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Disposizioni sulle Città Metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni

Legittima la Legge 7 aprile 2014, numero 56 (così detta “Legge Delrio”)
Disposizioni sulle Città Metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni
Disposizioni sulle Città Metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni

Abstract

Il novellato articolo 114 della Costituzione, nel richiamare, al proprio interno, le Città Metropolitane, ha imposto alla Repubblica Italiana il dovere della loro concreta istituzione: tale esigenza costituzionale fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe, del resto, avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione.

Lo ha precisato la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 50, depositata il 26 marzo 2015.

La pronuncia in commento trae origine dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia in relazione a 58 commi dell'articolo 1, Legge n. 56 del 2014 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”).

Le questioni proposte dai ricorrenti coinvolgono: la disciplina delle istituite “Città Metropolitane”; la ridefinizione dei confini territoriali e del quadro delle competenze delle Province, “in attesa della riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione”; il procedimento di riallocazione delle funzioni “non fondamentali” delle Province; la disciplina delle unioni e fusioni di Comuni; la prevista predisposizione di “appositi programmi di attività”, di fonte ministeriale.

1. I ricorsi numero 39, 42, 43 e 44 del 2014 avverso la l’articolo 1 della Legge 7 aprile 2014, numero 56 (così detta “Legge Delrio”). Le censure sollevate.

La Corte Costituzionale con la Sentenza 24 marzo 2015, numero 50 (deposito del 26 marzo 2015)[1] si è pronunciata sui ricorsi presentati dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia (notificati il 4-10, il 4, il 6 - spedito per la notifica - e il 6-12 giugno 2014, depositati in cancelleria il 6, il 13 e il 16 giugno 2014 ed iscritti ai numeri 39, 42, 43 e 44 del registro ricorsi 2014) avverso 58 commi (dei 151 originari, ma poi accresciuti in numero dalle successive modifiche legislative) dell’articolo 1 della Legge 7 aprile 2014, numero 56 (“Disposizioni sulle Città Metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, così detta “Legge Delrio”), per contrasto (congiuntamente o disgiuntamente) con le disposizioni previste agli articoli 1, 2, 3, 5, 48, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione.

Le disposizioni censurate riguardano quelle di cui ai seguenti commi del predetto articolo 1:

– da 5 a 19, 21, 22, 25, 42 e 48, sulla istituzione e disciplina delle Città Metropolitane;

– da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81 e 83, sulla ridefinizione dei confini territoriali e del perimetro delle competenze delle Province («in attesa della riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»);

– da 89 a 92 e 95, concernenti modalità e tempistiche del procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province ed allo scorporo di quelle ad esse sottratte e riassegnate ad altri enti;

– 4, 105, 106, 117, 124, 130 e133, in tema di Unioni e fusioni di Comuni;

– 149, sulla prevista predisposizione, da parte del Ministro per gli Affari Regionali, di “appositi programmi di attività”, per accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma.

2. La disciplina delle Città Metropolitane compete allo Stato e il dovere della loro concreta istituzione si fonda sull’articolo 114 della Costituzione

Riguardo al primo complesso di norme - relative all’istituzione ed alla disciplina dell’ente territoriale, cosi detto di area vasta, (funzionale al prefigurato disegno finale di soppressione delle Province con fonte legislativa di rango costituzionale) - la Corte Costituzionale ritiene che la disciplina delle Città Metropolitane non può che competere allo Stato.

Con la pronuncia in commento, la Consulta rigetta tutte le censure sollevate dai ricorrenti.

Innanzitutto, non viene ritenuta fondata la preliminare questione di competenza sollevata sul presupposto che la mancata espressa previsione della “istituzione delle Città Metropolitane” nell'ambito di materia riservato alla legislazione esclusiva dello Stato ex articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione ne comporti “l'automatica attribuzione alla rivendicata competenza regionale esclusiva”, in applicazione della clausola di residualità di cui all’articolo 117, comma 4 della Costituzione.

Ne consegue, secondo il ragionamento del Giudice delle Leggi, che «se esatta fosse, invero, una tale tesi si dovrebbe pervenire, per assurdo, alla conclusione che la singola Regione sarebbe legittimata a fare ciò che lo Stato “non potrebbe fare” in un campo che non può verosimilmente considerarsi di competenza esclusiva regionale, quale, appunto, quello che attiene alla costituzione della Città Metropolitana, che è ente di rilevanza nazionale (ed anche sovranazionale ai fini dell’accesso a specifici fondi comunitari)».E ciò a maggior ragione ove si consideri che con riguardo al nuovo ente territoriale, le Regioni non avrebbero le competenze, che la richiamata norma costituzionale, riserva in via esclusiva allo Stato, nella materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali”.

