negozio.

Quello della presupposizione è un istituto che non trova alcun espresso riconoscimento normativo nel nostro Codice ed è questa la ragion per cui anche in siffatta materia si assiste ad una sostanziosa proliferazione di teorie dottrinarie e giurisprudenziali.

Quanto alle prime, secondo un’opinione più risalente, la nozione di presupposizione coinciderebbe con quella di condizione, in quanto assunta come base negoziale implicita che subordinerebbe la sussistenza del rapporto alla ulteriore sussistenza di una situazione che le parti avevano ben chiara al momento di assunzione dell’obbligo.

Così intesa la presupposizione conferirebbe rilevanza a quei motivi che altrimenti sarebbero privi di considerazione giuridica da parte dell’apparato ordinamentale, con ogni consequenziale critica del caso da parte di chi li ritiene sempre e comunque irrilevanti nell’ambito della materia contrattuale. Secondo poi altra teoria dottrinaria, allorquando la situazione di fatto presupposta venga meno, il vincolo consensuale si scioglie automaticamente ed il contratto diviene inefficace. Altri ancora ne ravvisano l’essenza di errore sul motivo che, in quanto tale, determinerà pur sempre lo scioglimento contrattuale.

Tra queste così differenti correnti di pensiero, quella che merita di esser condivisa è quella ulteriore che ravvisa il fondamento di detto istituto nella clausola di buona fede di cui agli articoli 1362 e 1366 del Codice Civile ( C. M. Bianca).

Sotto il profilo giurisprudenziale (extra multis: Cassazione Civile, Seconda Sezione, 18 settembre 2009 n. 202445), invece, teorie più risalenti rinverrebbero nella presupposizione quella sopravvenienza che legittimerebbe la risoluzione contrattuale ex articolo 1467 del Codice Civile; l’orientamento maggioritario odierno è quello di far riferimento ad essa come ad una condizione implicita, ma meritano di esser, ugualmente, riportate due recenti pronunce innovative nella materia de qua.

Una prima che, parlando di presupposizione, si riferirebbe alle circostanze esterne del contratto il venir meno delle quali legittimerebbe la parte all’esercizio del diritto di recesso (Cassazione, 25 maggio 2007 n. 12235) e una seconda (Cassazione, 24 marzo 2006 n. 6631), ancor più recente, che ha invece ravvisato la definizione di presupposizione in quella zona intermedia tra condizione inespressa risolutiva e venir meno del vincolo contrattuale.

È sullo scorcio di quest’ultima intervenuta pronuncia e, accogliendo quel principio di concretezza della causa, che è doveroso il richiamo a quel discorso afferente il contratto di viaggio tutto compreso.

4. Natura giuridica del contratto di viaggio tutto compreso

Ed invero, detta tipologia contrattuale-comunemente denominata in gergo “pacchetto turistico” costituisce categoria nuova disciplinata dagli attuali articoli 88 e seguenti del Decreto Legislativo n. 206/2006 (Codice del Consumo).

Essa è il combinato di elementi quali il trasporto, l’alloggio e tutta quella gran lista di servizi inerenti l’itinerario, le visite, le escursioni, etc..

Correlando la figura innominata della presupposizione a quella del contratto così descritto, si è inteso consentire lo scioglimento dello stesso anche in caso di sopravvenienze atipiche, ovverosia non predisposte dal legislatore. L’effetto è palesemente multiplo: la caducazione di ogni insita efficacia del dato contratto; la tutela del soggetto sfavorito dalla sopravvenienza anche laddove la medesima si prospetti come non normativizzata.
Una recente giurisprudenza (tra tutte si veda Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 luglio 2007 n. 16315) ha però specificamente statuito che la peculiarità del “package”, così viene tradotto nel diritto anglosassone, è quella di ravvisare nella propria locuzione “finalità turistica” la causa concreta connaturata al contratto, ovverosia l’interesse che lo stesso ha inteso soddisfare e non un motivo giuridicamente irrilevante quale può essere il fine soggettivo di viaggiare per eliminare lo stress da lavoro, per soddisfare un puro interesse culturale o il semplice svago familiare etc., ragion per cui se è lo scopo di piacere la ratio ex articolo 1325 n. 2 del predetto contratto, tutte quelle attività e tutti quei servizi strumentali alla sua concretizzazione non possono che colorarsi di un imprescindibile carattere di essenzialità.

