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UE e market abuse: si inaugura la via della criminalizzazione armonizzata

UE e market abuse: si inaugura la via della criminalizzazione armonizzata
UE e market abuse: si inaugura la via della criminalizzazione armonizzata

1. Premessa

L’entrata in vigore (2 luglio 2014) della Direttiva 2014/57/UE e del Regolamento UE 596/2014 ha inaugurato una nuova fase delle strategie comunitarie di contrasto al fenomeno del cosiddetto market abuse[1].

Alla luce degli scoraggianti esiti dell’analisi operata dal cosiddetto «gruppo di Lavosère», incaricato di valutare l’efficacia dissuasiva e preventiva dei vigenti sistemi normativi nazionali in tema di market abuse, l’Unione Europea pare aver optato per un generale rafforzamento normativo del contrasto ai fenomeni di abuso di mercato, mediante un “intervento complesso” finalizzato a dispiegare tanto strumenti di armonizzazione minima quanto strumenti dotati di immeditata prescrittività per gli Stati membri.

Un mercato interno efficiente, efficace, trasparente, fondato sulla genuinità della concorrenza e sulla fiducia degli investitori postula l’esistenza di un adeguato regime normativo e sanzionatorio, capace di garantire l’integrità del mercato medesimo. Il perseguimento di tale obiettivo, come indicato dal considerando n. 3 del regolamento, richiede l’adozione di regole chiare e uniformi a livello comunitario, in grado di ridurre la complessità normativa per i partecipanti al mercato e di eliminare le difformità di disciplina a cui l’attuazione della Direttiva 2003/6/CE ha condotto, consistenti nella creazione, nei vari Stati membri, di regimi sanzionatori tra loro disomogenei e tendenzialmente inefficaci, e nell’agevolazione di fenomeni di cosiddetti forum shopping.

L’adozione congiunta di un regolamento e di una direttiva è funzionale al soddisfacimento delle esigenze ora sinteticamente richiamate. Da un lato, la realizzazione di una disciplina uniforme a livello comunitario in materia di market abuse, viene affidata allo strumento normativo dotato di maggiore incisività, ossia quello regolamentare che, in virtù della sua diretta applicabilità, consente un ingresso immediato e obbligato del neo-formulato compendio normativo all’interno dei singoli ordinamenti degli Stati membri.

Dall’altro lato, l’approntamento di un efficace arsenale sanzionatorio viene demandato ad una direttiva, la quale prescrive lo standard minimo di reazione punitiva che gli ordinamenti nazionali devono garantire a fronte di violazioni della normativa regolamentare elaborata.

2. La direttiva 2014/57/UE

Merita di essere preliminarmente precisato che l’effettiva applicazione del Regolamento n. 596/2014 (salve alcune disposizioni, immediatamente applicabili, espressamente individuate dall’articolo 39, comma 2), nonché la deadline per l’adeguamento degli ordinamenti nazionali alle indicazioni della Direttiva 2014/57/UE (articolo 13 della direttiva stessa), sono individuati nella data comune del 3 luglio 2016: data che coincide anche con l’abrogazione della Direttiva 2003/6/CE (articolo 37 del Regolamento).

La Direttiva 2014/57 - l’adozione della quale rappresenta la prima iniziativa penale comunitaria, realizzata sfruttando la base giuridica dell’articolo 83, paragrafo 2 del TFUE - è finalizzata a individuare lo standard di armonizzazione penale minima, in tema di abusi di mercato, tra gli Stati membri. 