Il novellato articolo 114 della Costituzione, nel richiamare al proprio interno, per la prima volta, l'ente territoriale Città Metropolitana, ha imposto alla Repubblica Italiana il dovere della sua concreta istituzione. È proprio, infatti, tale esigenza costituzionale che fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, “che non potrebbe […] avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali”.

3. Segue. La “procedura rinforzata” ex articolo 133, comma 1 della Costituzione applicabile “solo ad interventi singolari”. Il legame specifico tra territorio e popolazioni interessate alle variazioni territoriali

Le Regioni ricorrenti (Campania, Lombardia, Puglia e Veneto) hanno sollevato quaestio legitimatis anche relativamente all’articolo 1, comma 6 della Legge numero 56 del 2014, - che individua il territorio della Città Metropolitana (in coincidenza “con quello della provincia omonima”) e per l’effetto determina una variazione delle circoscrizioni provinciali – per la mancata approvazione ai sensi dell’articolo 133, comma 1 della Costituzione, il quale prevede che “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.

Questione che è non fondata perché le regole procedurali previste dall’articolo 133 della Costituzione sono riferibili “solo ad interventi singolari” e, dunque, non trovano applicazione nel caso di interventi generalizzati su tutto il territorio nazionale; di conseguenza “il denunciato comma 6 dell’articolo 1 della legge numero 56 del 2014, non manca, infatti, di prevedere espressamente l’iniziativa dei Comuni, ivi compresi i Comuni capoluogo delle Province limitrofe, ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città Metropolitana, il che per implicito comporta la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima; e, a tal fine, la stessa norma dispone che sia sentita la Regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una intesa tra la Regione stessa ed i Comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) Città Metropolitana”. E ciò testualmente, “ai sensi dell'articolo 133, comma 1, Costituzione” e “nell'ambito della procedura di cui al predetto articolo 133”. Orbene, la Corte Costituzionale, così facendo, si cimenta nella definizione del contenuto precipuo della suddetta disposizione, distinguendo tra variazioni territoriali, per così dire, una tantum e variazioni territoriali che esprimono interventi di sistema. Nel fare ciò, tuttavia, il Giudice delle Leggi si guarda bene dal negare in assoluto la sussistenza di un legame specifico tra territorio e popolazioni interessate: al contrario, distingue le modalità di espressione del consenso da parte delle collettività coinvolte a seconda che si versi nella prima o nella seconda ipotesi.                                                                                                                                    

Ancora diversamente, per la Corte Costituzionale, il coinvolgimento delle popolazioni interessate dalla variazione territoriale è necessario anche laddove il legislatore abbia inteso realizzare “una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica” - che ovviamente non arrivi alla soppressione degli enti locali previsti in Costituzione in sintonia con la Sentenza numero 220 del 2013 -; purtuttavia, quando si tratta di un intervento di nuova articolazione complessiva degli enti locali - del quale peraltro la Legge numero 56 del 2014 costituisce solo l’avvio e “al quale potranno seguire più incisivi interventi di rango costituzionale” - è giustificata “la mancata applicazione delle regole procedurali contenute nell’articolo 133 Costituzione, che risultano riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio, espresso da quelle regole, del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire il predetto avvio in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale.

Per fare salvo questo principio e allo stesso tempo non censurare l’articolo 1, comma 6 della Legge numero 56 del 2014, il Giudice delle Leggi propone una lettura costituzionalmente adeguata della norma in parola, “che, per un principio di conservazione, non può non prevalere su quella, contra Constitutionem, presupposta dalle Regioni ricorrenti”.

Ebbene, il comma 6 non è illegittimo laddove venga interpretato nel senso che l’espressa previsione che “«l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe», ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città Metropolitana”, comporti, per implicito, “la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima”.

4. La soppressione delle Province ex articolo 1, comma 56 della Legge numero 26 del 2014 e la legittimità del modello di governo di secondo grado

Al punto 4 della parte “in diritto”, la Corte Costituzionale motiva il rigetto delle questioni relative al nuovo modello ordinamentale delle Province con riferimento alla competenza statale a provvedere su questa materia; nonché in punto di violazione dei principi di sovranità popolare, autonomia, sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza, e ancora delle previsioni della Carta Europea dell’Autonomia Locale.

Il Giudice delle Leggi, anzitutto, ricorda che è in corso l’approvazione di un progetto di Legge costituzionale per la soppressione delle Province dal novero degli enti autonomi menzionati dall’articolo 114 della Costituzione - del quale, peraltro, espressamente riferisce l’articolo 1, comma 51 della Legge numero 56 del 2014. Di seguito, la Corte Costituzionale conferma quanto già sostenuto nella Sentenza numero 220 del 2013, ossia che il legislatore statale con iter ordinario può legittimamente provvedere al mero riordino dell’ente provinciale, ma non alla sua soppressione. Solo in tale ultimo caso, quindi, sarebbe violato l’articolo 138 della Costituzione.

