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Da Medeva a Forsgren: innovazione e concorrenza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in merito agli SPCs

Da Medeva a Forsgren: innovazione e concorrenza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in merito agli SPCs
Da Medeva a Forsgren: innovazione e concorrenza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in merito agli SPCs

[Relazione tenuta dal Professore Avvocato Cesare Galli al convegno “L’Europa e le imprese innovative: sviluppi europei nel diritto dell’innovazione tecnologica”]

SOMMARIO: 1. La nozione di prodotto e quella di medicinale nel Regolamento n. 2009/469/CE. - 2. La previsione dell’articolo 3 lettera c) del Regolamento, che richiede che “il prodotto non sia già stato oggetto di un certificato”. - 3. (segue) Il rischio della duplicazione della protezione e il problema (decisivo) della sua durata - 4. L’interpretazione dell’articolo 3 lettera a) Reg. CE n. 469/2009 e la nozione di “principi attivi non menzionati nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base”. - 5. I principî attivi presenti nel medicinale in forma modificata e la sentenza nel caso Forsgren: l’equilibrio complessivo del sistema.

1. La disciplina dei certificati complementari di protezione (Supplementary ProtectionCertificates, comunemente noti con l’acronimo SPC, usato per distinguerli dai corrispondenti certificati complementari di protezione “nazionali”) è probabilmente una delle più controverse tra le discipline di fonte comunitaria dell’innovazione tecnologica, probabilmente anche in ragione degli enormi interessi economici sottostanti.

Le disposizioni contenute nel Regolamento n. 92/1768/CEE del 18 giugno 1992 (di cui il Regolamento n. 2009/469/C.E. del 6 maggio 2009 attualmente vigente rappresenta la versione codificata) hanno infatti dettato una disciplina unificata a livello comunitario di un nuovo certificato protettivo complementare per i medicinali (in sigla: SPC, da Supplementary Protection Certificates), facendo peraltro salvi gli effetti dei certificati già concessi in base alle discipline nazionali, e quindi anche quelli concessi nel nostro Paese in base alla legge 19 ottobre 1991, n. 349, alcuni dei quali, in effetti sono giunti a scadenza solo pochi anni fa, creando difficili problemi di coordinamento, a causa della difformità di contenuto (e soprattutto di durata della protezione) tra norma interna e norma comunitaria[1].

Successivamente sempre a livello comunitario sono stati varati il Regolamento n. 96/1610/CE del 23 luglio 1996, istitutivo di un analogo certificato protettivo complementare per i prodotti fitosanitari, ed il cui «considerando» 17 si configura quale «norma di interpretazione autentica rispetto al Regolamento n. 92/1768/CEE, poiché dispone espressamente che il precedente regolamento vada interpretato nel senso che la protezione attribuita dal certificato si estende al principio attivo o ai principî attivi oggetto del brevetto corrispondente, in quanto siano utilizzati nel medicinale cui il certificato si riferisce»[2]; e il Regolamento n. 2006/1901/CE del 12 dicembre 2006 relativo ai medicinali per uso pediatrico, che contiene una parziale integrazione della disciplina degli SPC sotto il profilo della durata, appunto in relazione alla destinazione all’uso pediatrico dei farmaci.

Gli SPC sono concessi a tutela del “prodotto” in quanto “autorizzato come medicinale” ai sensi dell’art. 3 del medesimo Reg. CE n. 469/2009, che disciplina appunto i requisiti per l’ottenimento del certificato complementare di protezione, prevedendo che, questo dev’essere concesso alle (sole) condizioni che: (a) risulti che “il prodotto è protetto da un brevetto di base in vigore”; e (b) risulti che “per il prodotto in quanto medicinale è stata rilasciata un’autorizzazione in corso di validità di immissione in commercio”. È altresì richiesto - e questo, come vedremo, è uno dei temi sui quali maggiormente si è acceso il dibattito – che il prodotto non sia già stato oggetto di un certificato e che l’autorizzazione in relazione alla quale lo SPC è domandato sia la prima che è stata concessa nell’Unione Europea per il prodotto in quanto medicinale.

Il primo chiarimento di cui questa norma necessita è però sul piano terminologico, per stabilire che il “prodotto” non è il medicinale, ma è il principio attivo in esso contenuto. Nonostante l’ambiguità che l’uso del termine “prodotto” può ingenerare, l’unica interpretazione coerente della norma è infatti nel senso di distinguere il “prodotto” dal “medicinale”, che, ai sensi dell’articolo 1 del medesimo Regolamento C.E. n. 469/2009, sono definiti rispettivamente come “il principio attivo o la composizione di principi attivi di un medicinale” (il prodotto) e come una “composizione presentata come avente proprietà curative … d(i) una malatti(a) uman(a)” (il medicinale).

Questa distinzione è del resto chiaramente rispecchiata anche dall’articolo 3 del Reg. CE n. 469/2009, che anzi consente di apprezzarne meglio il significato: se infatti esaminiamo più da vicino i presupposti richiesti dalla norma per il rilascio del SPC, risulta evidente che solo sulla base di tale distinzione è possibile dare un senso alle disposizioni in essa contenute. Ciò vale anzitutto per la condizione che il “prodotto”, (e non il “medicinale”), sia coperto da un brevetto di base, potendo un medicinale essere ancora ben al di là da venire al momento del deposito della domanda di brevetto, come ben sa chiunque abbia esperienza nel campo della ricerca farmaceutica). Del pari solo questa distinzione fa sì che abbia un senso la previsione che richiede che il “prodotto” sia “autorizzato come medicinale”, e cioè che esso sia impiegato nell’ambito di una composizione avente proprietà curative di una malattia umana e che sia passata al vaglio delle Autorità deputate a concedere l’AIC sui farmaci: e non già che esso sia in sé e per sé il “medicinale”, anche perché, se così non fosse, l’SPC potrebbe essere concesso probabilmente per il solo bicarbonato di sodio. Anche la condizione richiesta per cui “l’autorizzazione di cui alla lettera b) sia la prima autorizzazione di immissione in commercio del prodotto in quanto medicinale” si spiega solo col fatto che, “prodotto” e “medicinale” non sono nozioni sovrapposte, potendo il medesimo “prodotto” essere il principio attivo di “medicinali” diversi, anche destinati a curare diverse malattie e oggetto di diverse autorizzazioni all’immissione in commercio.
La distinzione è ulteriormente confermata a chiarita dalla norma sull’ambito di protezione degli SPC, ossia dall’articolo 4 del Regolamento, che, come già si è ricordato, prevede che “nei limiti della protezione del brevetto di base, la protezione conferita dal certificato riguarda il solo prodotto oggetto dell’autorizzazione all’immissione in commercio del medicinale corrispondente, per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”: cosicché è ancora una volta evidente che il SPC ha per oggetto il “prodotto” e non il medicinale “specializzato” (ovvero destinato a curare una specifica malattia) nel quale lo stesso sia compreso, affermazione che deve necessariamente valere non solo per la determinazione dell’ambito di protezione derivante dal certificato, ma anche per i presupposti per la valida concessione, non essendo possibile immaginare l’esistenza di un’asimmetria.

Dal concorso di questi elementi si ricava quindi che la disciplina degli SPC distingue chiaramente il “prodotto” dal “medicinale”, nel senso che il primo è, per definizione, solo un elemento del secondo, e precisamente l’elemento dotato di effetti terapeutici propri, non necessariamente riferiti solo alla malattia curata dal medicinale autorizzato, ben potendo in sé può prestarsi anche a impieghi terapeutici diversi da quello del primo medicinale autorizzato, in relazione al quale è rilasciato il SPC. E in questo senso si è in effetti espressa la Corte di Giustizia europea nella sua sentenza del 4 maggio 2006 nella causa C-431/04, Massachusetts Institute of Technology. In particolare tale decisione - occupandosi di una sostanza citotossica, la Carmustina, che, proprio in ragione del suo alto grado di tossicità, può essere utilizzata come antitumorale per la cura di neoplasie al cervello, solo in combinazione con un’altra sostanza (il Proliferprosan) - ha chiarito che “la nozione di ‘composizione di principi attivi di un medicinale’ non comprende una composizione costituita da due sostanze delle quali soltanto una è dotata di effetti terapeutici propri per una determinata indicazione e l’altra consente di ottenere una forma farmaceutica del medicinale necessaria all’efficacia terapeutica della prima sostanza per la medesima indicazione”: così rendendo evidente che nell’ambito di un medicinale un ingrediente può essere necessario allo svolgimento dell’effetto terapeutico del principio attivo, senza che ciò consenta di parlare di combinazione di principî attivi (o, come vedremo, nel caso del legame covalente, di un “nuovo” principio attivo “complessivo”), giacché questa composizione non è il “prodotto”, ma appunto il “medicinale”.

È anzi degno di nota che la Corte di Giustizia, nella decisione C-431/04 appena richiamata, non fa discendere le sue conclusioni dalla tipologia di sostanza (eccipiente o altro), ma dal ruolo terapeutico dalla stessa esercitata. Ed infatti, come vedremo, nella sua successiva sentenza nel caso Forsgren, resa proprio quest’anno, la Corte di Giustizia ha precisato che queste conclusioni non cambiano persino nel caso in cui la sostanza alla quale il principio attivo è legato sia a sua volta un principio attivo, così fornendo, per così dire, la cartina di tornasole dell’esattezza di questa prima conclusione cui siamo giunti.

3. Questo chiarimento, che non è solo terminologico, basta di per sé a portarci sulla strada giusta per risolvere la prima delle questioni che si sono maggiormente dibattute in questi anni in relazione agli SPC - anche nel nostro Paese, dove il Tribunale di Milano ha effettuato lo scorso anno su questo punto un significativo revirement - e cioè quella di stabilire se sia possibile ottenere un secondo certificato complementare di scadenza successiva al primo, quando il principio attivo coperto da un brevetto sia utilizzato in un secondo medicinale, in una combinazione (o in una diversa combinazione, se già nel primo medicinale il principio attivo era usato in combinazione, come in effetti frequentemente avviene) con altri elementi. Al riconoscimento di tale possibilità si oppone infatti anzitutto proprio il disposto dell’articolo 3, comma 1 lettera d del Reg. CE 439/2009, che prevede fra le condizioni di rilascio dell’SPC il fatto che il “prodotto non sia già stato oggetto di un certificato”: una volta chiarito, infatti, che per “prodotto” la norma intende il “principio attivo” e non il farmaco che lo contenga, secondo la definizione espressa dettata dall’articolo 1, lett. b del medesimo Regolamento, non vi è dubbio che, qualora un principio attivo abbia formato oggetto di un primo SPC, non è più possibile ottenerne un secondo, che scada successivamente al primo, per un diverso farmaco in cui lo stesso sia utilizzato in una combinazione.