Laddove qualsivoglia sopravvenienza − che non sia tale, specifica la Corte di Cassazione nelle pronunce di cui sopra, da rendere integrante il principio di mancata conservazione degli effetti ex articolo1464 del Codice Civile − pregiudichi anche solo potenzialmente la loro realizzazione rendendole inutilizzabili ma non materialmente impossibili, la stessa sarà, ad ogni modo, tale da incidere anche sulla causa del contratto.

Rimedio, a tal fine, offerto dalla giurisprudenza, sarà allora quello per l’interprete di gestire le date sopravvenienze, senza prendere posizione alcuna su un fronte o su un altro, ma cercando semplicemente di contemperare gli interessi in gioco delle parti contraenti, conformemente ad un principio di equità e buona fede.

La posizione degli Ermellini sopra citata si presta ad esser, oggi, oggetto di non poche censure da parte di chi temi l’insorgenza di pretese risarcitorie di ogni sorta nel contesto di contratti come quelli turistici “all inclusive” e da parte di quella dottrina che mal comprende come e se la presupposizione possa ugualmente trovare terreno di applicazione in detti ambiti e che accusa la giurisprudenza di legittimità di aver determinato quella confusione di fatto e di diritto della causa con i motivi.

È pur vero, d’altro canto, che se si parlasse della causa del pacchetto turistico come di un elemento essenziale astratto, inteso nella sua accezione tradizionale di funzione economico-sociale, e non concreto come finora spiegato, è evidente come l’insussistenza della finalità turistica determinerebbe un vizio contrattuale ben più grave sul negozio, ovverosia quello della sua nullità.

 

1. La causa del contratto

Al libro IV, nel titolo dedicato alla categoria dei contratti in generale, nel suo capo II, rubricato “dei requisiti del contratto”, l’articolo 1325 del Codice Civile individua tra questi ultimi la causa. Essa costituisce, assieme all’accordo, all’oggetto e alla forma, uno di quei fondamenti del negozio, in difetto dei quali il contratto è irrimediabilmente affetto da nullità manifesta. Essa altro non è che la ragione giustificativa sottesa al contratto, quel suo elemento essenziale in assenza del quale viene meno l’attribuzione al contratto della “forza di legge tra le parti” ex articolo 1372 del Codice Civile.

Ancor prima di esplicarne dettagliatamente la nozione, e il significato conferitole dall’odierna giurisprudenza e dall’opinione dottrinaria, occorre procedere ad un excursus storico-giuridico in materia di causa, in quanto la stessa si è prestata nel tempo a differenti rivisitazioni.

Prova di ciò è, ad esempio, il diritto romano classico, laddove la concezione di causa nemmeno lontanamente si avvicinava a quella dei moderni giuristi; semplicemente, a dire del diritto romano, il patto incontrava la volontà contrattuale di produrre effetti legali, solo allorquando formalizzato e tipizzato.

A screditare una siffatta e rigida posizione dottrinaria, seguì la teoria giusnaturalista la quale, nello spirito di pura esaltazione della volontà individuale, conferiva al patto la sua efficacia contrattuale sul presupposto dell’elemento consensualistico e volontaristico insito nello stesso, a nulla rilevando, pertanto, l’assenza di formalismo o l’assenza di una ratio che ne sorreggesse la struttura.