La Corte Costituzionale afferma che “le censure rivolte al modello di governo di secondo grado, parimenti adottato per il riordinato ente Provincia, risultano non fondate (anche con riguardo al vulnus che si assume derivante all’autonomia finanziaria, di entrate di spesa, ove riconducibile ad organi non direttamente rappresentativi) sulla base delle medesime ragioni già esposte con riferimento alle Città Metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato − nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di […] province» (articolo 117, secondo comma, lettera p, Costituzione)”.

Ebbene, nel punto 3.4.3. della parte “in diritto”, la Corte Costituzionale sostiene – decidendo sulle Città Metropolitane - che il modello di secondo grado non è illegittimo in sé, e per far ciò cerca supporto nella propria giurisprudenza.

Anzitutto viene richiamata la Sentenza numero 365 del 2007 nella quale il Giudice delle Leggi ha ritenuto “non condivisibile” il tentativo dell’allora difesa regionale “di ricondurre l’utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell’articolo 1 Costituzione, nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella partecipazione popolare nei diversi enti regionali e locali”.

Sempre in quell’occasione, peraltro, la Corte Costituzionale aveva pure precisato che: “la sovranità popolare - che per il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione deve comunque esprimersi «nelle forme e nei limiti della Costituzione» – non può essere confusa con le volontà espresse nei numerosi «luoghi della politica», e […] non si può ridurre la sovranità popolare alla mera «espressione del circuito democratico»”.

Il Giudice Costituzionale prosegue, dunque, nella Sentenza numero 50 del 2015 argomentando che: “La natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’articolo 114 Costituzione, come «costitutivi della Repubblica», ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’articolo 5 Costituzione non implicano, infatti, ciò che le ricorrenti pretendono di desumerne, e cioè l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti”. A sostegno di ciò la Corte costituzionale richiama la Sentenza numero 274 del 2003 e la successiva ordinanza numero 144 del 2009 che avevano escluso “la totale equiparazione tra i diversi livelli di governo territoriale” e, dunque, giustificavano la diversificazione dei modelli di rappresentanza politica nei vari livelli di governo, alla luce proprio dei principi di adeguatezza e differenziazione sui quali si fondano alcune delle attuali censure delle Regioni. Per altro verso, tale assunto neppure può considerarsi superato alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma del Titolo V del 2001, conformemente a quanto già deciso dalla richiamata Sentenza numero 365 del 2007.

D’altra parte, già con la Sentenza numero 96 del 1968 era stata affermata “la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico, escludendo che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo del territorio venga meno in caso di elezioni di secondo grado, «che, del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato»”.

5. Segue. L’articolo 3, comma 2 della Carta Europea dell’Autonomia Locale quale parametro interposto

Quanto al parametro interposto, ai fini della violazione dell’articolo 117, comma 1, Costituzione, rappresentato dall’articolo 3, comma 2, della Carta Europea dell’Autonomia Locale conclusa a Strasburgo il 15 ottobre 1985 tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, i giudici della Corte Costituzionale sostengono che <<a prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta Europea, che lascia ferme le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge, come riconosciuto nella Sentenza di questa Corte numero 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l’idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell’articolo 117, primo comma, Costituzione, è comunque decisivo il rilievo che l’espressione usata dalla norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected”, ha, sì, un rilievo centrale quale garanzia della democraticità del sistema delle autonomie locali, ma va intesa nel senso sostanziale della esigenza di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate.

In questa prospettiva non è esclusa la possibilità di una elezione indiretta, purché siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti.

Tali meccanismi, nella specie, sussistono, essendo imposta la sostituzione di coloro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto, quando venga meno il munus (articolo 1, comma 25, ed analogamente, con riguardo ad organi delle Province, commi 65 e 69)>>. Senza tener in debito conto che l’articolo 1, comma 22 della Legge numero 56 del 2014, espressamente dispone che “lo Statuto della Città Metropolitana può prevedere l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano”.                                  

Invero, la Carta Europea dell’Autonomia Locale all’articolo 3, comma 2 oltre ad affermare che le assemblee degli enti locali devono essere elette con “suffragio libero”, impone che esso sia “diretto” e “universale”: a muovere proprio da tale dato letterale parte della dottrina ha sostenuto l’assoluta necessità dell’elezione diretta per i consigli provinciali.