Il considerando n. 8 della Direttiva 2014/57 impone agli Stati membri l’adozione di sanzioni penali «almeno per i reati gravi di abuso di mercato», individuandoli nella commissione dolosa di «abuso di informazioni privilegiate» (articolo 3), di «manipolazione del mercato» (articolo 5) e di «comunicazione illecita di informazioni privilegiate» (articolo 4), mentre il connotato della gravità è specificato ai considerando n. 11 e n. 12. Merita notare come il legislatore comunitario abbia tenuto distinta la figura dell’abuso di informazioni privilegiate, comprensiva delle condotte di c.d. trading e di c.d. tuyautage (articolo 3), da quella di mero tipping, ossia di comunicazione di informazioni privilegiate (articolo 9), ricollegandovi un differente trattamento sanzionatorio: pena detentiva minima pari ad almeno 4 anni di reclusione, nel primo caso; non inferiore ai due anni, nel secondo (articolo 7). Tale distinzione rileva anche sotto un ulteriore profilo: la direttiva richiede agli Stati membri di predisporre sanzioni penali per il tentativo solamente con riferimento alla condotta di abuso di informazioni privilegiate (oltre che di manipolazione del mercato), nulla statuendo in ordine al tentativo di comunicazione illecita di informazioni privilegiate, come emerge dall’articolo 6, comma 2.

La costruzione del quadro sanzionatorio si articola ulteriormente, da un lato, attraverso la specifica richiesta di criminalizzare anche eventuali condotte di induzione, favoreggiamento e concorso nei reati indicati agli articoli 3, 4 e 5 (articolo 6, comma 1); dall’altro, affiancando le sanzioni penali previste nei confronti dell’agente-persona fisica con sanzioni, di natura pecuniaria e interdittiva, a carico della persona giuridica che dalla commissione dell’illecito abbia tratto vantaggio (articoli 8 e 9).

In definitiva, la direttiva mira ad assicurare l’omogeneità delle reazioni nazionali ai fenomeni di market abuse mediante la tipizzazione delle condotte che dovrebbero integrare le ipotesi delittuose e attraverso l’individuazione dell’estremo minimo della cornice edittale con cui corredare tali reati: resta ferma la facoltà dei singoli Stati membri di adottare «norme di diritto penale più severe in materia di abusi di mercato» (considerando n. 20), purché le sanzioni irrogate rispondano sempre a valutazioni di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva. 

3. Il mutamento del paradigma sanzionatorio

Proprio sul piano della risposta sanzionatoria si coglie la più rilevante innovazione rispetto alla disciplina previgente. Mentre la Direttiva 2003/6 imponeva agli Stati membri l’adozione di misure e sanzioni di natura amministrativa per reprime condotte di market abuse, lasciando piena discrezionalità in ordine all’approntamento di eventuali sanzioni penali, l’attuale quadro normativo appare ben diverso: la Direttiva 2014/57, al considerando n. 8, dichiara che l’introduzione, da parte degli Stati membri, di sanzioni penali almeno per i reati gravi di abusi di mercato è essenziale per garantire l’attuazione efficace della politica dell’Unione in materia, mentre il considerando n. 72 del regolamento statuisce che gli Stati membri, oltre a sanzioni penali, possono prevedere altresì delle sanzioni amministrative per le stesse infrazioni. Dalla lettura congiunta di queste indicazioni emerge una prospettiva rovesciata rispetto al passato: obbligo di sanzioni penali, facoltà di sanzioni amministrative.

Nell’intento del legislatore comunitario si realizza, per tale via, un meccanismo sanzionatorio dotato di una forte ed effettiva capacità dissuasiva, il cui funzionamento richiede però un accorgimento ulteriore, in punto al rapporto sanzioni penali-sanzioni amministrative e rispetto del principio del ne bis in idem. Nel già citato considerando n. 72 del Regolamento, il cui contenuto è poi trasfuso nell’articolo 30, comma 1, del medesimo testo, viene affermato che «gli Stati membri non sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato», mentre nel considerando n. 23 della direttiva più esplicitamente si dichiara che «nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi della presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del Regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem». Pare piuttosto evidente come nell’impostazione teorica che informa il nuovo sostrato sanzionatorio in materia di abusi di mercato abbia esercitato un’influenza determinante la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Grande Stevens e altri c. Italia (ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10, 18698/10, depositata il 4 aprile 2014), concernente proprio la materia degli abusi di mercato, e altrettanto evidente è il lavorio di adeguamento che attende il legislatore italiano per rendere l’attuale disciplina in tema di abusi di mercato (contenuto nel Titolo 1-bis del t.u.f., Testo Unico della Finanza, Decreto Legislativo n 58/1998) coerente con il rinnovato impianto normativo comunitario[2].