Queste conclusioni hanno trovato anche qui esplicita conferma ad opera della Corte di Giustizia europea, con la sua sentenza nel caso Actavis, nel quale veniva in considerazione l’abbinamento di un principio attivo brevettato antipressorio (l’Irbesartan) e di un diuretico (l’Idroclorotiazide). In questa sentenza i Giudici comunitari hanno infatti chiarito in via di interpretazione pregiudiziale il senso della “regola” contenuta nell’articolo 3 del Regolamento, affermando appunto che, ove il titolare del brevetto abbia già ottenuto, sulla base di una prima AIC, un SPC su un principio attivo protetto da tale privativa, “l’articolo 3, lettera c), del regolamento (CE) n. 469/2009 … dev’essere interpretato nel senso che osta a che, sul fondamento del medesimo brevetto, ma di un’autorizzazione di immissione in commercio successiva di un medicinale diverso contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo che non è, in quanto tale, protetto da detto brevetto, al titolare di tale medesimo brevetto sia rilasciato un secondo certificato protettivo complementare avente ad oggetto tale composizione di principi attivi” (Corte Giust. CE, 12 dicembre 2013, C-443/2012, Actavis).

Più precisamente, la sentenza della Corte di Giustizia sopra richiamata aveva ad oggetto un caso in cui al titolare del brevetto di base, la Sanofi, erano stati concessi un primo SPC sulla base di un’AIC per il medicinale “Aprovel”, contenente quale principio attivo unico l’Irbersartan, sostanza protetta in quanto tale dallo stesso brevetto di base ed indicata per il trattamento dell’ipertensione essenziale; e, successivamente, un secondo SPC sulla base di una nuova AIC per il medicinale “CoAprovel”, contenente la combinazione dell’Irbesartan con il diuretico Idroclorotiazide, quest’ultimo non protetto in quanto tale (e cioè non protetto se non in combinazione con l’Irbesartan) dal brevetto di base (ed anzi, come precisa la sentenza della Corte di Giustizia, al punto 32 non protetto da nessun brevetto).

È interessante notare qual è stato il ragionamento attraverso il quale, a fronte di tale situazione, i giudici comunitari sono pervenuti a queste conclusioni. La Corte ha infatti osservato che:

a) ai sensi dell’articolo 5 del Reg. C.E. n. 469/2009, un SPC rilasciato per un “prodotto” - daintendersi, ai sensi della definizione di cui all’articolo 1, lett. b, come “principio attivo o composizione di principi attivi di un medicinale” - “conferisce, alla scadenza del brevetto di base, gli stessi diritti che venivano attribuiti dal brevetto di base rispetto a tale prodotto” (punto 33), cosicché è pacifico che “il primo SPC (che copriva l’Irbesartan come principio attivo unico: n.d.r.) consentiva al (titolare) di opporsi alla commercializzazione di un medicinale contenente l’Irbesartan in combinazione con l’Idroclorotiazide … cosicché se un concorrente … avesse commercializzato un medicinale analogo al CoAprovel … il (titolare) avrebbe potuto opporsi a tale commercializzazione fondandosi in proposito sul suo SPC avente ad oggetto l’Irbesartan” (punto 35);

b) “in una situazione del genere, l’articolo 13 del regolamento n. 469/2009 impone che, alla scadenza del primo SPC, il titolare di quest’ultimo non possa più opporsi, relativamente al brevetto di base che aveva costituito il fondamento del suo rilascio, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo che era stato oggetto della protezione conferita da tale SPC, il che implica che, dopo tale data, detti terzi devono avere la possibilità di immettere in commercio non soltanto medicinali consistenti in tale principio attivo precedentemente protetto, ma anche qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo non protetto in quanto tale da detto brevetto di base” (punto 36);

c) “il secondo SPC è in realtà atto a conferire al suo titolare, anche se parzialmente ed indirettamente, una nuova protezione dell’Irbesartan, che prolunga, di fatto, quella di cui esso ha già beneficiato grazie al rilascio del primo SPC avente ad oggetto tale principio attivo”, e ciò anche in considerazione del fatto che “non è escluso che, in applicazione di un diritto nazionale che preveda una determinata tutela contro una violazione indiretta, un SPC avente ad oggetto la composizione Irbesartan- Idroclorotiazide possa consentire al suo titolare di opporsi alla commercializzazione di un medicinale contenente il principio attivo Irbesartan, solo o in composizione”: e non è nemmeno necessario ricordare che l’istituto della contraffazione indiretta, o contributory infringement, è pacificamente accolto dalla nostra giurisprudenza nazionale e sarà codificato in occasione della ratifica dell’Accordo istitutivo della Unified Patent Court.

Nel fornire in via pregiudiziale l’interpretazione dell’articolo 3 del Reg. C.E. 469/2009 (interpretazione che è naturalmente vincolante per il Giudice nazionale, anche al di là della sua intrinseca esattezza), la Corte ha anche precisato quale sia la ratio della disposizione, sottolineando che “l’obiettivo fondamentale del regolamento n. 469/2008 consiste nel compensare il ritardo accumulato nella commercializzazione di ciò che costituisce il cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”: cuore che, nel caso deciso dai Giudici comunitari, era il principio attivo Irbesartan. Pertanto - si legge sempre nella decisione Actavis - “il rilascio di un primo SPC per il principio attivo unico Irbesartan ha già concesso al suo titolare di beneficiare di tale compensazione”, anche in considerazione del fatto che “obiettivo di tale regolamento non è quello di compensare integralmente i ritardi accumulati nella commercializzazione dell’invenzione né di compensare tali ritardi con riferimento a tutte le forme di commercializzazione possibili di detta invenzione, tra cui la forma di composizioni declinate a partire dal medesimo principio attivo” (punto 40).

Al di là del linguaggio indubbiamente poco consono alla materia brevettuale - caratteristica comune, come vedremo, ad altre decisioni della Corte europea in questa materia, decisioni che richiedono per questo talvolta di essere “tradotte” in termini conformi al diritto dei brevetti - tale chiara affermazione di carattere generale risponde comunque in modo esaustivo ai tentativi che i titolari degli SPC “a cascata” hanno fatto, di sostenere che la concessione di ulteriori SPC successivi al primo si giustificherebbe appunto nell’ottica per cui bisognerebbe compensarli anche del ritardo intercorso fra lo sviluppo e la commercializzazione del farmaco che, in ipotesi, contenga il principio attivo in combinazione non inventiva con altre sostanze (o in una diversa combinazione rispetto a quella per la quale è stato rilasciato il primo certificato complementare), non essendo appunto questa esigenza che la disciplina comunitaria è finalizzata a risolvere.

Sempre nella sentenza Actavis la Corte ha chiarito ulteriormente questo punto (che è decisivo), spiegando ancora che invece “se una composizione costituita da un principio attivo innovativo che ha già beneficiato di un SPC e da un altro principio attivo, che non era protetto in quanto tale dal brevetto di cui trattasi, è oggetto di un nuovo brevetto di base ai sensi dell’articolo 1, lett. c) di detto regolamento, quest’ultimo brevetto, in quanto riguarderebbe un’innovazione totalmente distinta, potrebbe dare un diritto ad un SPC per tale composizione nuova immessa successivamente in commercio” (punto 42 della sentenza Actavis): con ciò chiarendo che in questo diverso caso (ossia nel caso in cui ci si trova di fronte a una nuova invenzione) la combinazione legittima la concessione di un secondo SPC (relativa appunto a questa seconda invenzione), non essendo invece sufficiente che la combinazione sia rivendicata nel primo brevetto di base, come accadeva invece nel caso di specie sottoposto all’esame della Corte, tra l’altro in virtù di una limitazione chiaramente strumentale –, ma dovendo costituire la combinazione un’invenzione di per sé tutelabile e autonoma, oggetto di un diverso titolo (che sarebbe necessariamente un brevetto dipendente), o almeno (questo la Corte non lo dice, ma mi pare che la ratio sia la stessa e quindi che lo si possa ragionevolmente sostenere) di rivendicazioni dipendenti che siano di per sé inventive, ossia che comportino un salto inventivo rispetto a quanto protetto dalle rivendicazioni che stanno a monte di esse, cosicché, in sostanza, non è ammissibile un prolungamento della protezione brevettuale per una combinazione che non offre nessun contributo inventivo ulteriore allo stato della tecnica.

Dalla ratio così identificata della protezione complementare, la Corte ha poi coerentemente fatto discendere - con il conforto della previsione espressa di cui all’articolo 13 del Reg. CE n. 469/2009 - il rilievo per cui “alla scadenza del primo SPC, il titolare di quest’ultimo non p(uò) più opporsi, relativamente al brevetto di base che aveva costituito il fondamento del suo rilascio, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo che era stato oggetto della protezione conferita da tale SPC, il che implica che, dopo tale data, detti terzi devono avere la possibilità di immettere in commercio non soltanto medicinali consistenti in tale principio attivo precedentemente protetto, ma anche qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo non protetto in quanto tale da detto brevetto di base”, avendo il primo SPC già assolto all’esigenza di compensare il ritardo nella commercializzazione del “cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”.

Non è neppure vero, quindi, come pure si è sostenuto in successive cause nazionali in cui si poneva lo stesso problema che la conclusione raggiunta dalla sentenza della Corte di Giustizia si fondi sul fatto che, nel caso dell’Irbesartan, la combinazione che veniva rivendicata di quest’ultimo era con un’intera categoria di sostanze, anziché con il solo Idroclorotiazide, cosicché la stessa avrebbe potuto dare luogo al rilascio di SPC multipli per tutte le immissioni in commercio successive di tale principio attivo con un numero illimitato di altri principi attivi, e che quindi la decisione comunitaria volesse precludere soltanto la possibilità (insita nel fatto che venga rivendicata la combinazione con una categoria di sostanze e non con una sostanza soltanto) di rilascio di un numero potenzialmente infinito di SPC, in cui il principio attivo compaia di volta in volta abbinato ad un diverso specifico diuretico. Tale questione è infatti bensì affrontata al punto 41 della decisione, ma la stessa costituisce solo una motivazione di rincalzo, ulteriore rispetto all’affermazione generale di principio - come si è visto, ritenuto dai Giudici comunitari già di per sé sufficiente a determinare la conclusione raggiunta - secondo cui il prolungamento di protezione legata conferita dall’SPC si giustifica solo con riferimento al “cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”.

