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La lingua matrigna: do you speak giuridichese?

La lingua matrigna: do you speak giuridichese?
La lingua matrigna: do you speak giuridichese?

Quante volte, nelle notti insonni in compagnia di atti in scadenza, capita facciano capolino espressioni che lasciano perplessi (no, non perplimono) i probi avvocati e dottori del mestiere?

Si convive, quali operatori del diritto, con l’uso improbabile e talvolta fantasioso di espressioni quali “ricordo a me stesso che”, “come ella mi insegna” (chi?), “de quo” “de qua”, “spettabilissimo/gentilissimo/egregio/chiarissimo” nella ricerca di quelle più paludate - rectius, antiquate e formali - possibili.

Dulcis in fundo, in calce all’atto si può rinvenire “nella denegata e non creduta ipotesi in cui l’Ill.mo Giudice adito…” anticipando con una chicane la valutazione del pio giudicante: magari non ci darà ragione, in compenso ci assicuriamo che rimanga stordito dalla perifrasi. Non sarebbe forse meglio scrivere con linguaggio più limpido?

Alcune di queste espressioni - infatti - non trovano alcun riscontro nella lingua corrente, altre subiscono storpiature, altre finiscono per essere non altro che uno sfoggio di vetustà inutilmente complicato: val bene far un po’ d’ordine in rassegna su alcune espressioni di uso comune.

- “Questa controversia è da transare”: sentito o non sentito personalmente, “transare” - nell’accezione di “comporre una lite con reciproche concessioni” - non è che la forma impropria di transigere, erroneamente ricostruita sul participio passato transatto.

Il GRADIT lo riporta come “un tecnicismo, di ambito giuridico o burocratico, nel significato di transigere”. Dunque, nell’uso bancario, siamo indotti ad accettarlo con moderata perplessità: usiamolo solo in quest’ambito, dove può assumere una sfumatura diversa da transigere.  Attenzione però: il lemma risulta comunque tra gli errori più insidiosi secondo lo Zingarelli, perché fondato sulla corrispondenza operazione (transazione) -> operare (transare), quando il riferimento corretto sarebbe al verbo transigere, il cui participio passato è transatto con due t (da -actum) e non transato (che, più probabilmente, sarà il participio passato di..transare).

In conclusione forse è meglio non transigere sull’uso di transare. 

- “Sulla scorta di un tanto si produce altresì documentazione…”: ecco un pronome dimostrativo. Si faccia attenzione: questo peregrino nasce da un uso dell’Italia nord-orientale, più precisamente del Friuli Venezia Giulia. Senza articolo lo si può trovare, camuffato in scritti amministrativi, per equivalente della congiunzione pertanto. Gli esempi nella letteratura italiana, però, rimangono isolati in penne che appartengono all’area geografica sopra indicata (Italo Svevo): sulla scorta di un tanto, ricordiamo che gli usi regionali, non appartenendo al linguaggio italiano standard, andrebbero per buona norma evitati nei contesti...professionali.

- “Di talché non si può non vedere come…”: ferma restando la discutibile scelta stilistica della doppia negazione, guardiamo bene a questo connettivo talché. Il misero composto di - tal - ché, in verità, non si trova nelle leggi di un certo rango, né in diversi dizionari: perciò, pur non essendo una autentica stortura grammaticale, pare non gli venga fatto alcun onore di lemma. Eppure, in quante sentenze si trova frequentemente con valore consecutivo o dichiarativo? Talché non serve. Intendesi, lo smalto del giurista accorto passa per ben altre raffinatezze che non espressioni dal sapore antico e tutt’altro che auliche: prima di tutto, sarebbe buona norma perseguire la chiarezza, cui talché non giova.