4. Il Regolamento n. 596/2014: la nuova disciplina sostanziale tra innovazione e continuità

Il considerando n. 17 della Direttiva 2014/57 precisa che l’applicazione della medesima debba avvenire all’interno del quadro normativo delineato dal Regolamento n. 596/2014. A quest’ultimo è infatti affidata l’opera di riformulazione organica della disciplina comunitaria in materia di abusi di mercato: riformulazione che si rende necessaria alla luce dei recenti sviluppi legislativi, tecnologici e di mercato (considerando n. 3), i quali hanno reso obsoleta la precedente Direttiva 2003/6, di cui lo stesso articolo 37 del regolamento esplicitamente dispone l’abrogazione.

Il regolamento in questione, piuttosto corposo, si dettaglia in 39 articoli, suddivisi a loro volta in una pluralità di Capi: pare opportuno analizzarne gli elementi di maggior rilievo. Dopo aver precisato l’oggetto del testo normativo, nonché l’ambito applicativo del medesimo (articoli 1 e 2), il legislatore comunitario elabora una nutrita schiera di «definizioni» all’articolo 3, dedicando tuttavia una norma ad hoc alla nozione di «informazioni privilegiate», elemento essenziale nello schema costitutivo degli abusi di mercato, senza stravolgerne i tratti caratterizzanti già delineati dall’articolo 1, comma 1, della Direttiva 2003/6: è privilegiata quell’informazione «avente carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari, e che, se resa pubblica, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati». Segue, agli articoli 8 e 10, la individuazione delle condotte costituenti, rispettivamente, abuso di informazioni privilegiate e comunicazione illecita di informazioni privilegiate, mentre all’articolo 12 viene delineata la figura della manipolazione di mercato: l’illiceità di tali condotte è esplicitata agli articoli 14 e 15, i quali pongono il «divieto di abuso di informazioni privilegiate e di comunicazione illecita di informazioni privilegiate» e il «divieto di manipolazione di mercato» (peraltro concernente tanto la commissione di manipolazioni che il semplice tentativo di manipolazione, in ossequio all’auspicio contenuto nel considerando n. 41 del regolamento). 

Si noti come il legislatore comunitario, nel perimetrare l’area di illiceità delle condotte in materia di market abuse, abbia avuto cura di escludere tutta una serie di operazioni che, pur astrattamente riconducibili a una delle condotte tipizzate, perseguono tuttavia delle finalità ritenute compatibili con lo scopo del regolamento. A ben vedere, in effetti, lo schema teorico impresso al regolamento in esame segue le cadenze del rapporto regola-eccezione: all’articolo 8 viene tratteggiata la figura generale dell’abuso di informazioni privilegiate, dalla quale si distinguono le ipotesi eccezionali di «condotta legittima» indicate all’articolo 9; l’articolo 10 delinea la condotta di comunicazione illecita di informazioni privilegiate e il successivo articolo 11 ne precisa i confini applicativi, introducendo la figura dei «sondaggi di mercato»; infine, dalla condotta tipica di manipolazione di mercato, di cui all’articolo 12, si escludono le cosiddettw «prassi di mercato ammesse», la cui istituzione è rimessa dall’articolo 13 alle competenti autorità nazionali, seguendo i criteri-guida elencati nella medesima norma.