3. A questa ratio è coerente anche un’altra decisione della Corte di Giustizia, che ha affrontato una questione almeno in parte diversa - ma ovviamente correlata - a quella qui esaminata, e cioè la sentenza del 12 dicembre 2012 nel caso C-484/2013 (Georgetown), la quale si è posta il problema di stabilire se l’articolo 3 del Reg. C.E. n. 469/2009 debba essere interpretato nel senso che questo osti al fatto che il titolare di un brevetto di base possa ottenere un (secondo) SPC su un singolo principio attivo protetto in quanto tale da tale brevetto, se in precedenza fosse già stato concesso un primo SPC su una combinazione di principi attivi rivendicata nella privativa stessa e comprendente la sostanza tutelata individualmente dal secondo certificato: e cioè un caso che è in qualche misura speculare rispetto a quello della sentenza Actavis, come la stessa Corte non ha mancato di rilevare , sottolineando, al punto 33 della decisione ora richiamata, che “i fatti del procedimento principale si differenziano da quelli della causa all’origine della sentenza citata Actavis Group PTC e Actavis UK” e cioè dal caso dell’Irbesartan.

Infatti anche la sentenza resa nel caso Georgetown afferma che, nel peculiare caso da essa considerato, il titolare del brevetto base potrebbe bensì conseguire due SPC, uno sulla combinazione dei principi attivi tutelata dal brevetto e uno sul singolo principio attivo tutelato anche in quanto tale (e non solo nella combinazione) dal brevetto stesso, ma solo se entrambe le domande di SPC si fondassero sulla medesima Autorizzazione all’Immissione in Commercio per lo stesso farmaco, giacché in tale ipotesi “il rilascio di SPC multipli … consente di ristabilire una durata di tutela effettiva sufficiente del brevetto, e uniforme nel caso dei due SPC summenzionati”, in quanto i due SPC “scadranno … alla medesima data” (punti 36 e 35 della decisione), cosicché non vi sarebbe qui alcun indebito prolungamento della tutela. Viceversa, prosegue la sentenza Georgetown, “la formulazione letterale stessa dell’articolo 3, lett. c) del regolamento n. 469/2009 osta a che (il) titolare ottenga, sulla base del medesimo brevetto un altro SPC su tale stesso HPC-16 (il principio attivo ‘singolo’: n.d.r.) sul fondamento di un’AIC ulteriore di un altro medicinale contenente anche il menzionato HPV-16” (punto 38), perché in questo secondo caso la durata della tutela non sarebbe “uniforme” e gli SPC non scadrebbero “alla medesima data”.

La sentenza Georgetown ribadisce cioè il principio generale del divieto di prolungamento surrettizio della protezione complementare attraverso la richiesta di SPC con scadenze successive: non è cioè il numero degli SPC l’elemento critico, ma la durata della protezione del principio attivo conseguibile per il tramite di essi, che non può comunque eccedere quella calcolata in relazione alla prima autorizzazione all’immissione in commercio del “prodotto in quanto medicinale”, cioè del primo medicinale che incorpori tale principio attivo.

Questo punto emerge con molta chiarezza dal punto 40 della decisione Georgetown, dove la Corte rileva, con riferimento ai due SPC di pari durata sulla combinazione e sul principio attivo, che “l’articolo 13 del regolamento n. 469/2009 prescrive che, allo scadere degli stessi, il loro titolare non possa ulteriormente opporsi, con riferimento al brevetto di base utilizzato quale fondamento per il rilascio di detti CPC, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo unico, prodotto da uno dei due SPC in parola, e nemmeno alla commercializzazione della composizione, protetta dall’altro certificato. Ciò comporta che, dopo la data di scadenza dei due CPC di cui trattasi, detti terzi devono avere la possibilità di immettere sul mercato non solo medicinali consistenti in tale principio attivo unico o in siffatta composizione di principi attivi, in precedenza protetti, ma altresì qualsiasi medicinale contenente il summenzionato principio attivo o la summenzionata composizione, eventualmente in combinazione con altri principi attivi”.

La sentenza in parola contiene poi anche un’altra importante sottolineatura di portata generale, là dove afferma che “l’obiettivo perseguito dal regolamento in parola (il Reg. CE 469/2009) che, come risulta dal punto 11 del preambolo alla proposta di regolamento (CEE) del Consiglio, dell’11 aprile 1990, sulla creazione di un certificato protettivo complementare [COM(90) 101 def.], è diretto ad incoraggiare la ricerca in ambito farmaceutico rilasciando un CPC per prodotto, intendendo quest’ultimo nel senso stretto di sostanza attiva” (punto 31): il che conferma ulteriormente che la combinazione che non costituisca un’invenzione distinta ed ulteriore rispetto al principio attivo oggetto del brevetto base non giustifica la concessione di un secondo SPC, che prolunghi l’ambito di esclusiva.

Si può dunque ben dire che l’ordinamento comunitario (direttamente applicabile al nostro caso, venendo qui in considerazione una fattispecie disciplinata da un Regolamento comunitario, ed al quale comunque quello nazionale deve sul punto conformarsi, per ovvie ragioni di gerarchia delle fonti), impedisce surrettizie manovre di prolungamento delle esclusive che non siano fondate su innovazioni meritevoli di tutela e che vadano a discapito della libertà di concorrenza, ledendo così un principio cardine dell’ordinamento comunitario, che per giunta, nel caso dei farmaci, risponde anche ad ulteriori ragioni di pubblico interesse, dal momento che la messa a disposizione di generici diminuisce i costi a carico della sanità pubblica per l’erogazione delle cure.

Ed a questi principî si è adeguata anche la nostra giurisprudenza nazionale, che, dopo essersi pronunciata una prima volta in favore della possibilità di rilascio di un secondo SPC con scadenza successiva, in presenza di una combinazione (non inventiva) del principio attivo già coperto da un primo SPC, con un’altra sostanza, ha poi rettificato queste conclusioni con due sentenze rese dal Tribunale di Milano rispettivamente il 21 e il 28 luglio 2014, entrambe relative ad un farmaco contenente la combinazione in sé non inventiva tra un antipressorio (questa volta il Telmisartan), che già aveva beneficiato della protezione complementare, e un diuretico (sempre l’Idroclorotiazide): anche in questo caso nel ragionamento della Corte di Milano ha assunto rilievo decisivo la considerazione per cui ciò che realmente rileva non è il numero degli SPC che possono essere concessi in relazione ad un medesimo brevetto di base, bensì la durata della protezione complementare, appunto perché la ratio del Regolamento CE n. 469/2009 è quella di non consentire ulteriori estensioni della protezione brevettuale complementare, rispetto a quella calcolata sulla prima AIC, come accadrebbe se, come nel caso che ci occupa, la concessione di un secondo SPC sulla combinazione venisse a coprire anche un periodo successivo alla scadenza del primo SPC sul principio attivo.

4. Le considerazioni che abbiamo svolto all’inizio per chiarire il significato da attribuire alla parola “prodotto” nel contesto del Regolamento e sulla ratio del prolungamento di tutela ottenuto attraverso il rilascio degli SPC consentono di affrontare in modo coerente anche un secondo problema estremamente dibattuto e cioè quello di stabilire se la tutela complementare può essere concessa anche quando il “prodotto” (ossia il principio attivo o la composizione di principî attivi, dotati di efficacia terapeutica) contenuto nel medicamento autorizzato non è espressamente “menzionato” nelle rivendicazioni del brevetto di base.

Il problema si è posto perché in una nota sentenza del 2011 (Corte Giust. U.E., 24 novembre 2011, nel procedimento C-322/10, Medeva) i Giudici comunitari hanno affermato che “L’articolo 3, lettera a), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 6 maggio 2009, n. 469, sul certificato protettivo complementare per i medicinali, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che i competenti uffici della proprietà industriale di uno Stato membro rilascino un certificato protettivo complementare riguardante principî attivi non menzionati nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base invocato a sostegno di una tale domanda”.

Anche in questo caso il linguaggio della Corte è poco consono alla materia brevettuale, che non distingue, ai fini dell’identificazione dell’oggetto della protezione, tra principî attivi menzionati e non menzionati nelle rivendicazioni, bensì tra principî attivi coperti e non coperti dal brevetto; ed in effetti anche l’articolo 3, tra i presupposti per il rilascio degli SPC, richiede unicamente che il “prodotto”, cioè il principio attivo, sia “protetto da un brevetto di base in vigore”, indicando cioè l’infringement test (o,come pare più corretto dire, il test relativo all’ambito di protezione del brevetto, determinato in base alle regole sull’interpretazione di cui all’articolo 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo e al relativo protocollo interpretativo) come criterio per determinare se sussiste il presupposto della protezione del principio attivo, questo essendo appunto richiesto dal Regolamento.

La stessa Corte europea ha peraltro “corretto il tiro” nella sua successiva sentenza del 12 dicembre 2013, nel procedimento C-493/12, Eli Lilly, che, pur non essendo scevra di ambiguità (che tradiscono anche qui una scarsa dimestichezza con le problematiche brevettuali), sembra chiarire e superare l’insegnamento della precedente giurisprudenza Medeva (dalla cui lettura del Regolamento si era dissociata la stessa Commissione Europea: si veda il punto 29 della sentenza Eli Lilly, ove si legge che “La Commissione riconosce che richiedere un riferimento letterale al principio attivo nelle rivendicazioni di un brevetto di base sarebbe indebitamente restrittivo”); tale sentenza, infatti, ha ritenuto che, per la concessione del SPC, è sufficiente che “sulla base di tali rivendicazioni, interpretate in particolare alla luce della descrizione dell’invenzione, come prevedono l’articolo 69 della CBE e il protocollo relativo all’interpretazione di tale articolo, sia possibile concludere che tali rivendicazioni si riferivano, implicitamente ma necessariamente, e in maniera specifica, al principio attivo di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

Si devono rimarcare qui due ulteriori dati: e cioè che, anzitutto, la sentenza Eli Lilly demanda il compito di stabilire se la condizione di cui sopra sia soddisfatta al giudice nazionale, che dovrà interpretare le rivendicazione (appunto al fine di stabilire se si “riferiscano implicitamente ma necessariamente, e in maniera specifica, al principio attivo”) in base a quanto previsto dall’art. 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo e dal relativo Protocollo interpretativo (punto 40 della sentenza); ed altresì che al riguardo la sentenza aggiunge che “occorre tuttavia precisare, per quanto attiene ai requisiti derivanti dalla CBE, che la Corte non è affatto competente a interpretare le disposizioni di tale convenzione, dato che, a differenza degli Stati membri, l’Unione non vi ha aderito. Pertanto, la Corte non può fornire ulteriori indicazioni al giudice del rinvio per quanto riguarda le modalità per valutare la portata delle rivendicazioni di un brevetto rilasciato dall’UEB”, rimandando dunque alle regole interpretative previste dalla CBE.

