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Tfr in busta paga

Abstract

Riecco il dibattito sul Tfr. Dura da venti anni e non può non trovarci tutti, tecnici e diretti interessati, sfibrati e stanchi. Di smobilizzo del Tfr me ne sono occupato per la prima volta nel 1994, Milano, tesi di laurea con il Prof. Roberto Artoni.

Nel frattempo, solo in parte è andato a finanziare il pilastro previdenziale privato, in parte è rimasto presso le imprese, in parte è confluito a vario titolo all’Inps. È il risultato di riforme incompiute che, invece di avviare un nuovo corso, hanno mantenuto parti del vecchio e parti del nuovo. E così è stato anche per quanto riguarda Tfs e Tfr nel comparto pubblico.

La proposta del Governo rischia di muoversi né più né meno su questo stesso filone. Molti dubbi sulla sua efficacia di stimolare i consumi e, nel contempo, complessità operative e rischi.

Dal raffronto tra vantaggi e criticità, che sinteticamente si propone in questo scritto, emerge un messaggio chiaro per la policy: non sembra affatto una buona idea attivare adesso, in questo frangente e in questi termini, il passaggio in busta paga degli accantonamenti Tfr. Il Tfr sarebbe un cattivo “meccanismo di trasmissione” per lo stimolo alla domanda. Per rilanciare i consumi e la crescita servono leve più dirette, libere da contraddizioni e dubbi sia di natura economica che di interpretazione giuridica.

Soprattutto, servono leve che iniettino nel sistema economico risorse realmente fresche, e non leve che redistribuiscano tra operatori - lavoratori e datori - risorse già esistenti. Perché in fin dei conti è questo che accade: anche se sono previsti prestiti compensativi alle imprese, in questo frangente gli interventi straordinari della Bce e le operazioni della Cassa Deposti e Prestiti dovrebbero già fare di tutto per arrivare alle imprese e alle famiglie e stimolare investimenti e domanda, senza dipendere dai meccanismi tortuosi del Tfr.

Infatti, per le sue caratteristiche, e soprattutto per le modifiche parziali, frammentate e non risolutive da cui è già stato interessato, il Tfr non si presta allo scopo, non può essere una leva diretta, rapida e certa. Al contrario, si rischia di metter mano, con finalità congiunturali e guardando soltanto al breve periodo, a un tassello sulla carta piccolo ma che occupa una posizione importante nei ridisegni di struttura della contrattazione del costo del lavoro, nell’equiparazione tra lavoro privato e lavoro pubblico, nella modernizzazione del sistema pensionistico e di welfare.

Meglio, molto meglio puntare su interventi di rilancio della domanda indipendenti, in se stessi compiuti, lineari e indirizzati a tutti i lavoratori senza alcun distinguo e alcuna clausola normativa settoriale. Per non legarsi le mani per quando, la crisi alle spalle, si potrà metter mano al Tfr per dare un assetto nuovo e organico a tutta la materia. Sperando presto di non dover imbastire altri dibattiti di policy sul Tfr, avendolo già tutto dedicato stabilmente a moderni strumenti di previdenza complementare.

Per visualizzare l'intero contributo clicca qui.

Abstract

Riecco il dibattito sul Tfr. Dura da venti anni e non può non trovarci tutti, tecnici e diretti interessati, sfibrati e stanchi. Di smobilizzo del Tfr me ne sono occupato per la prima volta nel 1994, Milano, tesi di laurea con il Prof. Roberto Artoni.

Nel frattempo, solo in parte è andato a finanziare il pilastro previdenziale privato, in parte è rimasto presso le imprese, in parte è confluito a vario titolo all’Inps. È il risultato di riforme incompiute che, invece di avviare un nuovo corso, hanno mantenuto parti del vecchio e parti del nuovo. E così è stato anche per quanto riguarda Tfs e Tfr nel comparto pubblico.

La proposta del Governo rischia di muoversi né più né meno su questo stesso filone. Molti dubbi sulla sua efficacia di stimolare i consumi e, nel contempo, complessità operative e rischi.

Dal raffronto tra vantaggi e criticità, che sinteticamente si propone in questo scritto, emerge un messaggio chiaro per la policy: non sembra affatto una buona idea attivare adesso, in questo frangente e in questi termini, il passaggio in busta paga degli accantonamenti Tfr. Il Tfr sarebbe un cattivo “meccanismo di trasmissione” per lo stimolo alla domanda. Per rilanciare i consumi e la crescita servono leve più dirette, libere da contraddizioni e dubbi sia di natura economica che di interpretazione giuridica.

Soprattutto, servono leve che iniettino nel sistema economico risorse realmente fresche, e non leve che redistribuiscano tra operatori - lavoratori e datori - risorse già esistenti. Perché in fin dei conti è questo che accade: anche se sono previsti prestiti compensativi alle imprese, in questo frangente gli interventi straordinari della Bce e le operazioni della Cassa Deposti e Prestiti dovrebbero già fare di tutto per arrivare alle imprese e alle famiglie e stimolare investimenti e domanda, senza dipendere dai meccanismi tortuosi del Tfr.

Infatti, per le sue caratteristiche, e soprattutto per le modifiche parziali, frammentate e non risolutive da cui è già stato interessato, il Tfr non si presta allo scopo, non può essere una leva diretta, rapida e certa. Al contrario, si rischia di metter mano, con finalità congiunturali e guardando soltanto al breve periodo, a un tassello sulla carta piccolo ma che occupa una posizione importante nei ridisegni di struttura della contrattazione del costo del lavoro, nell’equiparazione tra lavoro privato e lavoro pubblico, nella modernizzazione del sistema pensionistico e di welfare.

Meglio, molto meglio puntare su interventi di rilancio della domanda indipendenti, in se stessi compiuti, lineari e indirizzati a tutti i lavoratori senza alcun distinguo e alcuna clausola normativa settoriale. Per non legarsi le mani per quando, la crisi alle spalle, si potrà metter mano al Tfr per dare un assetto nuovo e organico a tutta la materia. Sperando presto di non dover imbastire altri dibattiti di policy sul Tfr, avendolo già tutto dedicato stabilmente a moderni strumenti di previdenza complementare.

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