- “Adirò le vie opportune vie legali”: al di là della prospettazione minacciosa (che minaccia non è, in quanto forse il male è giustificatissimo, sic!) questa espressione di suono ottocentesco può destare più di qualche dubbio con riferimento alla sua reggenza: ci si potrebbe domandare, quantomeno, se il verbo adire sia transitivo o intransitivo e si scoprirebbe che ne esistono ambedue le versioni. Utilizzarlo nel senso di “ricorrere al giudice” ne fa lievitare il contenuto, in quanto composto latino di ad-ĭre “andare verso, raggiungere, avvicinarsi a”. Ebbene, l’unica forma corretta sarebbe transitiva, senza la preposizione “a/allo/alle”. Il verbo ire ha però retto - a onor del vero - per centinaia d’anni la proposizione “ad”: forse da questo si è mutuato l’uso invalso di attaccare la corrispondente, in lingua corrente. Ciò non toglie che adire non vuol preposizioni per, a, nel. Se non si preferisce usarlo col senso più autentico, e quindi transitivo, forse sarebbe meglio trovare un termine meno capzioso.

- “Giusta procura a margine/in calce…”: iuxta alligata et probata, quante volte lo abbiamo trovato nei libri di procedura civile. La preposizione “giusta…” deriva dal latino "iuxta”, a sua volta da “iungere”, “arrivar vicino”: è una preposizione piuttosto arcaica. La si trova all’articolo 116 codice civile, “giusta le leggi”, in un’espressione dove ben l’accompagna l’articolo determinativo: come la sua corrispondente latina, è bene però ricordare che è e deve rimanere invariabile, indipendentemente dal genere che la segue.

- “Non occorre redarre questa conclusionale: i termini sono scaduti”. L’infelice verbo (infelice almeno tanto quanto il professionista che ha fatto spirare i termini invano) redarre è uno sfortunato paradigma entrato a far parte della lingua italiana modellandosi sul participio passato “redatto” di redigere, senza titolo. Anche se scomodato in qualche quotidiano, esso viene unanimemente condannato da lessicografi e linguisti, fra i quali l’isolato De Mauro che lo qualifica niente più che “basso uso di redigere”.  Retroformatosi dal participio di altro verbo, dunque, non può che essere – una volta per tutte – considerato sbagliato, se non peggio inesistente quanto il cavaliere di Calvino: non si usi.

- “Non risulta dimostrato quanto asseritamente preteso da controparte…”: ecco l’avverbio nel suo habitat naturale, riportato in testi di natura giuridica con la accezione di “secondo quanto sostenuto (unilateralmente)”. Diffusissimo, derivato dal verbo asserire “sostenere, dichiarare”, per il passato il verbo asserěre latino aveva assunto il significato, giuridicamente valido, di “rivendicare il possesso” con riferimento particolare ad uno schiavo: da questo deriva che ancor oggi nel linguaggio del diritto ‘asserire qualcosa in giudizio’ equivale a ‘vantare una pretesa in un processo’ (Sabatini-Coletti 2008). E’ una scelta originale ed efficace per riportare discorsi di terzi di cui non si possa garantire la pedissequa riproduzione, ed è unico nel suo significato. Da adottare senza rimorsi, anche fuori dall’ambito giuridico.

- “Il giudice ha comminato la pena Y nei confronti di X”: comminare, qui nel senso di infliggere una condanna, trova diffusione in scritti, atti e testi legislativi. In realtà il senso originario latino, dal verbo comminari, vorrebbe quale sinonimo “minacciare”: pertanto è un dettato di legge che commina, ma un giudice che irroga o infligge. Lo Zingarelli ne dà quale significato “stabilire una pena per i trasgressori della legge”: dunque abbiamo un riconosciuto, ed ormai invalso, slittamento di significato per similitudine (“commina” non solo la legge che prevede la sanzione, ma anche il magistrato che irroga la sanzione). 

- Nelle more del processo. Ovvero, come riporta il Vocabolario Treccani, con il senso di "nell’intervallo di tempo che intercorre fra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione: nelle more del giudizio, nel periodo che precede la definizione della sentenza". Certamente la locuzione è tipica del linguaggio giuridico e derivata ancora da Giustiniano, dove “mora” è l’indugio e poi il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione (GRADIT). Da lì, mora è divenuto anche sostantivo per indicare l’interesse legale/convenzionale da pagare in conseguenza di ritardo nell’adempimento. Ancora: “nelle more” ora è diffuso col senso generico di “nel frattempo, in attesa di”. Nelle more di imparare ad usarlo, nessuna particolare prescrizione (contraria).