Un cenno merita il Capo 4, rubricato «ESMA e autorità competenti», dalla lettura del quale emerge l’importanza del ruolo di vigilanza e controllo attribuito alle singole autorità amministrative, designate a livello nazionale, nonché la centralità dell’ESMA (European Securities and Markets Authorithy), al quale è affidato il coordinamento della tutela del mercato a livello comunitario. Non a caso, l’articolo 24 e l’articolo 25 della direttiva prevedono un vero e proprio obbligo di cooperazione delle authorities nazionali (tra loro e) con l’ESMA, che si manifesta sia sul piano dello scambio di informazioni rilevanti, sia sul piano della reciproca assistenza nel corso di indagini, controllo e applicazione delle norme.

Mentre alla direttiva 2014/57 è demandata l’individuazione delle sanzioni penali minime da applicare nel caso si verifichino condotte di market abuse, con il Regolamento n. 596/2014 il legislatore comunitario ridefinisce lo strumentario sanzionatorio di tipo amministrativo, cui hanno accesso le diverse Autorità nazionali competenti in materia, ai Capi 4 e 5. Come osservato nel considerando n. 70, la creazione di un quadro normativo solido per il settore finanziario postula l’esistenza di regimi di vigilanza, di indagine e sanzionatori non solo forti, ma altresì uniformi ed effettivi tra gli Stati membri. A tal fine, si ritiene opportuno che i singoli Stati procedano alla predisposizione di una serie di sanzioni e misure amministrative adeguate, tra cui quelle elencate nel comma 2 dell’articolo 30, la cui applicazione sia demandata alle competenti Autorità nazionali «fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti», ossia quelle giudiziarie. Al comma 1 dell’articolo 30, come già precedentemente osservato, è chiaramente indicata la scelta di politica legislativa operata a livello comunitario: poiché gli Stati membri possono decidere di «non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative» per condotte di market abuse già presidiate da sanzioni penali, rendendo le prime meramente facoltative rispetto alle seconde, emerge la valutazione di maggiore efficacia e dissuasività della repressione punitiva rispetto a quella di matrice amministrativa.

 

[1] La locuzione «abuso di mercato» rappresenta una formula riassuntiva nella quale si comprendono i due distinti fenomeni dell’abuso di informazioni privilegiate (c.d. insider trading) e della manipolazione del mercato, entrambi oggetto di disciplina nella direttiva 2003/6/CE (dedicandovi, rispettivamente, gli artt. 2, 3 e l’art. 1, par. 2). La fattispecie di abuso di informazioni privilegiate si articola in una pluralità di possibili condotte materiali, che orbitano attorno all’elemento comune del possesso, da parte dell’agente, di «informazioni privilegiate» (definizione contenuta nell’art. 1, par. 1, direttiva 2003/6/CE) concernenti gli strumenti finanziari o emittenti strumenti finanziari. Diversamente, per manipolazione del mercato si intende la condotta di colui che diffonde notizie false, compie operazioni simulate o altri artifizi di per sé idonei a provocare un’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari. La normativa comunitaria ha fatto ingresso nell’ordinamento italiano per il tramite della legge n. 62 del 2005, la quale ha aggiunto il Titolo 1-bis, rubricato «Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato», nel d.lgs. n. 58 del 1998, Testo Unico della Finanza (t.u.f.). Per un’approfondita analisi della disciplina tuttora vigente, si rinvia a E. Amati, Abusi di mercato e sistema penale, Torino, 2012.

[2] Numerose sono le riflessioni dottrinali sviluppatesi in tema di ne bis in idem e ispirate dalla sentenza Grande Stevens. Tra i vari contributi, si rinvia a G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, nonché F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, entrambi reperibili sul sito www.penalecontemporaneo.it.

Sul piano giurisprudenziale, la Quinta Sezione della Suprema Corte ha recentemente sollevato, con ordinanza del 10 novembre 2014 (dep. 15 gennaio 2015), questione di legittimità costituzionale in ordine (e in via principale) alla compatibilità con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Cedu, dell’art. 187-bis del t.u.f. nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato»; e in ordine (in via subordinata) alla compatibilità con la medesima disposizione costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’applicabilità del divieto di un secondo giudizio nel caso in cui l’imputato sia già stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione avente natura penale ai sensi della Cedu e relativi Protocolli.