È stato solo successivamente, con la ciclica evoluzione del pensiero giuridico europeo-continentale, che si è sviluppato quel principio causalista sulla scorta del quale il semplice patto e, con esso, la semplice volontà d’impegnarsi non sono sufficienti a creare l’impegno legale se non sorretti da una ragione giustificativa, id est dalla causa.

Oggi giorno, superate le reticenze storiche frutto di concezioni arcaiche, rigide e non evolute del diritto, epperò, il tema della causa si presta a divenire il principale oggetto di discussione in quell’annoso dibattito tra i fautori della sua soggettività e quelli che propendono, diversamente, per la teoria oggettiva della causa.

I primi (trattasi prevalentemente dei compilatori del Codice Civile del 1942) rinvengono l’elemento causale nella rappresentazione mentale del contraente, in quello scopo, fine e motivo che induce la parte a prestare il proprio consenso, contrattualmente inteso. Ma così operando finiscono per confondere l’elemento dell’accordo con quello della causa ed è per tale ragione che ad una siffatta corrente di pensiero ha fatto seguito quella prevalente concezione dottrinaria che ravvisa l’essenza dell’elemento causale in un elemento oggettivo, obiettivo e autonomo, distinto e separato dalla rappresentazione psichica della parte.

All’interno dei fautori della teoria oggettiva, si individuano, poi, ulteriori filoni interpretativi. Da una parte, gli esponenti di quella corrente (BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1955), che predilige l’astrattezza della causa, così definendola come funzione economico-sociale sul presupposto di una generica esigenza di socialità propria del contratto, sostrato sulla base del quale si ottiene un suo riconoscimento da parte dell’ordinamento statale. Dall’altra, i fautori della teoria della causa cosiddetta concreta (FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965; BIANCA, Diritto Civile, Vol.3, Il contratto, Milano, 1987, 425 ss.; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 808. ) che definiscono la stessa come la concreta ed individuale funzione economica che le parti hanno voluto attribuire al contratto.

Sia per l’una che per l’altra, non sono di certo mancate critiche. Ed invero, quanto alla prima si è obiettato che il richiamo alla causa come funzione economico-sociale finisce poi per tradursi in una sovrapposizione con il tipo, con l’inevitabile conseguenza che, laddove la causa venga approvata dal legislatore, questi nominerà il corrispondente tipo contrattuale, con l’effetto che ogni contratto legalmente tipico avrà di per sé causa lecita. E a ciò si aggiunga anche che, se fosse vera l’idea che un contratto privo di una positiva specifica utilità sociale vada dichiarato nullo perché privo di causa, ciò sarebbe in linea con un’idea paternalistica dell’autonomia privata che alla fine arriva a negare la stessa.

Quanto alla seconda delle due teorie, invece, la nozione di causa in termini concreti avrebbe insospettito i teorici del diritto circa il prospettarsi di “ritorni” all’idea di soggettività causale. Ma l’equazione causa concreta-causa soggettiva è da bandirsi. Essa, pur nella sua figurazione concreta, va sempre intesa come oggettiva e lontana da quelle motivazioni strettamente individuali di una parte.

Se quelli appena descritti sono gli orientamenti di una dottrina un po’ ondivaga ma che, oggi, proprio per le ragioni sopra spiegate, maggiormente è affezionata a quella teoria della funzione economico-individuale del contratto, la recente giurisprudenza (si veda su tutte: Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 luglio 2007 n. 16315 e Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 aprile 2008 n. 16651), d’altro canto, pur in presenza di contrarie e più risalenti pronunce sul punto, predilige l’opzione della concretezza della causa, costituita, a suo dire, dalle sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente e praticamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto utilizzato.

2. I motivi del contratto

Avuta ben chiara la qualificazione giuridica fornita in tema di causa, occorre ora sottolineare come dalla causa in re ipsa vadano tenuti distinti i cosiddetti motivi del contratto.