- “Più specificatamente, si veda il doc. 8”. Questa forma avverbiale con il significato di “in modo dettagliato, particolare” spesso è infaticabilmente stigmatizzata da professori, educatori, titolari, formatori, motivatori - e chi ne ha più ne metta - in favore della cugina “specificamente”. È ben vero, si rifletta però, che non tutti gli avverbi seguono diretta corrispondenza con l’aggettivo (mi rivolgo a malamente da malo, finalmente da fine): inoltre, queste due forme compaiono nello stesso periodo l’una quale derivata del participio passato con funzione aggettivale (specificato), l’altra dall’aggettivo specifico.

L’avverbio specificatamente viene usato certo più di rado - considerata la sconfessione che ne vien fatta - ma a guardare specificamente il dizionario, non si riscontrano motivazioni a suffragio di qualunque censura nei suoi confronti.

Da ultimo e non meno importante: pensateci bene prima di scrivere al (o del) vostro collega fregiandolo della maiuscola: Avvocato con la maiuscola, anziché essere una raffinatezza, è sconsigliabile poiché avvocato è nome comune che indica l’appartenenza a una categoria per giunta risaputamente nutrita (a meno che non sia l’Avvocato per antonomasia, Gianni Agnelli).

L’avvocato di cui (o cui) scrivete appartiene all’albo tanto quanto voi. Riservargli a forza la maiuscola in atti e in corrispondenza, francamente, sa più di forma di autocompiacimento distintivo e mal mascherato che non di rispetto. Siamo sicuri che questo non solo verso i colleghi, ma anche nei confronti dei giudicanti oberati di pagine, traluce più che dall’ortografia ricercata dal comportamento deontologicamente ineccepibile in fatti: tanto meglio se unito a una sana, per una volta accattivante chiarezza espositiva.

Quante volte, nelle notti insonni in compagnia di atti in scadenza, capita facciano capolino espressioni che lasciano perplessi (no, non perplimono) i probi avvocati e dottori del mestiere?

Si convive, quali operatori del diritto, con l’uso improbabile e talvolta fantasioso di espressioni quali “ricordo a me stesso che”, “come ella mi insegna” (chi?), “de quo” “de qua”, “spettabilissimo/gentilissimo/egregio/chiarissimo” nella ricerca di quelle più paludate - rectius, antiquate e formali - possibili.

Dulcis in fundo, in calce all’atto si può rinvenire “nella denegata e non creduta ipotesi in cui l’Ill.mo Giudice adito…” anticipando con una chicane la valutazione del pio giudicante: magari non ci darà ragione, in compenso ci assicuriamo che rimanga stordito dalla perifrasi. Non sarebbe forse meglio scrivere con linguaggio più limpido?

Alcune di queste espressioni - infatti - non trovano alcun riscontro nella lingua corrente, altre subiscono storpiature, altre finiscono per essere non altro che uno sfoggio di vetustà inutilmente complicato: val bene far un po’ d’ordine in rassegna su alcune espressioni di uso comune.

- “Questa controversia è da transare”: sentito o non sentito personalmente, “transare” - nell’accezione di “comporre una lite con reciproche concessioni” - non è che la forma impropria di transigere, erroneamente ricostruita sul participio passato transatto.

Il GRADIT lo riporta come “un tecnicismo, di ambito giuridico o burocratico, nel significato di transigere”. Dunque, nell’uso bancario, siamo indotti ad accettarlo con moderata perplessità: usiamolo solo in quest’ambito, dove può assumere una sfumatura diversa da transigere.  Attenzione però: il lemma risulta comunque tra gli errori più insidiosi secondo lo Zingarelli, perché fondato sulla corrispondenza operazione (transazione) -> operare (transare), quando il riferimento corretto sarebbe al verbo transigere, il cui participio passato è transatto con due t (da -actum) e non transato (che, più probabilmente, sarà il participio passato di..transare).