Si deve anche sottolineare che le circostanze del caso concreto possono avere influito sul wording usato dalla Corte: nel caso oggetto della decisione Ely Lilly il SPC richiesto aveva infatti ad oggetto un anticorpo (l’anticorpo LY2127399), che, secondo quanto sostenuto dal richiedente, doveva ritenersi protetto dal brevetto di base, il quale tuttavia rivendicava del tutto genericamente un “anticorpo isolato o parte di tale anticorpo che si lega specificamente al polipeptide neutrocina α” (punti 13 e 15 della decisione), con una definizione funzionale che potrebbe essere sufficiente alla condizione (il cui rispetto il Giudice nazionale ha il compito di valutare) che tale anticorpo si possa individuare alla luce dell’interpretazione del brevetto, e non ci si trovi invece nella situazione in cui il brevetto rimandi ad un’intera (indeterminata) gamma di anticorpi idonei a legarsi al polipeptide neutrocina, giustificando quindi la richiesta della Corte della presenza di un riferimento anche implicito, ma necessario e specifico. Sulla risposta della Corte ha peraltro ovviamente influito anche la formulazione del quesito rivolto dal giudice remittente (la High Court inglese), che chiedeva anzitutto ai giudici comunitari di stabilire se “è necessario che il principio attivo sia menzionato nelle rivendicazioni di tale brevetto mediante una formula strutturale, o se tale principio attivo possa essere considerato protetto anche qualora sia ricompreso in una formula funzionale contenuta in tali rivendicazioni” e che quindi implicava una contrapposizione tra rivendicazioni strutturali e funzionali, che in effetti riaffiora in vari passaggi della sentenza, anche se non sembra l’elemento decisivo della valutazione dei Giudici, che fanno invece apertamente riferimento al “ruolo essenziale delle rivendicazioni per stabilire se un prodotto sia protetto da un brevetto di base ai sensi di tale disposizione” (punto 33 e, in termini analoghi, punto 34 della decisione): rilievo questo che pare rimandare - anche se senza una totale consapevolezza della questione - ai consueti criteri interpretativi dell’ambito di protezione dei brevetti codificati dalla Convenzione sul Brevetto Europeo e recepiti anche nel nostro Codice della Proprietà Industriale, all’articolo 52.

5. La prospettiva della valorizzazione delle rivendicazioni non solo nel loro tenore letterale, ma nella portata che ad esse va attribuita in via interpretativa, ed in particolare delle definizioni funzionali in esse contenute, appare del resto coerente con la regola prevista mentre dall’articolo 4 del Regolamento, che prevede che “nei limiti della protezione del brevetto di base, la protezione conferita dal certificato riguarda il prodotto … per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”: e ciò per la necessaria simmetria che, come si è già ricordato, deve esistere tra ambito di protezione e presupposti per la valida concessione del certificato complementare, nella prospettiva pro-concorrenziale che caratterizza in generale il diritto della proprietà intellettuale, in particolare nell’interpretazione dei vari istituti di esso fornita dalla Corte di Giustizia europea e del resto anche nella chiave di lettura di stampo giusnaturalistico ad essa implicitamente sottesa, che tende a commisurare la protezione di questi diritti a ciò che essi concretamente rappresentano nel mondo della vita.

Senza spingersi sino alle interpretazioni estreme che vorrebbero addirittura far rientrare nell’ambito di esclusiva attribuito dal brevetto persino le forme di attuazione che deriverebbero dall’aggiornamento tecnologico, in quanto il giudizio di contraffazione dovrebbe essere collocato temporalmente nel momento in cui si verifica la condotta del terzo, cosicché dovrebbero ritenersi lesive dell’esclusiva persino realizzazioni nemmeno ipotizzabili all’epoca del deposito[3], il punto di equilibrio va evidentemente ricercato nei più consueti criteri interpretativi che si basano sì sulle rivendicazioni, ma interpretandole alla luce della descrizione e, più in generale, delle conoscenze già presenti nello stato della tecnica al momento del deposito, comprese quelle riconducibili alla common general knowledge dell’epoca, in relazione alla quale il Board of Appeal dell’EPO ha chiarito che “the skilled person may use his common general knowledge to supplement the information contained in the application”[4], cosicché anch’essa può essere utilizzata per determinare il limite dell’ambito di esclusiva attribuito dal brevetto, ossia ciò che il tecnico del ramo può ricavare dalle rivendicazioni, anche in termini di equivalenza, ovviamente una volta chiarito che il punto di riferimento di quest’ultima non è un’astratta “idea di soluzione”, ma ciò che si rinviene appunto nelle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione integrata dalla common general knowledge.

In questa prospettiva sarebbe evidentemente assurdo richiedere che il principio attivo debba ritenersi “protetto da un brevetto di base in vigore” solo quando esso è nominativamente indicato nelle rivendicazioni, giacché si deve escludere, in base ai consueti criteri interpretativi, che una rivendicazione che tutela un composto chimico lo protegga solo tel quel, non essendo pensabile che sia esclusa dall’ambito di esclusiva ogni modifica, seppur minima e necessaria ad attuare un insegnamento del brevetto, tanto più che di regola un brevetto farmaceutico rivendica espressamente non solo il principio attivo (o i principi attivi) che ne formano oggetto, in sé considerati, ma anche l’uso in medicina dello stesso, uso che spesso comporta anche delle modificazioni di esso. La tesi opposta, del resto, ipotizzerebbe che in materia chimica e farmaceutica si applichino, senza alcuna giustificazione, regole diverse e più restrittive da quelle che valgono in ogni altro settore della tecnica, il che risulta però immediatamente erroneo, ed è stato infatti negato dalla giurisprudenza in materia di ambito di protezione dei brevetti farmaceutici e biotecnologici, che ha ad esempio affermato che “La contraffazione di un’invenzione biotecnologica non è esclusa dalla non perfetta sovrapponibilità delle sequenze di amminoacidi rivendicate nel brevetto e di quelle usate dal contraffattore, quando sia comunque riscontrabile la corrispondenza dei tratti di sequenza che manifestano peculiare efficacia ai fini dello svolgimento dell’attività del composto, per ottenere il risultato perseguito nel brevetto”[5].

6. A queste conclusioni sembra essere in effetti giunta la più recente giurisprudenza comunitaria in materia, e cioè la sentenza di Corte Giust. U.E., 15 gennaio 2015, nel procedimento C-631/13, Forsgren, che ha affermato che non osta alla concessione di un valido SPC la circostanza che il principio attivo brevettato non si presenti tel quel nel medicinale, ma sia modificato nel modo occorrente per la realizzazione di un legame covalente ad un’altra sostanza, per consentirne l’utilizzazione[6].

Tale sentenza è stata infatti resa in un caso in cui nel farmaco per il quale era stata autorizzata l’immissione in commercio il principio attivo oggetto del SPC della cui validità si discuteva era presente in legame covalente con altre sostanze (e addirittura con altri principî attivi) ed il problema posto era esattamente quello di stabilire se questa circostanza determinasse la sussistenza di un “prodotto” diverso sul piano giuridico (e quindi ai fini del Regolamento sugli SPC) rispetto a quello protetto dal brevetto di base. E sul punto, la Corte di Giustizia ha affermato, questa volta con estrema chiarezza, che “Gli articoli 1, lettera b), e 3, lettera a), del regolamento (CE) n. 469/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009, sul certificato protettivo complementare per i medicinali, devono essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a che un principio attivo possa formare oggetto di un certificato protettivo complementare qualora tale principio attivo sia in legame covalente (e quindi necessariamente in forma modificata: n.d.r.) con altri principi attivi inclusi nella composizione di un medicinale”.

A questa conclusione i giudici comunitari sono pervenuti in base alla considerazione che “la nozione di ‘principio attivo’ si riferisce, ai fini dell’applicazione del regolamento n. 469/2009, alle sostanze che producono un’azione farmacologica, immunologica o metabolica propria” (qual è incontestabilmente la MMAE) e che “poiché il regolamento n. 469/2009 non opera alcuna distinzione a seconda che il principio attivo sia in legame covalente con altre sostanze, non deve escludersi, per tale motivo, il rilascio di un CCP per un siffatto principio attivo”. Questa decisione si presta dunque ad essere letta in una linea di evoluzione della giurisprudenza comunitaria, che parte dalla sentenza Medeva e passa per la sentenza Eli Lilly, chiarendo profili che, semplicemente, non erano stati esplicitamente considerati da tali sentenze anteriori, ancorché potessero essere risolti in modo conforme a quanto è stato fatto appunto con tale sentenza già sulla base dei principi enunciati in particolare nella decisione Eli Lilly.

Tale pronuncia, del resto, trova uno spunto conforme in un’altra pronuncia che è stata richiamata sopra, in relazione al problema in essa più direttamente trattato della possibilità di ottenere più SPC con scadenza successiva, e cioè la sentenza di Corte Giust. C.E., 24 novembre 2011, nel caso C-422/10, Georgetown, ove si legge tra l’altro che “l’articolo 3, lett. b), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 6 maggio 2009, n. 469, sul certificato protettivo supplementare per i medicinali, dev’essere interpretato nel senso che, sempre che ricorrano anche le altre condizioni previste da tale articolo, esso non osta a che i competenti uffici della proprietà industriale di uno Stato membro rilascino un certificato protettivo supplementare per un principio attivo, figurante nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base invocato, qualora il medicinale, la cui autorizzazione di immissione in commercio viene presentata a sostegno della domanda di certificato protettivo supplementare, comprenda non solo il suddetto principio attivo, ma anche altri principî attivi”.

La decisione nel caso Forsgren ha quindi in sostanza chiarito che un principio attivo oggetto di un brevetto di base è suscettibile di essere protetto con un SPC anche ove nel farmaco per il quale è rilasciata l’AIC questo non sia presente tal quale rivendicato, ma legato con legame covalente ad un’altra sostanza, e quindi in una forma necessariamente modificata rispetto a quella espressamente rivendicata, naturalmente con il limite che la modifica rientri nell’ambito di protezione del brevetto, e quindi costituisca una variante la cui realizzazione era alla portata del tecnico del ramo. Tale principio, dunque, sembra chiarire, ed applicare al caso di specie, l’insegnamento generale già ricavabile dalla sentenza di Corte Giust. C.E., 12 dicembre 2013, C-493/12, Eli Lilly, che aveva affermato che è suscettibile della protezione degli SPC anche il principio attivo, pur non espressamente indicato, al quale però “le rivendicazioni si riferiscono implicitamente, ma necessariamente e specificamente”: la Corte ha infatti in sostanza chiarito, con la sentenza Forsgren, che tale principio riguarda (ed anzi, evidentemente, deve applicarsi a fortiori) anche il caso di una variante del principio attivo rivendicato, e cioè quella in cui lo stesso è legato ad un’altra sostanza, naturalmente in quanto la realizzazione di tale variante rientri nell’ambito dell’esclusiva brevettuale, ossia costituisca una forma di attuazione dell’insegnamento brevettato, come indicato nelle rivendicazioni interpretate alla luce della descrizione e della common general knowledge.