6. Il rigetto della questione sulla proroga dei commissariamenti provinciali, la “cessazione della materia del contendere” relativamente alla disciplina del riordino delle funzioni e gli “enti locali” di cui all’articolo 1, comma 4 della Legge 56/2014 quali ”forme istituzionali di associazioni tra Comuni”

Al punto 4.3.3, la Sentenza numero 50 del 2015 risolve con il rigetto la questione sulla proroga dei commissariamenti provinciali, negando che essa sia sine die come prospettato dalle Regioni ricorrenti. Il Giudice costituzionale, invero, rileva che “il comma 82 dell’articolo 1 in esame - nel testo sostituito dall’articolo 23, comma 1, lettera f), del decreto legge 24 giugno 2014, numero 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni dall’articolo 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, numero 114 - dispone, infatti, che, per le Province già oggetto di commissariamento, il commissario, a partire dal 1° luglio 2014, muti natura, e cioè, sostanzialmente, decada, dando vita, pur nella coincidenza della persona fisica, ad un organo diverso che, privo dei poteri commissariali, è chiamato ad assicurare, a titolo gratuito, la gestione della fase transitoria solo «per l’ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti e indifferibili, fino all’insediamento del presidente della provincia eletto ai sensi dei commi da 58 a 78»”.

Anche il punto relativo alla disciplina legislativa relativa al riordino delle funzioni è risolto in modo netto dalla Corte Costituzionale, ritenendosi che, dall'analisi di quanto avvenuto a seguito della Legge, sia venuto meno l'interesse delle Regioni e si sia così determinato la "cessazione della materia del contendere", soprattutto alla luce dell'Accordo intervenuto tra Stato e Regioni del settembre 2014. Accordo nel quale si sarebbe posto rimedio, secondo la Corte costituzionale, alla presunta illegittimità costituzionale rilevata dalla Regioni, in quanto si sarebbe pervenuti alla "definizione congiunta delle competenze (in relazione al processo di riordino) e della loro ripartizione tra Stato e Regioni in conformità dei titoli di legittimazione stabiliti dalla Costituzione e delle linee direttrici stabiliti dalla stessa legge numero 56 del 2014, sia avuto riguardo al rispettato principio di leale collaborazione da parte dello Stato" (punto 5.5. del Considerato in diritto).

La stessa impostazione è utilizzata dalla Corte Costituzionale con riferimento a quella parte delle impugnative regionali relative alle Unioni dei Comuni (punto 6.2.1 del Considerato in diritto). La Corte Costituzionale ritiene che ciò che l’articolo 1, comma 4 della Legge numero 56 del 2014 definisce come "enti locali" siano soltanto "forme istituzionali di associazioni tra Comuni", che non danno luogo ad un nuovo ente locale diverso dai Comuni associati in Unioni, e rispetto ai quali lo Stato provvederebbe, secondo la Corte Costituzionale, soltanto nei limiti di quanto consentito dalla competenza prevista dal già richiamato articolo 117, comma 2, lettera p).

7. Gli appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni predisposti dal Ministro per gli Affari Regionali al fine di assicurare il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla Legge numero 56/2014

Infine la Regione Campania ha proposto un’ulteriore questione di legittimità costituzionale del comma 149 della Legge numero 56/2014, nella parte in cui prevede che “al fine di procedere all’attuazione di quanto previsto dall’articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, numero 95”, il Ministro per gli Affari Regionali predispone appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni per sospetta violazione degli articoli 97, 117, 118, 123 e 136 della Costituzione e, ciò sul rilievo che, con la norma censurata, sarebbe stata prevista la “reviviscenza” del richiamato articolo 9 del Decreto Legge numero 95 del 2012, malgrado la sua sopravvenuta abrogazione per effetto dell’articolo 1, comma 562, lettera a), della Legge numero 147 del 2013 e la sua intervenuta dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ad opera della Sentenza numero 236 del 2013, oltre che per lesione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite nella materia “organizzazione amministrativa regionale”.

Anche tale ultima questione non è fondata, in quanto la norma censurata può essere infatti agevolmente interpretata in senso conforme a Costituzione, considerando la finalità attuativa dell’abrogato articolo 9 del Decreto Legge numero 95 del 2012 come inutiliter in essa enunciata, posto che l’obiettivo, che la norma stessa si pone - quello cioè di “accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma della presente legge” - ne sorregge, di per sé, il contenuto dispositivo: “il Ministro per gli Affari Regionali predispone, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni finalizzate ad assicurare, anche attraverso la nomina di commissari, il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla presente legge e la verifica dei risultati ottenuti. Su proposta del Ministro per gli Affari Regionali, con accordo sancito nella Conferenza unificata, sono stabilite le modalità di monitoraggio sullo stato di attuazione della riforma”. 