In conclusione forse è meglio non transigere sull’uso di transare. 

- “Sulla scorta di un tanto si produce altresì documentazione…”: ecco un pronome dimostrativo. Si faccia attenzione: questo peregrino nasce da un uso dell’Italia nord-orientale, più precisamente del Friuli Venezia Giulia. Senza articolo lo si può trovare, camuffato in scritti amministrativi, per equivalente della congiunzione pertanto. Gli esempi nella letteratura italiana, però, rimangono isolati in penne che appartengono all’area geografica sopra indicata (Italo Svevo): sulla scorta di un tanto, ricordiamo che gli usi regionali, non appartenendo al linguaggio italiano standard, andrebbero per buona norma evitati nei contesti...professionali.

- “Di talché non si può non vedere come…”: ferma restando la discutibile scelta stilistica della doppia negazione, guardiamo bene a questo connettivo talché. Il misero composto di - tal - ché, in verità, non si trova nelle leggi di un certo rango, né in diversi dizionari: perciò, pur non essendo una autentica stortura grammaticale, pare non gli venga fatto alcun onore di lemma. Eppure, in quante sentenze si trova frequentemente con valore consecutivo o dichiarativo? Talché non serve. Intendesi, lo smalto del giurista accorto passa per ben altre raffinatezze che non espressioni dal sapore antico e tutt’altro che auliche: prima di tutto, sarebbe buona norma perseguire la chiarezza, cui talché non giova.

- “Adirò le vie opportune vie legali”: al di là della prospettazione minacciosa (che minaccia non è, in quanto forse il male è giustificatissimo, sic!) questa espressione di suono ottocentesco può destare più di qualche dubbio con riferimento alla sua reggenza: ci si potrebbe domandare, quantomeno, se il verbo adire sia transitivo o intransitivo e si scoprirebbe che ne esistono ambedue le versioni. Utilizzarlo nel senso di “ricorrere al giudice” ne fa lievitare il contenuto, in quanto composto latino di ad-ĭre “andare verso, raggiungere, avvicinarsi a”. Ebbene, l’unica forma corretta sarebbe transitiva, senza la preposizione “a/allo/alle”. Il verbo ire ha però retto - a onor del vero - per centinaia d’anni la proposizione “ad”: forse da questo si è mutuato l’uso invalso di attaccare la corrispondente, in lingua corrente. Ciò non toglie che adire non vuol preposizioni per, a, nel. Se non si preferisce usarlo col senso più autentico, e quindi transitivo, forse sarebbe meglio trovare un termine meno capzioso.

- “Giusta procura a margine/in calce…”: iuxta alligata et probata, quante volte lo abbiamo trovato nei libri di procedura civile. La preposizione “giusta…” deriva dal latino "iuxta”, a sua volta da “iungere”, “arrivar vicino”: è una preposizione piuttosto arcaica. La si trova all’articolo 116 codice civile, “giusta le leggi”, in un’espressione dove ben l’accompagna l’articolo determinativo: come la sua corrispondente latina, è bene però ricordare che è e deve rimanere invariabile, indipendentemente dal genere che la segue.

- “Non occorre redarre questa conclusionale: i termini sono scaduti”. L’infelice verbo (infelice almeno tanto quanto il professionista che ha fatto spirare i termini invano) redarre è uno sfortunato paradigma entrato a far parte della lingua italiana modellandosi sul participio passato “redatto” di redigere, senza titolo. Anche se scomodato in qualche quotidiano, esso viene unanimemente condannato da lessicografi e linguisti, fra i quali l’isolato De Mauro che lo qualifica niente più che “basso uso di redigere”.  Retroformatosi dal participio di altro verbo, dunque, non può che essere – una volta per tutte – considerato sbagliato, se non peggio inesistente quanto il cavaliere di Calvino: non si usi.