Un altro punto che merita di essere sottolineato è che la sentenza Forsgren subordina la validità del SPC concesso su un principio attivo che compaia all’interno di un medicinale in legame covalente con altri “ingredienti” al fatto che il principio stesso abbia “un effetto che rientra nelle indicazioni terapeutiche riportate nel testo della AIC” (punto 39 della decisione). In base al Regolamento C.E. n. 469/2009 è infatti la nozione di “medicinale” e non quella di “prodotto” ad avere in sé un riferimento ad una specifica patologia umana da trattare, dal momento che, come si è già ricordato, secondo l’articolo 1 del Regolamento, è il “medicinale” ad essere definito “composizione presentata come avente proprietà curative … d(i) una malatti(a) uman(a)”.

D’altra parte, non è insolito che un principio attivo si presenti all’interno di un medicinale abbinato ad un altro ingrediente, che gli consente di dispiegare il proprio effetto terapeutico. Tale questione si era infatti già posta all’attenzione della Corte di Giustizia europea nel caso, anche questo già ricordato, del principio attivo Carmustina, deciso dalla sentenza del 4 maggio 2006 nel procedimento C-431/04, Massachusetts Institute of Technology. La Carmustina è infatti un antitumorale che, in ragione del suo alto grado di tossicità, può essere utilizzato praticamente come antitumorale per la cura di neoplasie al cervello solo in combinazione con un’altra sostanza, ovvero il proliferprosan; e appunto occupandosi di quest’ultimo, la Corte di Giustizia europea ha chiarito che “la nozione di ‘composizione di principi attivi di un medicinale’ non comprende una composizione costituita da due sostanze delle quali soltanto una è dotata di effetti terapeutici propri per una determinata indicazione e l’altra consente di ottenere una forma farmaceutica del medicinale necessaria all’efficacia terapeutica della prima sostanza per la medesima indicazione”, cosicché nel caso della Carmustina il principio attivo del medicinale è solo quest’ultima e non si può parlare di una combinazione di principî attivi (e men che meno di un “nuovo” principio attivo costituito dalla combinazione della Carmustina più la sostanza cui è necessariamente combinata), nonostante il Proliferprosan sia necessario al dispiegarsi dell’efficacia terapeutica della Carmustina stessa.

In questa prospettiva si incontrano e si completano le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza comunitaria già richiamata a proposito del divieto di prolungare la protezione attraverso la concessione in successione di più SPC con scadenze diverse per lo stesso principio attivo e quelle cui è ora pervenuta la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia europea nel definire quando ci si trova di fronte a un principio attivo “protetto da un brevetto di base in vigore” e quelle che definiscono l’ambito di protezione del certificato complementare una volta validamente concesso.

Il certificato supplementare di protezione che venga chiesto per un principio attivo protegge infatti in ogni caso, ai sensi dell’articolo 4 del Reg. C.E. n. 469/2009, tale principio attivo non solo in relazione al medicinale oggetto dell’autorizzazione corrispondente, ma più in generale “nei limiti della protezione del brevetto di base … per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”, e quindi anche per l’uso nell’ambito di medicinali ulteriori, eventualmente anche per curare malattie diverse, ovvero uniti in legame covalente con diverse sostanze, con l’ovvio corollario che, alla scadenza di tale SPC, l’uso del principio attivo in questione dovrà essere libero per i terzi per “qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo” (come ha chiarito sempre la Corte di Giustizia europea nella sua sentenza del 12 dicembre 2013, nella causa C-443/12, Actavis). È anzi degno di nota che una situazione analoga sussisteva anche nel caso Massachusetts Institute of Technology (Corte Giust. C.E. 4 maggio 2006 nella causa C-431/04), in cui, come si è detto, era stato rilasciato un SPC per il principio attivo Carmustina in relazione a un farmaco nel quale essa era combinata a determinate sostanze in modo da ottenerne il rilascio con una determinata modalità, e la Corte ha chiarito che non poteva essere concesso un secondo SPC per una composizione della Carmustina con altre sostanze tale da “rende(re) possibile una forma farmaceutica del medicinale che comporta una mutata efficacia di tale medicinale”, forma che doveva ritenersi coperta già dal primo (e unico) SPC.

Anche questo punto è stato chiarito con precisione (e sempre all’interno di un quadro sostanzialmente coerente) dalla sentenza Actavis, la quale riferisce specificamente la preclusione alla concessione di un secondo SPC avente ad oggetto la combinazione proprio al caso in cui un primo principio attivo, che abbia formato oggetto del primo SPC (come, nella fattispecie di cui è causa, il Telmisartan) si combini ad un secondo principio attivo non protetto “in quanto tale” dal brevetto di base; e ritiene invece che la concessione di una ulteriore protezione complementare per combinazione sarebbe ammissibile nella diversa ipotesi in cui anche tale secondo principio attivo sia tutelato di per sé dal medesimo brevetto, in quanto allora essa avrebbe ad oggetto non una forma di commercializzazione del primo principio attivo, ma un trovato vero proprio, e cioè il secondo principio attivo, che, essendo tutelato in quanto tale da un brevetto, rientra nel “cuore dell’attività inventiva” di esso, e che dunque merita in sé di godere della compensazione del ritardo nella commercializzazione (che, ovviamente, il primo SPC sull’altro principio attivo della combinazione non gli ha conferito, non avendolo considerato né isolatamente, né in combinazione).

La sentenza nel caso Forsgren ha quindi solo aggiunto un altro tassello a questa ricostruzione, rendendo evidente come anche il fatto che gli ingredienti del medicinale non siano solo in combinazione, ma fra loro in legame covalente non modifica l’inquadramento della fattispecie, perché ciò che conta per la concessione del certificato è che il principio attivo presente nel medicinale sia coperto dal brevetto, dato che la protezione che tale certificato assicura è una protezione in tutto simile a quella brevettuale e quindi riguarda anche ogni altro medicinale e ogni altro uso come medicina di tale principio attivo, da solo o in combinazione o in un legame che formi una nuova sostanza nella quale tuttavia sia ancora tale principio a svolgere un’efficacia terapeutica: cosicché tale sentenza, letta insieme a quella resa nel caso MIT sulla Carmustina e a quella nel caso Georgetown, chiude perfettamente il cerchio, fornendo una soluzione che – sia pure raggiunta per progressive approssimazioni, anche in relazione alle difficoltà di comprensione della materia brevettuale da parte della Corte europea, che non è un Giudice specializzato in questo campo, ciò di cui si deve necessariamente tener conto anche nella trasposizione dei principî che essa enuncia alla soluzione dei casi concreti - appare coerente con il complessivo equilibrio tra protezione dell’innovazione e difesa della concorrenza che sta alla base del diritto comunitario della proprietà intellettuale, e in definitiva anche alla valorizzazione e alla tutela di tutto e solo ciò che questa tutela effettivamente merita sul mercato.

 

[1]Per una sintetica rassegna di questi problemi rimando a GALLI, Il rinvio alla disciplina comunitaria dei certificati supplementari di protezione, in GALLI-GAMBINO, Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, Torino, 2011, p. 672 e ss. e BOSCARIOL DE ROBERTO, I certificati complementari di protezione, ivi, 805 e ss.
[2] Anche la norma «italiana», benché molto meno chiara, è stata interpretata in questo senso: si vedano sul punto GALLI, Certificato protettivo complementare: tra legge interna e disciplina comunitaria, in Dir.
Prat. Soc., 1999, 17, p. 63 e ss.; ANGELINI, Istituzione del certificato complementare per i prodotti
fitosanitari, ne Il Dir. ind., 1997, p. 112 e ss.; e DEL CORNO, Brevetti farmaceutici e certificati protettivi complementari, in Riv. dir. ind., 1998, I, p. 47 e ss.

[3] Si vedano in tal senso GUGLIELMETTI, La contraffazione del brevetto per equivalenti, in Riv. dir. ind., 2000, I, 132, ove si legge che “un insegnamento brevettato può continuare ad essere sfruttato anche avvalendosi di nuovi mezzi successivamente messi a disposizione dello stato della tecnica o addirittura ideati dallo stesso contraffattore. Perciò è ben possibile che una sostituzione realizzata grazie a un progresso ulteriore possa ricadere nell’ambito di tutela del primo brevetto”; e nello stesso senso VANZETTI (a cura di), Codice della Proprietà Industriale, Milano, 2013, p. 713, nel commento all’art. 52 del Codice, dove osserva che “questa impostazione sembrerebbe soddisfare sia un’equa e sostanziale protezione del titolare del brevetto, sia l’esigenza di certezza dei terzi”; e in giurisprudenza, sempre nello stesso senso, Trib. Roma, 7 aprile 2005, leggibile in www.ipdarts-ip.com e richiamata in VANZETTI, op. ult. cit., p. 715), secondo cui il giudizio di contraffazione si deve svolgere “secondo lo standard del tecnico medio del settore e allo stato della tecnica al momento della contraffazione”. Per la critica di questa impostazione si veda tuttavia GALLI-BOGNI, L’ambito di protezione del brevetto, in GALLI-GAMBINO, Codice commentato della Proprietà Industriale e Intellettuale, Torino, 2011, ove rilevano che “questa tesi finirebbe per attribuire protezione ad una creazione successiva al momento del deposito della domanda ed estranea all’insegnamento brevettuale, così estendendone indebitamente la protezione: una variante non ovvia al momento del deposito del brevetto avrebbe infatti potuto essere autonomamente brevettata, senza che ciò desse luogo a un rapporto di dipendenza tra i due titoli, rappresentando non una derivazione, ma una soluzione alternativa, pur con una parte in comune. Ed il fatto che alla brevettazione non si sia provveduto (magari perché nel frattempo la sostituzione era stata divulgata e quindi non era più nuova) non consente al titolare del primo brevetto di trarne profitto, allargando a posteriori l’ambito della sua esclusiva”; e distinguono peraltro da questo il “caso … in cui invece emergessero successivamente al deposito nuove forme di attuazione della soluzione brevettata che peraltro rientrassero ancora nel diretto ambito delle rivendicazioni, poiché in questo caso l’insegnamento oggetto del brevetto, così come rivendicato, sarebbe comunque integralmente ripreso e la contraffazione non potrebbe quindi essere negata”.
[4] Così ad esempio le decisioni T206/83, T32/85, T51/87, T212/88 e T772/89, che peraltro precisano anche che “According to the board in T 475/88, in the event of a dispute a claim of common general knowledge must be backed up by evidence”, il che di nuovo identifica un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di ragionevole protezione e di tutela dell’affidamento dei terzi, che sono sottese al sistema brevettuale.