1. Premessa

L’entrata in vigore (2 luglio 2014) della Direttiva 2014/57/UE e del Regolamento UE 596/2014 ha inaugurato una nuova fase delle strategie comunitarie di contrasto al fenomeno del cosiddetto market abuse[1].

Alla luce degli scoraggianti esiti dell’analisi operata dal cosiddetto «gruppo di Lavosère», incaricato di valutare l’efficacia dissuasiva e preventiva dei vigenti sistemi normativi nazionali in tema di market abuse, l’Unione Europea pare aver optato per un generale rafforzamento normativo del contrasto ai fenomeni di abuso di mercato, mediante un “intervento complesso” finalizzato a dispiegare tanto strumenti di armonizzazione minima quanto strumenti dotati di immeditata prescrittività per gli Stati membri.

Un mercato interno efficiente, efficace, trasparente, fondato sulla genuinità della concorrenza e sulla fiducia degli investitori postula l’esistenza di un adeguato regime normativo e sanzionatorio, capace di garantire l’integrità del mercato medesimo. Il perseguimento di tale obiettivo, come indicato dal considerando n. 3 del regolamento, richiede l’adozione di regole chiare e uniformi a livello comunitario, in grado di ridurre la complessità normativa per i partecipanti al mercato e di eliminare le difformità di disciplina a cui l’attuazione della Direttiva 2003/6/CE ha condotto, consistenti nella creazione, nei vari Stati membri, di regimi sanzionatori tra loro disomogenei e tendenzialmente inefficaci, e nell’agevolazione di fenomeni di cosiddetti forum shopping.

L’adozione congiunta di un regolamento e di una direttiva è funzionale al soddisfacimento delle esigenze ora sinteticamente richiamate. Da un lato, la realizzazione di una disciplina uniforme a livello comunitario in materia di market abuse, viene affidata allo strumento normativo dotato di maggiore incisività, ossia quello regolamentare che, in virtù della sua diretta applicabilità, consente un ingresso immediato e obbligato del neo-formulato compendio normativo all’interno dei singoli ordinamenti degli Stati membri.

Dall’altro lato, l’approntamento di un efficace arsenale sanzionatorio viene demandato ad una direttiva, la quale prescrive lo standard minimo di reazione punitiva che gli ordinamenti nazionali devono garantire a fronte di violazioni della normativa regolamentare elaborata.

2. La direttiva 2014/57/UE

Merita di essere preliminarmente precisato che l’effettiva applicazione del Regolamento n. 596/2014 (salve alcune disposizioni, immediatamente applicabili, espressamente individuate dall’articolo 39, comma 2), nonché la deadline per l’adeguamento degli ordinamenti nazionali alle indicazioni della Direttiva 2014/57/UE (articolo 13 della direttiva stessa), sono individuati nella data comune del 3 luglio 2016: data che coincide anche con l’abrogazione della Direttiva 2003/6/CE (articolo 37 del Regolamento).

La Direttiva 2014/57 - l’adozione della quale rappresenta la prima iniziativa penale comunitaria, realizzata sfruttando la base giuridica dell’articolo 83, paragrafo 2 del TFUE - è finalizzata a individuare lo standard di armonizzazione penale minima, in tema di abusi di mercato, tra gli Stati membri. 

Il considerando n. 8 della Direttiva 2014/57 impone agli Stati membri l’adozione di sanzioni penali «almeno per i reati gravi di abuso di mercato», individuandoli nella commissione dolosa di «abuso di informazioni privilegiate» (articolo 3), di «manipolazione del mercato» (articolo 5) e di «comunicazione illecita di informazioni privilegiate» (articolo 4), mentre il connotato della gravità è specificato ai considerando n. 11 e n. 12. Merita notare come il legislatore comunitario abbia tenuto distinta la figura dell’abuso di informazioni privilegiate, comprensiva delle condotte di c.d. trading e di c.d. tuyautage (articolo 3), da quella di mero tipping, ossia di comunicazione di informazioni privilegiate (articolo 9), ricollegandovi un differente trattamento sanzionatorio: pena detentiva minima pari ad almeno 4 anni di reclusione, nel primo caso; non inferiore ai due anni, nel secondo (articolo 7). Tale distinzione rileva anche sotto un ulteriore profilo: la direttiva richiede agli Stati membri di predisporre sanzioni penali per il tentativo solamente con riferimento alla condotta di abuso di informazioni privilegiate (oltre che di manipolazione del mercato), nulla statuendo in ordine al tentativo di comunicazione illecita di informazioni privilegiate, come emerge dall’articolo 6, comma 2.