[1] In http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

Abstract

Il novellato articolo 114 della Costituzione, nel richiamare, al proprio interno, le Città Metropolitane, ha imposto alla Repubblica Italiana il dovere della loro concreta istituzione: tale esigenza costituzionale fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe, del resto, avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione.

Lo ha precisato la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 50, depositata il 26 marzo 2015.

La pronuncia in commento trae origine dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia in relazione a 58 commi dell'articolo 1, Legge n. 56 del 2014 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”).

Le questioni proposte dai ricorrenti coinvolgono: la disciplina delle istituite “Città Metropolitane”; la ridefinizione dei confini territoriali e del quadro delle competenze delle Province, “in attesa della riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione”; il procedimento di riallocazione delle funzioni “non fondamentali” delle Province; la disciplina delle unioni e fusioni di Comuni; la prevista predisposizione di “appositi programmi di attività”, di fonte ministeriale.

1. I ricorsi numero 39, 42, 43 e 44 del 2014 avverso la l’articolo 1 della Legge 7 aprile 2014, numero 56 (così detta “Legge Delrio”). Le censure sollevate.

La Corte Costituzionale con la Sentenza 24 marzo 2015, numero 50 (deposito del 26 marzo 2015)[1] si è pronunciata sui ricorsi presentati dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia (notificati il 4-10, il 4, il 6 - spedito per la notifica - e il 6-12 giugno 2014, depositati in cancelleria il 6, il 13 e il 16 giugno 2014 ed iscritti ai numeri 39, 42, 43 e 44 del registro ricorsi 2014) avverso 58 commi (dei 151 originari, ma poi accresciuti in numero dalle successive modifiche legislative) dell’articolo 1 della Legge 7 aprile 2014, numero 56 (“Disposizioni sulle Città Metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, così detta “Legge Delrio”), per contrasto (congiuntamente o disgiuntamente) con le disposizioni previste agli articoli 1, 2, 3, 5, 48, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione.

Le disposizioni censurate riguardano quelle di cui ai seguenti commi del predetto articolo 1:

– da 5 a 19, 21, 22, 25, 42 e 48, sulla istituzione e disciplina delle Città Metropolitane;

– da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81 e 83, sulla ridefinizione dei confini territoriali e del perimetro delle competenze delle Province («in attesa della riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»);

– da 89 a 92 e 95, concernenti modalità e tempistiche del procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province ed allo scorporo di quelle ad esse sottratte e riassegnate ad altri enti;

– 4, 105, 106, 117, 124, 130 e133, in tema di Unioni e fusioni di Comuni;

– 149, sulla prevista predisposizione, da parte del Ministro per gli Affari Regionali, di “appositi programmi di attività”, per accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma.

2. La disciplina delle Città Metropolitane compete allo Stato e il dovere della loro concreta istituzione si fonda sull’articolo 114 della Costituzione

Riguardo al primo complesso di norme - relative all’istituzione ed alla disciplina dell’ente territoriale, cosi detto di area vasta, (funzionale al prefigurato disegno finale di soppressione delle Province con fonte legislativa di rango costituzionale) - la Corte Costituzionale ritiene che la disciplina delle Città Metropolitane non può che competere allo Stato.

Con la pronuncia in commento, la Consulta rigetta tutte le censure sollevate dai ricorrenti.

Innanzitutto, non viene ritenuta fondata la preliminare questione di competenza sollevata sul presupposto che la mancata espressa previsione della “istituzione delle Città Metropolitane” nell'ambito di materia riservato alla legislazione esclusiva dello Stato ex articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione ne comporti “l'automatica attribuzione alla rivendicata competenza regionale esclusiva”, in applicazione della clausola di residualità di cui all’articolo 117, comma 4 della Costituzione.

Ne consegue, secondo il ragionamento del Giudice delle Leggi, che «se esatta fosse, invero, una tale tesi si dovrebbe pervenire, per assurdo, alla conclusione che la singola Regione sarebbe legittimata a fare ciò che lo Stato “non potrebbe fare” in un campo che non può verosimilmente considerarsi di competenza esclusiva regionale, quale, appunto, quello che attiene alla costituzione della Città Metropolitana, che è ente di rilevanza nazionale (ed anche sovranazionale ai fini dell’accesso a specifici fondi comunitari)».E ciò a maggior ragione ove si consideri che con riguardo al nuovo ente territoriale, le Regioni non avrebbero le competenze, che la richiamata norma costituzionale, riserva in via esclusiva allo Stato, nella materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali”.