[5] Così il Landmark case italiano della materia, Trib. Milano, ord. 22 marzo 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1997, 646, nel caso Chiron vs. Sorin.
[6] Proprio questo problema era stato infatti posto alla Corte europea dal Giudice della rimessione nel caso Forsgren, come risulta dal punto 16 della decisione, ove si legge che “Secondo il giudice del rinvio, se modifiche marginali ad una molecola possono alterarne considerevolmente gli effetti, la stessa cosa dovrebbe avvenire, a maggior ragione, qualora un’altra sostanza le venga aggiunta in covalenza. Ciò potrebbe tuttavia non verificarsi nel caso di specie, nella misura in cui la proteina D, nonostante il legame covalente, ha un effetto immunogenico proprio contro l’Haemophilus influenzae. In tali condizioni, il giudice del rinvio è propenso a ritenere che un CPC possa essere rilasciato anche per un principio attivo protetto da un brevetto di base, qualora esso sia contenuto nel medicinale unicamente nel quadro di un legame covalente”.

[Relazione tenuta dal Professore Avvocato Cesare Galli al convegno “L’Europa e le imprese innovative: sviluppi europei nel diritto dell’innovazione tecnologica”]

SOMMARIO: 1. La nozione di prodotto e quella di medicinale nel Regolamento n. 2009/469/CE. - 2. La previsione dell’articolo 3 lettera c) del Regolamento, che richiede che “il prodotto non sia già stato oggetto di un certificato”. - 3. (segue) Il rischio della duplicazione della protezione e il problema (decisivo) della sua durata - 4. L’interpretazione dell’articolo 3 lettera a) Reg. CE n. 469/2009 e la nozione di “principi attivi non menzionati nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base”. - 5. I principî attivi presenti nel medicinale in forma modificata e la sentenza nel caso Forsgren: l’equilibrio complessivo del sistema.

1. La disciplina dei certificati complementari di protezione (Supplementary ProtectionCertificates, comunemente noti con l’acronimo SPC, usato per distinguerli dai corrispondenti certificati complementari di protezione “nazionali”) è probabilmente una delle più controverse tra le discipline di fonte comunitaria dell’innovazione tecnologica, probabilmente anche in ragione degli enormi interessi economici sottostanti.

Le disposizioni contenute nel Regolamento n. 92/1768/CEE del 18 giugno 1992 (di cui il Regolamento n. 2009/469/C.E. del 6 maggio 2009 attualmente vigente rappresenta la versione codificata) hanno infatti dettato una disciplina unificata a livello comunitario di un nuovo certificato protettivo complementare per i medicinali (in sigla: SPC, da Supplementary Protection Certificates), facendo peraltro salvi gli effetti dei certificati già concessi in base alle discipline nazionali, e quindi anche quelli concessi nel nostro Paese in base alla legge 19 ottobre 1991, n. 349, alcuni dei quali, in effetti sono giunti a scadenza solo pochi anni fa, creando difficili problemi di coordinamento, a causa della difformità di contenuto (e soprattutto di durata della protezione) tra norma interna e norma comunitaria[1].

Successivamente sempre a livello comunitario sono stati varati il Regolamento n. 96/1610/CE del 23 luglio 1996, istitutivo di un analogo certificato protettivo complementare per i prodotti fitosanitari, ed il cui «considerando» 17 si configura quale «norma di interpretazione autentica rispetto al Regolamento n. 92/1768/CEE, poiché dispone espressamente che il precedente regolamento vada interpretato nel senso che la protezione attribuita dal certificato si estende al principio attivo o ai principî attivi oggetto del brevetto corrispondente, in quanto siano utilizzati nel medicinale cui il certificato si riferisce»[2]; e il Regolamento n. 2006/1901/CE del 12 dicembre 2006 relativo ai medicinali per uso pediatrico, che contiene una parziale integrazione della disciplina degli SPC sotto il profilo della durata, appunto in relazione alla destinazione all’uso pediatrico dei farmaci.

Gli SPC sono concessi a tutela del “prodotto” in quanto “autorizzato come medicinale” ai sensi dell’art. 3 del medesimo Reg. CE n. 469/2009, che disciplina appunto i requisiti per l’ottenimento del certificato complementare di protezione, prevedendo che, questo dev’essere concesso alle (sole) condizioni che: (a) risulti che “il prodotto è protetto da un brevetto di base in vigore”; e (b) risulti che “per il prodotto in quanto medicinale è stata rilasciata un’autorizzazione in corso di validità di immissione in commercio”. È altresì richiesto - e questo, come vedremo, è uno dei temi sui quali maggiormente si è acceso il dibattito – che il prodotto non sia già stato oggetto di un certificato e che l’autorizzazione in relazione alla quale lo SPC è domandato sia la prima che è stata concessa nell’Unione Europea per il prodotto in quanto medicinale.

Il primo chiarimento di cui questa norma necessita è però sul piano terminologico, per stabilire che il “prodotto” non è il medicinale, ma è il principio attivo in esso contenuto. Nonostante l’ambiguità che l’uso del termine “prodotto” può ingenerare, l’unica interpretazione coerente della norma è infatti nel senso di distinguere il “prodotto” dal “medicinale”, che, ai sensi dell’articolo 1 del medesimo Regolamento C.E. n. 469/2009, sono definiti rispettivamente come “il principio attivo o la composizione di principi attivi di un medicinale” (il prodotto) e come una “composizione presentata come avente proprietà curative … d(i) una malatti(a) uman(a)” (il medicinale).

Questa distinzione è del resto chiaramente rispecchiata anche dall’articolo 3 del Reg. CE n. 469/2009, che anzi consente di apprezzarne meglio il significato: se infatti esaminiamo più da vicino i presupposti richiesti dalla norma per il rilascio del SPC, risulta evidente che solo sulla base di tale distinzione è possibile dare un senso alle disposizioni in essa contenute. Ciò vale anzitutto per la condizione che il “prodotto”, (e non il “medicinale”), sia coperto da un brevetto di base, potendo un medicinale essere ancora ben al di là da venire al momento del deposito della domanda di brevetto, come ben sa chiunque abbia esperienza nel campo della ricerca farmaceutica). Del pari solo questa distinzione fa sì che abbia un senso la previsione che richiede che il “prodotto” sia “autorizzato come medicinale”, e cioè che esso sia impiegato nell’ambito di una composizione avente proprietà curative di una malattia umana e che sia passata al vaglio delle Autorità deputate a concedere l’AIC sui farmaci: e non già che esso sia in sé e per sé il “medicinale”, anche perché, se così non fosse, l’SPC potrebbe essere concesso probabilmente per il solo bicarbonato di sodio. Anche la condizione richiesta per cui “l’autorizzazione di cui alla lettera b) sia la prima autorizzazione di immissione in commercio del prodotto in quanto medicinale” si spiega solo col fatto che, “prodotto” e “medicinale” non sono nozioni sovrapposte, potendo il medesimo “prodotto” essere il principio attivo di “medicinali” diversi, anche destinati a curare diverse malattie e oggetto di diverse autorizzazioni all’immissione in commercio.
La distinzione è ulteriormente confermata a chiarita dalla norma sull’ambito di protezione degli SPC, ossia dall’articolo 4 del Regolamento, che, come già si è ricordato, prevede che “nei limiti della protezione del brevetto di base, la protezione conferita dal certificato riguarda il solo prodotto oggetto dell’autorizzazione all’immissione in commercio del medicinale corrispondente, per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”: cosicché è ancora una volta evidente che il SPC ha per oggetto il “prodotto” e non il medicinale “specializzato” (ovvero destinato a curare una specifica malattia) nel quale lo stesso sia compreso, affermazione che deve necessariamente valere non solo per la determinazione dell’ambito di protezione derivante dal certificato, ma anche per i presupposti per la valida concessione, non essendo possibile immaginare l’esistenza di un’asimmetria.

Dal concorso di questi elementi si ricava quindi che la disciplina degli SPC distingue chiaramente il “prodotto” dal “medicinale”, nel senso che il primo è, per definizione, solo un elemento del secondo, e precisamente l’elemento dotato di effetti terapeutici propri, non necessariamente riferiti solo alla malattia curata dal medicinale autorizzato, ben potendo in sé può prestarsi anche a impieghi terapeutici diversi da quello del primo medicinale autorizzato, in relazione al quale è rilasciato il SPC. E in questo senso si è in effetti espressa la Corte di Giustizia europea nella sua sentenza del 4 maggio 2006 nella causa C-431/04, Massachusetts Institute of Technology. In particolare tale decisione - occupandosi di una sostanza citotossica, la Carmustina, che, proprio in ragione del suo alto grado di tossicità, può essere utilizzata come antitumorale per la cura di neoplasie al cervello, solo in combinazione con un’altra sostanza (il Proliferprosan) - ha chiarito che “la nozione di ‘composizione di principi attivi di un medicinale’ non comprende una composizione costituita da due sostanze delle quali soltanto una è dotata di effetti terapeutici propri per una determinata indicazione e l’altra consente di ottenere una forma farmaceutica del medicinale necessaria all’efficacia terapeutica della prima sostanza per la medesima indicazione”: così rendendo evidente che nell’ambito di un medicinale un ingrediente può essere necessario allo svolgimento dell’effetto terapeutico del principio attivo, senza che ciò consenta di parlare di combinazione di principî attivi (o, come vedremo, nel caso del legame covalente, di un “nuovo” principio attivo “complessivo”), giacché questa composizione non è il “prodotto”, ma appunto il “medicinale”.

È anzi degno di nota che la Corte di Giustizia, nella decisione C-431/04 appena richiamata, non fa discendere le sue conclusioni dalla tipologia di sostanza (eccipiente o altro), ma dal ruolo terapeutico dalla stessa esercitata. Ed infatti, come vedremo, nella sua successiva sentenza nel caso Forsgren, resa proprio quest’anno, la Corte di Giustizia ha precisato che queste conclusioni non cambiano persino nel caso in cui la sostanza alla quale il principio attivo è legato sia a sua volta un principio attivo, così fornendo, per così dire, la cartina di tornasole dell’esattezza di questa prima conclusione cui siamo giunti.