La costruzione del quadro sanzionatorio si articola ulteriormente, da un lato, attraverso la specifica richiesta di criminalizzare anche eventuali condotte di induzione, favoreggiamento e concorso nei reati indicati agli articoli 3, 4 e 5 (articolo 6, comma 1); dall’altro, affiancando le sanzioni penali previste nei confronti dell’agente-persona fisica con sanzioni, di natura pecuniaria e interdittiva, a carico della persona giuridica che dalla commissione dell’illecito abbia tratto vantaggio (articoli 8 e 9).

In definitiva, la direttiva mira ad assicurare l’omogeneità delle reazioni nazionali ai fenomeni di market abuse mediante la tipizzazione delle condotte che dovrebbero integrare le ipotesi delittuose e attraverso l’individuazione dell’estremo minimo della cornice edittale con cui corredare tali reati: resta ferma la facoltà dei singoli Stati membri di adottare «norme di diritto penale più severe in materia di abusi di mercato» (considerando n. 20), purché le sanzioni irrogate rispondano sempre a valutazioni di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva. 

3. Il mutamento del paradigma sanzionatorio

Proprio sul piano della risposta sanzionatoria si coglie la più rilevante innovazione rispetto alla disciplina previgente. Mentre la Direttiva 2003/6 imponeva agli Stati membri l’adozione di misure e sanzioni di natura amministrativa per reprime condotte di market abuse, lasciando piena discrezionalità in ordine all’approntamento di eventuali sanzioni penali, l’attuale quadro normativo appare ben diverso: la Direttiva 2014/57, al considerando n. 8, dichiara che l’introduzione, da parte degli Stati membri, di sanzioni penali almeno per i reati gravi di abusi di mercato è essenziale per garantire l’attuazione efficace della politica dell’Unione in materia, mentre il considerando n. 72 del regolamento statuisce che gli Stati membri, oltre a sanzioni penali, possono prevedere altresì delle sanzioni amministrative per le stesse infrazioni. Dalla lettura congiunta di queste indicazioni emerge una prospettiva rovesciata rispetto al passato: obbligo di sanzioni penali, facoltà di sanzioni amministrative.

Nell’intento del legislatore comunitario si realizza, per tale via, un meccanismo sanzionatorio dotato di una forte ed effettiva capacità dissuasiva, il cui funzionamento richiede però un accorgimento ulteriore, in punto al rapporto sanzioni penali-sanzioni amministrative e rispetto del principio del ne bis in idem. Nel già citato considerando n. 72 del Regolamento, il cui contenuto è poi trasfuso nell’articolo 30, comma 1, del medesimo testo, viene affermato che «gli Stati membri non sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato», mentre nel considerando n. 23 della direttiva più esplicitamente si dichiara che «nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi della presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del Regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem». Pare piuttosto evidente come nell’impostazione teorica che informa il nuovo sostrato sanzionatorio in materia di abusi di mercato abbia esercitato un’influenza determinante la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Grande Stevens e altri c. Italia (ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10, 18698/10, depositata il 4 aprile 2014), concernente proprio la materia degli abusi di mercato, e altrettanto evidente è il lavorio di adeguamento che attende il legislatore italiano per rendere l’attuale disciplina in tema di abusi di mercato (contenuto nel Titolo 1-bis del t.u.f., Testo Unico della Finanza, Decreto Legislativo n 58/1998) coerente con il rinnovato impianto normativo comunitario[2].