Detta operazione logico sistematica di sostanziale separazione tra i due elementi contrattuali si rende agevole da compiere non per mezzo del richiamo a quella funzione individuale della causa ma mediante il richiamo a quella sua funzione tradizionale tipica. È palese, difatti, che ogni elemento estraneo alla stessa andrà assunto come motivo irrilevante.

Laddove, invece, parametro ai fini della necessaria distinzione dovesse essere quel concetto di causa come funzione economico-individuale, la situazione potrebbe districarsi notevolmente, in quanto andrà compiuta una sorta di selezione tra quelle motivazioni individuali sic et simpliciter e quelle integranti invero la causa del contratto.

Stante la sussistenza di dette problematiche di ordine pratico, si è ritenuto che il criterio maggiormente attendibile per verificarne l’intrinseca portata possa esser quello di esaminare se questi fini ulteriori, questi scopi individuali, abbiano realmente intriso l’economia del contratto.

Ed ecco allora che, allorquando la protezione di un dato interesse sotteso al motivo abbia determinato il sopportare un costo, lo stesso potrà integrare la funzione economica-individuale del contratto. Al di fuori di questa specifica ipotesi, i motivi, pur rilevanti per il singolo, saranno giuridicamente irrilevanti per legge.

3. Natura giuridica e portata applicativa della presupposizione

Orbene, ridefinita la netta demarcazione tra causa e motivi del contratto, attesa l’irrilevanza giuridica addebitata a questi ultimi dall’ordinamento statale, sopraggiunge una figura di matrice giurisprudenziale atta a conferire loro uguale rilevanza: trattasi della presupposizione. Essa altro non è che quella situazione di fatto sul presupposto della quale si erge l’intero regolamento contrattuale e comune, peraltro, ad entrambe le parti.

Chiaro è che ogni qual volta la stessa risulti originariamente insussistente o ogni qual volta essa venga meno successivamente, ciò costituirà la preclusione diretta della realizzazione del negozio.

Quello della presupposizione è un istituto che non trova alcun espresso riconoscimento normativo nel nostro Codice ed è questa la ragion per cui anche in siffatta materia si assiste ad una sostanziosa proliferazione di teorie dottrinarie e giurisprudenziali.

Quanto alle prime, secondo un’opinione più risalente, la nozione di presupposizione coinciderebbe con quella di condizione, in quanto assunta come base negoziale implicita che subordinerebbe la sussistenza del rapporto alla ulteriore sussistenza di una situazione che le parti avevano ben chiara al momento di assunzione dell’obbligo.

Così intesa la presupposizione conferirebbe rilevanza a quei motivi che altrimenti sarebbero privi di considerazione giuridica da parte dell’apparato ordinamentale, con ogni consequenziale critica del caso da parte di chi li ritiene sempre e comunque irrilevanti nell’ambito della materia contrattuale. Secondo poi altra teoria dottrinaria, allorquando la situazione di fatto presupposta venga meno, il vincolo consensuale si scioglie automaticamente ed il contratto diviene inefficace. Altri ancora ne ravvisano l’essenza di errore sul motivo che, in quanto tale, determinerà pur sempre lo scioglimento contrattuale.

Tra queste così differenti correnti di pensiero, quella che merita di esser condivisa è quella ulteriore che ravvisa il fondamento di detto istituto nella clausola di buona fede di cui agli articoli 1362 e 1366 del Codice Civile ( C. M. Bianca).

Sotto il profilo giurisprudenziale (extra multis: Cassazione Civile, Seconda Sezione, 18 settembre 2009 n. 202445), invece, teorie più risalenti rinverrebbero nella presupposizione quella sopravvenienza che legittimerebbe la risoluzione contrattuale ex articolo 1467 del Codice Civile; l’orientamento maggioritario odierno è quello di far riferimento ad essa come ad una condizione implicita, ma meritano di esser, ugualmente, riportate due recenti pronunce innovative nella materia de qua.