3. Questo chiarimento, che non è solo terminologico, basta di per sé a portarci sulla strada giusta per risolvere la prima delle questioni che si sono maggiormente dibattute in questi anni in relazione agli SPC - anche nel nostro Paese, dove il Tribunale di Milano ha effettuato lo scorso anno su questo punto un significativo revirement - e cioè quella di stabilire se sia possibile ottenere un secondo certificato complementare di scadenza successiva al primo, quando il principio attivo coperto da un brevetto sia utilizzato in un secondo medicinale, in una combinazione (o in una diversa combinazione, se già nel primo medicinale il principio attivo era usato in combinazione, come in effetti frequentemente avviene) con altri elementi. Al riconoscimento di tale possibilità si oppone infatti anzitutto proprio il disposto dell’articolo 3, comma 1 lettera d del Reg. CE 439/2009, che prevede fra le condizioni di rilascio dell’SPC il fatto che il “prodotto non sia già stato oggetto di un certificato”: una volta chiarito, infatti, che per “prodotto” la norma intende il “principio attivo” e non il farmaco che lo contenga, secondo la definizione espressa dettata dall’articolo 1, lett. b del medesimo Regolamento, non vi è dubbio che, qualora un principio attivo abbia formato oggetto di un primo SPC, non è più possibile ottenerne un secondo, che scada successivamente al primo, per un diverso farmaco in cui lo stesso sia utilizzato in una combinazione.

Queste conclusioni hanno trovato anche qui esplicita conferma ad opera della Corte di Giustizia europea, con la sua sentenza nel caso Actavis, nel quale veniva in considerazione l’abbinamento di un principio attivo brevettato antipressorio (l’Irbesartan) e di un diuretico (l’Idroclorotiazide). In questa sentenza i Giudici comunitari hanno infatti chiarito in via di interpretazione pregiudiziale il senso della “regola” contenuta nell’articolo 3 del Regolamento, affermando appunto che, ove il titolare del brevetto abbia già ottenuto, sulla base di una prima AIC, un SPC su un principio attivo protetto da tale privativa, “l’articolo 3, lettera c), del regolamento (CE) n. 469/2009 … dev’essere interpretato nel senso che osta a che, sul fondamento del medesimo brevetto, ma di un’autorizzazione di immissione in commercio successiva di un medicinale diverso contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo che non è, in quanto tale, protetto da detto brevetto, al titolare di tale medesimo brevetto sia rilasciato un secondo certificato protettivo complementare avente ad oggetto tale composizione di principi attivi” (Corte Giust. CE, 12 dicembre 2013, C-443/2012, Actavis).

Più precisamente, la sentenza della Corte di Giustizia sopra richiamata aveva ad oggetto un caso in cui al titolare del brevetto di base, la Sanofi, erano stati concessi un primo SPC sulla base di un’AIC per il medicinale “Aprovel”, contenente quale principio attivo unico l’Irbersartan, sostanza protetta in quanto tale dallo stesso brevetto di base ed indicata per il trattamento dell’ipertensione essenziale; e, successivamente, un secondo SPC sulla base di una nuova AIC per il medicinale “CoAprovel”, contenente la combinazione dell’Irbesartan con il diuretico Idroclorotiazide, quest’ultimo non protetto in quanto tale (e cioè non protetto se non in combinazione con l’Irbesartan) dal brevetto di base (ed anzi, come precisa la sentenza della Corte di Giustizia, al punto 32 non protetto da nessun brevetto).

È interessante notare qual è stato il ragionamento attraverso il quale, a fronte di tale situazione, i giudici comunitari sono pervenuti a queste conclusioni. La Corte ha infatti osservato che:

a) ai sensi dell’articolo 5 del Reg. C.E. n. 469/2009, un SPC rilasciato per un “prodotto” - daintendersi, ai sensi della definizione di cui all’articolo 1, lett. b, come “principio attivo o composizione di principi attivi di un medicinale” - “conferisce, alla scadenza del brevetto di base, gli stessi diritti che venivano attribuiti dal brevetto di base rispetto a tale prodotto” (punto 33), cosicché è pacifico che “il primo SPC (che copriva l’Irbesartan come principio attivo unico: n.d.r.) consentiva al (titolare) di opporsi alla commercializzazione di un medicinale contenente l’Irbesartan in combinazione con l’Idroclorotiazide … cosicché se un concorrente … avesse commercializzato un medicinale analogo al CoAprovel … il (titolare) avrebbe potuto opporsi a tale commercializzazione fondandosi in proposito sul suo SPC avente ad oggetto l’Irbesartan” (punto 35);

b) “in una situazione del genere, l’articolo 13 del regolamento n. 469/2009 impone che, alla scadenza del primo SPC, il titolare di quest’ultimo non possa più opporsi, relativamente al brevetto di base che aveva costituito il fondamento del suo rilascio, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo che era stato oggetto della protezione conferita da tale SPC, il che implica che, dopo tale data, detti terzi devono avere la possibilità di immettere in commercio non soltanto medicinali consistenti in tale principio attivo precedentemente protetto, ma anche qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo non protetto in quanto tale da detto brevetto di base” (punto 36);

c) “il secondo SPC è in realtà atto a conferire al suo titolare, anche se parzialmente ed indirettamente, una nuova protezione dell’Irbesartan, che prolunga, di fatto, quella di cui esso ha già beneficiato grazie al rilascio del primo SPC avente ad oggetto tale principio attivo”, e ciò anche in considerazione del fatto che “non è escluso che, in applicazione di un diritto nazionale che preveda una determinata tutela contro una violazione indiretta, un SPC avente ad oggetto la composizione Irbesartan- Idroclorotiazide possa consentire al suo titolare di opporsi alla commercializzazione di un medicinale contenente il principio attivo Irbesartan, solo o in composizione”: e non è nemmeno necessario ricordare che l’istituto della contraffazione indiretta, o contributory infringement, è pacificamente accolto dalla nostra giurisprudenza nazionale e sarà codificato in occasione della ratifica dell’Accordo istitutivo della Unified Patent Court.

Nel fornire in via pregiudiziale l’interpretazione dell’articolo 3 del Reg. C.E. 469/2009 (interpretazione che è naturalmente vincolante per il Giudice nazionale, anche al di là della sua intrinseca esattezza), la Corte ha anche precisato quale sia la ratio della disposizione, sottolineando che “l’obiettivo fondamentale del regolamento n. 469/2008 consiste nel compensare il ritardo accumulato nella commercializzazione di ciò che costituisce il cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”: cuore che, nel caso deciso dai Giudici comunitari, era il principio attivo Irbesartan. Pertanto - si legge sempre nella decisione Actavis - “il rilascio di un primo SPC per il principio attivo unico Irbesartan ha già concesso al suo titolare di beneficiare di tale compensazione”, anche in considerazione del fatto che “obiettivo di tale regolamento non è quello di compensare integralmente i ritardi accumulati nella commercializzazione dell’invenzione né di compensare tali ritardi con riferimento a tutte le forme di commercializzazione possibili di detta invenzione, tra cui la forma di composizioni declinate a partire dal medesimo principio attivo” (punto 40).

Al di là del linguaggio indubbiamente poco consono alla materia brevettuale - caratteristica comune, come vedremo, ad altre decisioni della Corte europea in questa materia, decisioni che richiedono per questo talvolta di essere “tradotte” in termini conformi al diritto dei brevetti - tale chiara affermazione di carattere generale risponde comunque in modo esaustivo ai tentativi che i titolari degli SPC “a cascata” hanno fatto, di sostenere che la concessione di ulteriori SPC successivi al primo si giustificherebbe appunto nell’ottica per cui bisognerebbe compensarli anche del ritardo intercorso fra lo sviluppo e la commercializzazione del farmaco che, in ipotesi, contenga il principio attivo in combinazione non inventiva con altre sostanze (o in una diversa combinazione rispetto a quella per la quale è stato rilasciato il primo certificato complementare), non essendo appunto questa esigenza che la disciplina comunitaria è finalizzata a risolvere.

Sempre nella sentenza Actavis la Corte ha chiarito ulteriormente questo punto (che è decisivo), spiegando ancora che invece “se una composizione costituita da un principio attivo innovativo che ha già beneficiato di un SPC e da un altro principio attivo, che non era protetto in quanto tale dal brevetto di cui trattasi, è oggetto di un nuovo brevetto di base ai sensi dell’articolo 1, lett. c) di detto regolamento, quest’ultimo brevetto, in quanto riguarderebbe un’innovazione totalmente distinta, potrebbe dare un diritto ad un SPC per tale composizione nuova immessa successivamente in commercio” (punto 42 della sentenza Actavis): con ciò chiarendo che in questo diverso caso (ossia nel caso in cui ci si trova di fronte a una nuova invenzione) la combinazione legittima la concessione di un secondo SPC (relativa appunto a questa seconda invenzione), non essendo invece sufficiente che la combinazione sia rivendicata nel primo brevetto di base, come accadeva invece nel caso di specie sottoposto all’esame della Corte, tra l’altro in virtù di una limitazione chiaramente strumentale –, ma dovendo costituire la combinazione un’invenzione di per sé tutelabile e autonoma, oggetto di un diverso titolo (che sarebbe necessariamente un brevetto dipendente), o almeno (questo la Corte non lo dice, ma mi pare che la ratio sia la stessa e quindi che lo si possa ragionevolmente sostenere) di rivendicazioni dipendenti che siano di per sé inventive, ossia che comportino un salto inventivo rispetto a quanto protetto dalle rivendicazioni che stanno a monte di esse, cosicché, in sostanza, non è ammissibile un prolungamento della protezione brevettuale per una combinazione che non offre nessun contributo inventivo ulteriore allo stato della tecnica.

Dalla ratio così identificata della protezione complementare, la Corte ha poi coerentemente fatto discendere - con il conforto della previsione espressa di cui all’articolo 13 del Reg. CE n. 469/2009 - il rilievo per cui “alla scadenza del primo SPC, il titolare di quest’ultimo non p(uò) più opporsi, relativamente al brevetto di base che aveva costituito il fondamento del suo rilascio, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo che era stato oggetto della protezione conferita da tale SPC, il che implica che, dopo tale data, detti terzi devono avere la possibilità di immettere in commercio non soltanto medicinali consistenti in tale principio attivo precedentemente protetto, ma anche qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo non protetto in quanto tale da detto brevetto di base”, avendo il primo SPC già assolto all’esigenza di compensare il ritardo nella commercializzazione del “cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”.