4. Il Regolamento n. 596/2014: la nuova disciplina sostanziale tra innovazione e continuità

Il considerando n. 17 della Direttiva 2014/57 precisa che l’applicazione della medesima debba avvenire all’interno del quadro normativo delineato dal Regolamento n. 596/2014. A quest’ultimo è infatti affidata l’opera di riformulazione organica della disciplina comunitaria in materia di abusi di mercato: riformulazione che si rende necessaria alla luce dei recenti sviluppi legislativi, tecnologici e di mercato (considerando n. 3), i quali hanno reso obsoleta la precedente Direttiva 2003/6, di cui lo stesso articolo 37 del regolamento esplicitamente dispone l’abrogazione.

Il regolamento in questione, piuttosto corposo, si dettaglia in 39 articoli, suddivisi a loro volta in una pluralità di Capi: pare opportuno analizzarne gli elementi di maggior rilievo. Dopo aver precisato l’oggetto del testo normativo, nonché l’ambito applicativo del medesimo (articoli 1 e 2), il legislatore comunitario elabora una nutrita schiera di «definizioni» all’articolo 3, dedicando tuttavia una norma ad hoc alla nozione di «informazioni privilegiate», elemento essenziale nello schema costitutivo degli abusi di mercato, senza stravolgerne i tratti caratterizzanti già delineati dall’articolo 1, comma 1, della Direttiva 2003/6: è privilegiata quell’informazione «avente carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti o uno o più strumenti finanziari, e che, se resa pubblica, potrebbe avere un effetto significativo sui prezzi di tali strumenti finanziari o sui prezzi di strumenti finanziari derivati collegati». Segue, agli articoli 8 e 10, la individuazione delle condotte costituenti, rispettivamente, abuso di informazioni privilegiate e comunicazione illecita di informazioni privilegiate, mentre all’articolo 12 viene delineata la figura della manipolazione di mercato: l’illiceità di tali condotte è esplicitata agli articoli 14 e 15, i quali pongono il «divieto di abuso di informazioni privilegiate e di comunicazione illecita di informazioni privilegiate» e il «divieto di manipolazione di mercato» (peraltro concernente tanto la commissione di manipolazioni che il semplice tentativo di manipolazione, in ossequio all’auspicio contenuto nel considerando n. 41 del regolamento). 

Si noti come il legislatore comunitario, nel perimetrare l’area di illiceità delle condotte in materia di market abuse, abbia avuto cura di escludere tutta una serie di operazioni che, pur astrattamente riconducibili a una delle condotte tipizzate, perseguono tuttavia delle finalità ritenute compatibili con lo scopo del regolamento. A ben vedere, in effetti, lo schema teorico impresso al regolamento in esame segue le cadenze del rapporto regola-eccezione: all’articolo 8 viene tratteggiata la figura generale dell’abuso di informazioni privilegiate, dalla quale si distinguono le ipotesi eccezionali di «condotta legittima» indicate all’articolo 9; l’articolo 10 delinea la condotta di comunicazione illecita di informazioni privilegiate e il successivo articolo 11 ne precisa i confini applicativi, introducendo la figura dei «sondaggi di mercato»; infine, dalla condotta tipica di manipolazione di mercato, di cui all’articolo 12, si escludono le cosiddettw «prassi di mercato ammesse», la cui istituzione è rimessa dall’articolo 13 alle competenti autorità nazionali, seguendo i criteri-guida elencati nella medesima norma.

Un cenno merita il Capo 4, rubricato «ESMA e autorità competenti», dalla lettura del quale emerge l’importanza del ruolo di vigilanza e controllo attribuito alle singole autorità amministrative, designate a livello nazionale, nonché la centralità dell’ESMA (European Securities and Markets Authorithy), al quale è affidato il coordinamento della tutela del mercato a livello comunitario. Non a caso, l’articolo 24 e l’articolo 25 della direttiva prevedono un vero e proprio obbligo di cooperazione delle authorities nazionali (tra loro e) con l’ESMA, che si manifesta sia sul piano dello scambio di informazioni rilevanti, sia sul piano della reciproca assistenza nel corso di indagini, controllo e applicazione delle norme.