Il novellato articolo 114 della Costituzione, nel richiamare al proprio interno, per la prima volta, l'ente territoriale Città Metropolitana, ha imposto alla Repubblica Italiana il dovere della sua concreta istituzione. È proprio, infatti, tale esigenza costituzionale che fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, “che non potrebbe […] avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali”.

3. Segue. La “procedura rinforzata” ex articolo 133, comma 1 della Costituzione applicabile “solo ad interventi singolari”. Il legame specifico tra territorio e popolazioni interessate alle variazioni territoriali

Le Regioni ricorrenti (Campania, Lombardia, Puglia e Veneto) hanno sollevato quaestio legitimatis anche relativamente all’articolo 1, comma 6 della Legge numero 56 del 2014, - che individua il territorio della Città Metropolitana (in coincidenza “con quello della provincia omonima”) e per l’effetto determina una variazione delle circoscrizioni provinciali – per la mancata approvazione ai sensi dell’articolo 133, comma 1 della Costituzione, il quale prevede che “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Provincie nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con legge della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.

Questione che è non fondata perché le regole procedurali previste dall’articolo 133 della Costituzione sono riferibili “solo ad interventi singolari” e, dunque, non trovano applicazione nel caso di interventi generalizzati su tutto il territorio nazionale; di conseguenza “il denunciato comma 6 dell’articolo 1 della legge numero 56 del 2014, non manca, infatti, di prevedere espressamente l’iniziativa dei Comuni, ivi compresi i Comuni capoluogo delle Province limitrofe, ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città Metropolitana, il che per implicito comporta la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima; e, a tal fine, la stessa norma dispone che sia sentita la Regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una intesa tra la Regione stessa ed i Comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) Città Metropolitana”. E ciò testualmente, “ai sensi dell'articolo 133, comma 1, Costituzione” e “nell'ambito della procedura di cui al predetto articolo 133”. Orbene, la Corte Costituzionale, così facendo, si cimenta nella definizione del contenuto precipuo della suddetta disposizione, distinguendo tra variazioni territoriali, per così dire, una tantum e variazioni territoriali che esprimono interventi di sistema. Nel fare ciò, tuttavia, il Giudice delle Leggi si guarda bene dal negare in assoluto la sussistenza di un legame specifico tra territorio e popolazioni interessate: al contrario, distingue le modalità di espressione del consenso da parte delle collettività coinvolte a seconda che si versi nella prima o nella seconda ipotesi.                                                                                                                                    

Ancora diversamente, per la Corte Costituzionale, il coinvolgimento delle popolazioni interessate dalla variazione territoriale è necessario anche laddove il legislatore abbia inteso realizzare “una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica” - che ovviamente non arrivi alla soppressione degli enti locali previsti in Costituzione in sintonia con la Sentenza numero 220 del 2013 -; purtuttavia, quando si tratta di un intervento di nuova articolazione complessiva degli enti locali - del quale peraltro la Legge numero 56 del 2014 costituisce solo l’avvio e “al quale potranno seguire più incisivi interventi di rango costituzionale” - è giustificata “la mancata applicazione delle regole procedurali contenute nell’articolo 133 Costituzione, che risultano riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio, espresso da quelle regole, del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire il predetto avvio in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale.

Per fare salvo questo principio e allo stesso tempo non censurare l’articolo 1, comma 6 della Legge numero 56 del 2014, il Giudice delle Leggi propone una lettura costituzionalmente adeguata della norma in parola, “che, per un principio di conservazione, non può non prevalere su quella, contra Constitutionem, presupposta dalle Regioni ricorrenti”.

Ebbene, il comma 6 non è illegittimo laddove venga interpretato nel senso che l’espressa previsione che “«l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe», ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città Metropolitana”, comporti, per implicito, “la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima”.

4. La soppressione delle Province ex articolo 1, comma 56 della Legge numero 26 del 2014 e la legittimità del modello di governo di secondo grado

Al punto 4 della parte “in diritto”, la Corte Costituzionale motiva il rigetto delle questioni relative al nuovo modello ordinamentale delle Province con riferimento alla competenza statale a provvedere su questa materia; nonché in punto di violazione dei principi di sovranità popolare, autonomia, sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza, e ancora delle previsioni della Carta Europea dell’Autonomia Locale.

Il Giudice delle Leggi, anzitutto, ricorda che è in corso l’approvazione di un progetto di Legge costituzionale per la soppressione delle Province dal novero degli enti autonomi menzionati dall’articolo 114 della Costituzione - del quale, peraltro, espressamente riferisce l’articolo 1, comma 51 della Legge numero 56 del 2014. Di seguito, la Corte Costituzionale conferma quanto già sostenuto nella Sentenza numero 220 del 2013, ossia che il legislatore statale con iter ordinario può legittimamente provvedere al mero riordino dell’ente provinciale, ma non alla sua soppressione. Solo in tale ultimo caso, quindi, sarebbe violato l’articolo 138 della Costituzione.