- “Non risulta dimostrato quanto asseritamente preteso da controparte…”: ecco l’avverbio nel suo habitat naturale, riportato in testi di natura giuridica con la accezione di “secondo quanto sostenuto (unilateralmente)”. Diffusissimo, derivato dal verbo asserire “sostenere, dichiarare”, per il passato il verbo asserěre latino aveva assunto il significato, giuridicamente valido, di “rivendicare il possesso” con riferimento particolare ad uno schiavo: da questo deriva che ancor oggi nel linguaggio del diritto ‘asserire qualcosa in giudizio’ equivale a ‘vantare una pretesa in un processo’ (Sabatini-Coletti 2008). E’ una scelta originale ed efficace per riportare discorsi di terzi di cui non si possa garantire la pedissequa riproduzione, ed è unico nel suo significato. Da adottare senza rimorsi, anche fuori dall’ambito giuridico.

- “Il giudice ha comminato la pena Y nei confronti di X”: comminare, qui nel senso di infliggere una condanna, trova diffusione in scritti, atti e testi legislativi. In realtà il senso originario latino, dal verbo comminari, vorrebbe quale sinonimo “minacciare”: pertanto è un dettato di legge che commina, ma un giudice che irroga o infligge. Lo Zingarelli ne dà quale significato “stabilire una pena per i trasgressori della legge”: dunque abbiamo un riconosciuto, ed ormai invalso, slittamento di significato per similitudine (“commina” non solo la legge che prevede la sanzione, ma anche il magistrato che irroga la sanzione). 

- Nelle more del processo. Ovvero, come riporta il Vocabolario Treccani, con il senso di "nell’intervallo di tempo che intercorre fra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione: nelle more del giudizio, nel periodo che precede la definizione della sentenza". Certamente la locuzione è tipica del linguaggio giuridico e derivata ancora da Giustiniano, dove “mora” è l’indugio e poi il ritardo nell’adempimento di un’obbligazione (GRADIT). Da lì, mora è divenuto anche sostantivo per indicare l’interesse legale/convenzionale da pagare in conseguenza di ritardo nell’adempimento. Ancora: “nelle more” ora è diffuso col senso generico di “nel frattempo, in attesa di”. Nelle more di imparare ad usarlo, nessuna particolare prescrizione (contraria).

- “Più specificatamente, si veda il doc. 8”. Questa forma avverbiale con il significato di “in modo dettagliato, particolare” spesso è infaticabilmente stigmatizzata da professori, educatori, titolari, formatori, motivatori - e chi ne ha più ne metta - in favore della cugina “specificamente”. È ben vero, si rifletta però, che non tutti gli avverbi seguono diretta corrispondenza con l’aggettivo (mi rivolgo a malamente da malo, finalmente da fine): inoltre, queste due forme compaiono nello stesso periodo l’una quale derivata del participio passato con funzione aggettivale (specificato), l’altra dall’aggettivo specifico.

L’avverbio specificatamente viene usato certo più di rado - considerata la sconfessione che ne vien fatta - ma a guardare specificamente il dizionario, non si riscontrano motivazioni a suffragio di qualunque censura nei suoi confronti.

Da ultimo e non meno importante: pensateci bene prima di scrivere al (o del) vostro collega fregiandolo della maiuscola: Avvocato con la maiuscola, anziché essere una raffinatezza, è sconsigliabile poiché avvocato è nome comune che indica l’appartenenza a una categoria per giunta risaputamente nutrita (a meno che non sia l’Avvocato per antonomasia, Gianni Agnelli).

L’avvocato di cui (o cui) scrivete appartiene all’albo tanto quanto voi. Riservargli a forza la maiuscola in atti e in corrispondenza, francamente, sa più di forma di autocompiacimento distintivo e mal mascherato che non di rispetto. Siamo sicuri che questo non solo verso i colleghi, ma anche nei confronti dei giudicanti oberati di pagine, traluce più che dall’ortografia ricercata dal comportamento deontologicamente ineccepibile in fatti: tanto meglio se unito a una sana, per una volta accattivante chiarezza espositiva.