Mentre alla direttiva 2014/57 è demandata l’individuazione delle sanzioni penali minime da applicare nel caso si verifichino condotte di market abuse, con il Regolamento n. 596/2014 il legislatore comunitario ridefinisce lo strumentario sanzionatorio di tipo amministrativo, cui hanno accesso le diverse Autorità nazionali competenti in materia, ai Capi 4 e 5. Come osservato nel considerando n. 70, la creazione di un quadro normativo solido per il settore finanziario postula l’esistenza di regimi di vigilanza, di indagine e sanzionatori non solo forti, ma altresì uniformi ed effettivi tra gli Stati membri. A tal fine, si ritiene opportuno che i singoli Stati procedano alla predisposizione di una serie di sanzioni e misure amministrative adeguate, tra cui quelle elencate nel comma 2 dell’articolo 30, la cui applicazione sia demandata alle competenti Autorità nazionali «fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti», ossia quelle giudiziarie. Al comma 1 dell’articolo 30, come già precedentemente osservato, è chiaramente indicata la scelta di politica legislativa operata a livello comunitario: poiché gli Stati membri possono decidere di «non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative» per condotte di market abuse già presidiate da sanzioni penali, rendendo le prime meramente facoltative rispetto alle seconde, emerge la valutazione di maggiore efficacia e dissuasività della repressione punitiva rispetto a quella di matrice amministrativa.

 

[1] La locuzione «abuso di mercato» rappresenta una formula riassuntiva nella quale si comprendono i due distinti fenomeni dell’abuso di informazioni privilegiate (c.d. insider trading) e della manipolazione del mercato, entrambi oggetto di disciplina nella direttiva 2003/6/CE (dedicandovi, rispettivamente, gli artt. 2, 3 e l’art. 1, par. 2). La fattispecie di abuso di informazioni privilegiate si articola in una pluralità di possibili condotte materiali, che orbitano attorno all’elemento comune del possesso, da parte dell’agente, di «informazioni privilegiate» (definizione contenuta nell’art. 1, par. 1, direttiva 2003/6/CE) concernenti gli strumenti finanziari o emittenti strumenti finanziari. Diversamente, per manipolazione del mercato si intende la condotta di colui che diffonde notizie false, compie operazioni simulate o altri artifizi di per sé idonei a provocare un’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari. La normativa comunitaria ha fatto ingresso nell’ordinamento italiano per il tramite della legge n. 62 del 2005, la quale ha aggiunto il Titolo 1-bis, rubricato «Abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato», nel d.lgs. n. 58 del 1998, Testo Unico della Finanza (t.u.f.). Per un’approfondita analisi della disciplina tuttora vigente, si rinvia a E. Amati, Abusi di mercato e sistema penale, Torino, 2012.

[2] Numerose sono le riflessioni dottrinali sviluppatesi in tema di ne bis in idem e ispirate dalla sentenza Grande Stevens. Tra i vari contributi, si rinvia a G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, nonché F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, entrambi reperibili sul sito www.penalecontemporaneo.it.

Sul piano giurisprudenziale, la Quinta Sezione della Suprema Corte ha recentemente sollevato, con ordinanza del 10 novembre 2014 (dep. 15 gennaio 2015), questione di legittimità costituzionale in ordine (e in via principale) alla compatibilità con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Cedu, dell’art. 187-bis del t.u.f. nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato»; e in ordine (in via subordinata) alla compatibilità con la medesima disposizione costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’applicabilità del divieto di un secondo giudizio nel caso in cui l’imputato sia già stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione avente natura penale ai sensi della Cedu e relativi Protocolli.