La Corte Costituzionale afferma che “le censure rivolte al modello di governo di secondo grado, parimenti adottato per il riordinato ente Provincia, risultano non fondate (anche con riguardo al vulnus che si assume derivante all’autonomia finanziaria, di entrate di spesa, ove riconducibile ad organi non direttamente rappresentativi) sulla base delle medesime ragioni già esposte con riferimento alle Città Metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato − nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di […] province» (articolo 117, secondo comma, lettera p, Costituzione)”.

Ebbene, nel punto 3.4.3. della parte “in diritto”, la Corte Costituzionale sostiene – decidendo sulle Città Metropolitane - che il modello di secondo grado non è illegittimo in sé, e per far ciò cerca supporto nella propria giurisprudenza.

Anzitutto viene richiamata la Sentenza numero 365 del 2007 nella quale il Giudice delle Leggi ha ritenuto “non condivisibile” il tentativo dell’allora difesa regionale “di ricondurre l’utilizzazione del termine sovranità al concetto di sovranità popolare di cui al secondo comma dell’articolo 1 Costituzione, nonché di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella partecipazione popolare nei diversi enti regionali e locali”.

Sempre in quell’occasione, peraltro, la Corte Costituzionale aveva pure precisato che: “la sovranità popolare - che per il secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione deve comunque esprimersi «nelle forme e nei limiti della Costituzione» – non può essere confusa con le volontà espresse nei numerosi «luoghi della politica», e […] non si può ridurre la sovranità popolare alla mera «espressione del circuito democratico»”.

Il Giudice Costituzionale prosegue, dunque, nella Sentenza numero 50 del 2015 argomentando che: “La natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’articolo 114 Costituzione, come «costitutivi della Repubblica», ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’articolo 5 Costituzione non implicano, infatti, ciò che le ricorrenti pretendono di desumerne, e cioè l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti”. A sostegno di ciò la Corte costituzionale richiama la Sentenza numero 274 del 2003 e la successiva ordinanza numero 144 del 2009 che avevano escluso “la totale equiparazione tra i diversi livelli di governo territoriale” e, dunque, giustificavano la diversificazione dei modelli di rappresentanza politica nei vari livelli di governo, alla luce proprio dei principi di adeguatezza e differenziazione sui quali si fondano alcune delle attuali censure delle Regioni. Per altro verso, tale assunto neppure può considerarsi superato alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma del Titolo V del 2001, conformemente a quanto già deciso dalla richiamata Sentenza numero 365 del 2007.

D’altra parte, già con la Sentenza numero 96 del 1968 era stata affermata “la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico, escludendo che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo del territorio venga meno in caso di elezioni di secondo grado, «che, del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato»”.

5. Segue. L’articolo 3, comma 2 della Carta Europea dell’Autonomia Locale quale parametro interposto

Quanto al parametro interposto, ai fini della violazione dell’articolo 117, comma 1, Costituzione, rappresentato dall’articolo 3, comma 2, della Carta Europea dell’Autonomia Locale conclusa a Strasburgo il 15 ottobre 1985 tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, i giudici della Corte Costituzionale sostengono che <<a prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta Europea, che lascia ferme le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge, come riconosciuto nella Sentenza di questa Corte numero 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l’idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell’articolo 117, primo comma, Costituzione, è comunque decisivo il rilievo che l’espressione usata dalla norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected”, ha, sì, un rilievo centrale quale garanzia della democraticità del sistema delle autonomie locali, ma va intesa nel senso sostanziale della esigenza di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate.

In questa prospettiva non è esclusa la possibilità di una elezione indiretta, purché siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti.

Tali meccanismi, nella specie, sussistono, essendo imposta la sostituzione di coloro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto, quando venga meno il munus (articolo 1, comma 25, ed analogamente, con riguardo ad organi delle Province, commi 65 e 69)>>. Senza tener in debito conto che l’articolo 1, comma 22 della Legge numero 56 del 2014, espressamente dispone che “lo Statuto della Città Metropolitana può prevedere l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio metropolitano”.                                  

Invero, la Carta Europea dell’Autonomia Locale all’articolo 3, comma 2 oltre ad affermare che le assemblee degli enti locali devono essere elette con “suffragio libero”, impone che esso sia “diretto” e “universale”: a muovere proprio da tale dato letterale parte della dottrina ha sostenuto l’assoluta necessità dell’elezione diretta per i consigli provinciali.