Una prima che, parlando di presupposizione, si riferirebbe alle circostanze esterne del contratto il venir meno delle quali legittimerebbe la parte all’esercizio del diritto di recesso (Cassazione, 25 maggio 2007 n. 12235) e una seconda (Cassazione, 24 marzo 2006 n. 6631), ancor più recente, che ha invece ravvisato la definizione di presupposizione in quella zona intermedia tra condizione inespressa risolutiva e venir meno del vincolo contrattuale.

È sullo scorcio di quest’ultima intervenuta pronuncia e, accogliendo quel principio di concretezza della causa, che è doveroso il richiamo a quel discorso afferente il contratto di viaggio tutto compreso.

4. Natura giuridica del contratto di viaggio tutto compreso

Ed invero, detta tipologia contrattuale-comunemente denominata in gergo “pacchetto turistico” costituisce categoria nuova disciplinata dagli attuali articoli 88 e seguenti del Decreto Legislativo n. 206/2006 (Codice del Consumo).

Essa è il combinato di elementi quali il trasporto, l’alloggio e tutta quella gran lista di servizi inerenti l’itinerario, le visite, le escursioni, etc..

Correlando la figura innominata della presupposizione a quella del contratto così descritto, si è inteso consentire lo scioglimento dello stesso anche in caso di sopravvenienze atipiche, ovverosia non predisposte dal legislatore. L’effetto è palesemente multiplo: la caducazione di ogni insita efficacia del dato contratto; la tutela del soggetto sfavorito dalla sopravvenienza anche laddove la medesima si prospetti come non normativizzata.
Una recente giurisprudenza (tra tutte si veda Cassazione Civile, Terza Sezione, 24 luglio 2007 n. 16315) ha però specificamente statuito che la peculiarità del “package”, così viene tradotto nel diritto anglosassone, è quella di ravvisare nella propria locuzione “finalità turistica” la causa concreta connaturata al contratto, ovverosia l’interesse che lo stesso ha inteso soddisfare e non un motivo giuridicamente irrilevante quale può essere il fine soggettivo di viaggiare per eliminare lo stress da lavoro, per soddisfare un puro interesse culturale o il semplice svago familiare etc., ragion per cui se è lo scopo di piacere la ratio ex articolo 1325 n. 2 del predetto contratto, tutte quelle attività e tutti quei servizi strumentali alla sua concretizzazione non possono che colorarsi di un imprescindibile carattere di essenzialità.

Laddove qualsivoglia sopravvenienza − che non sia tale, specifica la Corte di Cassazione nelle pronunce di cui sopra, da rendere integrante il principio di mancata conservazione degli effetti ex articolo1464 del Codice Civile − pregiudichi anche solo potenzialmente la loro realizzazione rendendole inutilizzabili ma non materialmente impossibili, la stessa sarà, ad ogni modo, tale da incidere anche sulla causa del contratto.

Rimedio, a tal fine, offerto dalla giurisprudenza, sarà allora quello per l’interprete di gestire le date sopravvenienze, senza prendere posizione alcuna su un fronte o su un altro, ma cercando semplicemente di contemperare gli interessi in gioco delle parti contraenti, conformemente ad un principio di equità e buona fede.

La posizione degli Ermellini sopra citata si presta ad esser, oggi, oggetto di non poche censure da parte di chi temi l’insorgenza di pretese risarcitorie di ogni sorta nel contesto di contratti come quelli turistici “all inclusive” e da parte di quella dottrina che mal comprende come e se la presupposizione possa ugualmente trovare terreno di applicazione in detti ambiti e che accusa la giurisprudenza di legittimità di aver determinato quella confusione di fatto e di diritto della causa con i motivi.

È pur vero, d’altro canto, che se si parlasse della causa del pacchetto turistico come di un elemento essenziale astratto, inteso nella sua accezione tradizionale di funzione economico-sociale, e non concreto come finora spiegato, è evidente come l’insussistenza della finalità turistica determinerebbe un vizio contrattuale ben più grave sul negozio, ovverosia quello della sua nullità.