6. Il rigetto della questione sulla proroga dei commissariamenti provinciali, la “cessazione della materia del contendere” relativamente alla disciplina del riordino delle funzioni e gli “enti locali” di cui all’articolo 1, comma 4 della Legge 56/2014 quali ”forme istituzionali di associazioni tra Comuni”

Al punto 4.3.3, la Sentenza numero 50 del 2015 risolve con il rigetto la questione sulla proroga dei commissariamenti provinciali, negando che essa sia sine die come prospettato dalle Regioni ricorrenti. Il Giudice costituzionale, invero, rileva che “il comma 82 dell’articolo 1 in esame - nel testo sostituito dall’articolo 23, comma 1, lettera f), del decreto legge 24 giugno 2014, numero 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni dall’articolo 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, numero 114 - dispone, infatti, che, per le Province già oggetto di commissariamento, il commissario, a partire dal 1° luglio 2014, muti natura, e cioè, sostanzialmente, decada, dando vita, pur nella coincidenza della persona fisica, ad un organo diverso che, privo dei poteri commissariali, è chiamato ad assicurare, a titolo gratuito, la gestione della fase transitoria solo «per l’ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti e indifferibili, fino all’insediamento del presidente della provincia eletto ai sensi dei commi da 58 a 78»”.

Anche il punto relativo alla disciplina legislativa relativa al riordino delle funzioni è risolto in modo netto dalla Corte Costituzionale, ritenendosi che, dall'analisi di quanto avvenuto a seguito della Legge, sia venuto meno l'interesse delle Regioni e si sia così determinato la "cessazione della materia del contendere", soprattutto alla luce dell'Accordo intervenuto tra Stato e Regioni del settembre 2014. Accordo nel quale si sarebbe posto rimedio, secondo la Corte costituzionale, alla presunta illegittimità costituzionale rilevata dalla Regioni, in quanto si sarebbe pervenuti alla "definizione congiunta delle competenze (in relazione al processo di riordino) e della loro ripartizione tra Stato e Regioni in conformità dei titoli di legittimazione stabiliti dalla Costituzione e delle linee direttrici stabiliti dalla stessa legge numero 56 del 2014, sia avuto riguardo al rispettato principio di leale collaborazione da parte dello Stato" (punto 5.5. del Considerato in diritto).

La stessa impostazione è utilizzata dalla Corte Costituzionale con riferimento a quella parte delle impugnative regionali relative alle Unioni dei Comuni (punto 6.2.1 del Considerato in diritto). La Corte Costituzionale ritiene che ciò che l’articolo 1, comma 4 della Legge numero 56 del 2014 definisce come "enti locali" siano soltanto "forme istituzionali di associazioni tra Comuni", che non danno luogo ad un nuovo ente locale diverso dai Comuni associati in Unioni, e rispetto ai quali lo Stato provvederebbe, secondo la Corte Costituzionale, soltanto nei limiti di quanto consentito dalla competenza prevista dal già richiamato articolo 117, comma 2, lettera p).

7. Gli appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni predisposti dal Ministro per gli Affari Regionali al fine di assicurare il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla Legge numero 56/2014

Infine la Regione Campania ha proposto un’ulteriore questione di legittimità costituzionale del comma 149 della Legge numero 56/2014, nella parte in cui prevede che “al fine di procedere all’attuazione di quanto previsto dall’articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, numero 95”, il Ministro per gli Affari Regionali predispone appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni per sospetta violazione degli articoli 97, 117, 118, 123 e 136 della Costituzione e, ciò sul rilievo che, con la norma censurata, sarebbe stata prevista la “reviviscenza” del richiamato articolo 9 del Decreto Legge numero 95 del 2012, malgrado la sua sopravvenuta abrogazione per effetto dell’articolo 1, comma 562, lettera a), della Legge numero 147 del 2013 e la sua intervenuta dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ad opera della Sentenza numero 236 del 2013, oltre che per lesione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite nella materia “organizzazione amministrativa regionale”.

Anche tale ultima questione non è fondata, in quanto la norma censurata può essere infatti agevolmente interpretata in senso conforme a Costituzione, considerando la finalità attuativa dell’abrogato articolo 9 del Decreto Legge numero 95 del 2012 come inutiliter in essa enunciata, posto che l’obiettivo, che la norma stessa si pone - quello cioè di “accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma della presente legge” - ne sorregge, di per sé, il contenuto dispositivo: “il Ministro per gli Affari Regionali predispone, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni finalizzate ad assicurare, anche attraverso la nomina di commissari, il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla presente legge e la verifica dei risultati ottenuti. Su proposta del Ministro per gli Affari Regionali, con accordo sancito nella Conferenza unificata, sono stabilite le modalità di monitoraggio sullo stato di attuazione della riforma”. 

[1] In http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do