Non è neppure vero, quindi, come pure si è sostenuto in successive cause nazionali in cui si poneva lo stesso problema che la conclusione raggiunta dalla sentenza della Corte di Giustizia si fondi sul fatto che, nel caso dell’Irbesartan, la combinazione che veniva rivendicata di quest’ultimo era con un’intera categoria di sostanze, anziché con il solo Idroclorotiazide, cosicché la stessa avrebbe potuto dare luogo al rilascio di SPC multipli per tutte le immissioni in commercio successive di tale principio attivo con un numero illimitato di altri principi attivi, e che quindi la decisione comunitaria volesse precludere soltanto la possibilità (insita nel fatto che venga rivendicata la combinazione con una categoria di sostanze e non con una sostanza soltanto) di rilascio di un numero potenzialmente infinito di SPC, in cui il principio attivo compaia di volta in volta abbinato ad un diverso specifico diuretico. Tale questione è infatti bensì affrontata al punto 41 della decisione, ma la stessa costituisce solo una motivazione di rincalzo, ulteriore rispetto all’affermazione generale di principio - come si è visto, ritenuto dai Giudici comunitari già di per sé sufficiente a determinare la conclusione raggiunta - secondo cui il prolungamento di protezione legata conferita dall’SPC si giustifica solo con riferimento al “cuore dell’attività inventiva del brevetto di base”.

3. A questa ratio è coerente anche un’altra decisione della Corte di Giustizia, che ha affrontato una questione almeno in parte diversa - ma ovviamente correlata - a quella qui esaminata, e cioè la sentenza del 12 dicembre 2012 nel caso C-484/2013 (Georgetown), la quale si è posta il problema di stabilire se l’articolo 3 del Reg. C.E. n. 469/2009 debba essere interpretato nel senso che questo osti al fatto che il titolare di un brevetto di base possa ottenere un (secondo) SPC su un singolo principio attivo protetto in quanto tale da tale brevetto, se in precedenza fosse già stato concesso un primo SPC su una combinazione di principi attivi rivendicata nella privativa stessa e comprendente la sostanza tutelata individualmente dal secondo certificato: e cioè un caso che è in qualche misura speculare rispetto a quello della sentenza Actavis, come la stessa Corte non ha mancato di rilevare , sottolineando, al punto 33 della decisione ora richiamata, che “i fatti del procedimento principale si differenziano da quelli della causa all’origine della sentenza citata Actavis Group PTC e Actavis UK” e cioè dal caso dell’Irbesartan.

Infatti anche la sentenza resa nel caso Georgetown afferma che, nel peculiare caso da essa considerato, il titolare del brevetto base potrebbe bensì conseguire due SPC, uno sulla combinazione dei principi attivi tutelata dal brevetto e uno sul singolo principio attivo tutelato anche in quanto tale (e non solo nella combinazione) dal brevetto stesso, ma solo se entrambe le domande di SPC si fondassero sulla medesima Autorizzazione all’Immissione in Commercio per lo stesso farmaco, giacché in tale ipotesi “il rilascio di SPC multipli … consente di ristabilire una durata di tutela effettiva sufficiente del brevetto, e uniforme nel caso dei due SPC summenzionati”, in quanto i due SPC “scadranno … alla medesima data” (punti 36 e 35 della decisione), cosicché non vi sarebbe qui alcun indebito prolungamento della tutela. Viceversa, prosegue la sentenza Georgetown, “la formulazione letterale stessa dell’articolo 3, lett. c) del regolamento n. 469/2009 osta a che (il) titolare ottenga, sulla base del medesimo brevetto un altro SPC su tale stesso HPC-16 (il principio attivo ‘singolo’: n.d.r.) sul fondamento di un’AIC ulteriore di un altro medicinale contenente anche il menzionato HPV-16” (punto 38), perché in questo secondo caso la durata della tutela non sarebbe “uniforme” e gli SPC non scadrebbero “alla medesima data”.

La sentenza Georgetown ribadisce cioè il principio generale del divieto di prolungamento surrettizio della protezione complementare attraverso la richiesta di SPC con scadenze successive: non è cioè il numero degli SPC l’elemento critico, ma la durata della protezione del principio attivo conseguibile per il tramite di essi, che non può comunque eccedere quella calcolata in relazione alla prima autorizzazione all’immissione in commercio del “prodotto in quanto medicinale”, cioè del primo medicinale che incorpori tale principio attivo.

Questo punto emerge con molta chiarezza dal punto 40 della decisione Georgetown, dove la Corte rileva, con riferimento ai due SPC di pari durata sulla combinazione e sul principio attivo, che “l’articolo 13 del regolamento n. 469/2009 prescrive che, allo scadere degli stessi, il loro titolare non possa ulteriormente opporsi, con riferimento al brevetto di base utilizzato quale fondamento per il rilascio di detti CPC, alla commercializzazione da parte di terzi del principio attivo unico, prodotto da uno dei due SPC in parola, e nemmeno alla commercializzazione della composizione, protetta dall’altro certificato. Ciò comporta che, dopo la data di scadenza dei due CPC di cui trattasi, detti terzi devono avere la possibilità di immettere sul mercato non solo medicinali consistenti in tale principio attivo unico o in siffatta composizione di principi attivi, in precedenza protetti, ma altresì qualsiasi medicinale contenente il summenzionato principio attivo o la summenzionata composizione, eventualmente in combinazione con altri principi attivi”.

La sentenza in parola contiene poi anche un’altra importante sottolineatura di portata generale, là dove afferma che “l’obiettivo perseguito dal regolamento in parola (il Reg. CE 469/2009) che, come risulta dal punto 11 del preambolo alla proposta di regolamento (CEE) del Consiglio, dell’11 aprile 1990, sulla creazione di un certificato protettivo complementare [COM(90) 101 def.], è diretto ad incoraggiare la ricerca in ambito farmaceutico rilasciando un CPC per prodotto, intendendo quest’ultimo nel senso stretto di sostanza attiva” (punto 31): il che conferma ulteriormente che la combinazione che non costituisca un’invenzione distinta ed ulteriore rispetto al principio attivo oggetto del brevetto base non giustifica la concessione di un secondo SPC, che prolunghi l’ambito di esclusiva.

Si può dunque ben dire che l’ordinamento comunitario (direttamente applicabile al nostro caso, venendo qui in considerazione una fattispecie disciplinata da un Regolamento comunitario, ed al quale comunque quello nazionale deve sul punto conformarsi, per ovvie ragioni di gerarchia delle fonti), impedisce surrettizie manovre di prolungamento delle esclusive che non siano fondate su innovazioni meritevoli di tutela e che vadano a discapito della libertà di concorrenza, ledendo così un principio cardine dell’ordinamento comunitario, che per giunta, nel caso dei farmaci, risponde anche ad ulteriori ragioni di pubblico interesse, dal momento che la messa a disposizione di generici diminuisce i costi a carico della sanità pubblica per l’erogazione delle cure.

Ed a questi principî si è adeguata anche la nostra giurisprudenza nazionale, che, dopo essersi pronunciata una prima volta in favore della possibilità di rilascio di un secondo SPC con scadenza successiva, in presenza di una combinazione (non inventiva) del principio attivo già coperto da un primo SPC, con un’altra sostanza, ha poi rettificato queste conclusioni con due sentenze rese dal Tribunale di Milano rispettivamente il 21 e il 28 luglio 2014, entrambe relative ad un farmaco contenente la combinazione in sé non inventiva tra un antipressorio (questa volta il Telmisartan), che già aveva beneficiato della protezione complementare, e un diuretico (sempre l’Idroclorotiazide): anche in questo caso nel ragionamento della Corte di Milano ha assunto rilievo decisivo la considerazione per cui ciò che realmente rileva non è il numero degli SPC che possono essere concessi in relazione ad un medesimo brevetto di base, bensì la durata della protezione complementare, appunto perché la ratio del Regolamento CE n. 469/2009 è quella di non consentire ulteriori estensioni della protezione brevettuale complementare, rispetto a quella calcolata sulla prima AIC, come accadrebbe se, come nel caso che ci occupa, la concessione di un secondo SPC sulla combinazione venisse a coprire anche un periodo successivo alla scadenza del primo SPC sul principio attivo.

4. Le considerazioni che abbiamo svolto all’inizio per chiarire il significato da attribuire alla parola “prodotto” nel contesto del Regolamento e sulla ratio del prolungamento di tutela ottenuto attraverso il rilascio degli SPC consentono di affrontare in modo coerente anche un secondo problema estremamente dibattuto e cioè quello di stabilire se la tutela complementare può essere concessa anche quando il “prodotto” (ossia il principio attivo o la composizione di principî attivi, dotati di efficacia terapeutica) contenuto nel medicamento autorizzato non è espressamente “menzionato” nelle rivendicazioni del brevetto di base.

Il problema si è posto perché in una nota sentenza del 2011 (Corte Giust. U.E., 24 novembre 2011, nel procedimento C-322/10, Medeva) i Giudici comunitari hanno affermato che “L’articolo 3, lettera a), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 6 maggio 2009, n. 469, sul certificato protettivo complementare per i medicinali, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che i competenti uffici della proprietà industriale di uno Stato membro rilascino un certificato protettivo complementare riguardante principî attivi non menzionati nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base invocato a sostegno di una tale domanda”.

Anche in questo caso il linguaggio della Corte è poco consono alla materia brevettuale, che non distingue, ai fini dell’identificazione dell’oggetto della protezione, tra principî attivi menzionati e non menzionati nelle rivendicazioni, bensì tra principî attivi coperti e non coperti dal brevetto; ed in effetti anche l’articolo 3, tra i presupposti per il rilascio degli SPC, richiede unicamente che il “prodotto”, cioè il principio attivo, sia “protetto da un brevetto di base in vigore”, indicando cioè l’infringement test (o,come pare più corretto dire, il test relativo all’ambito di protezione del brevetto, determinato in base alle regole sull’interpretazione di cui all’articolo 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo e al relativo protocollo interpretativo) come criterio per determinare se sussiste il presupposto della protezione del principio attivo, questo essendo appunto richiesto dal Regolamento.

La stessa Corte europea ha peraltro “corretto il tiro” nella sua successiva sentenza del 12 dicembre 2013, nel procedimento C-493/12, Eli Lilly, che, pur non essendo scevra di ambiguità (che tradiscono anche qui una scarsa dimestichezza con le problematiche brevettuali), sembra chiarire e superare l’insegnamento della precedente giurisprudenza Medeva (dalla cui lettura del Regolamento si era dissociata la stessa Commissione Europea: si veda il punto 29 della sentenza Eli Lilly, ove si legge che “La Commissione riconosce che richiedere un riferimento letterale al principio attivo nelle rivendicazioni di un brevetto di base sarebbe indebitamente restrittivo”); tale sentenza, infatti, ha ritenuto che, per la concessione del SPC, è sufficiente che “sulla base di tali rivendicazioni, interpretate in particolare alla luce della descrizione dell’invenzione, come prevedono l’articolo 69 della CBE e il protocollo relativo all’interpretazione di tale articolo, sia possibile concludere che tali rivendicazioni si riferivano, implicitamente ma necessariamente, e in maniera specifica, al principio attivo di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

Si devono rimarcare qui due ulteriori dati: e cioè che, anzitutto, la sentenza Eli Lilly demanda il compito di stabilire se la condizione di cui sopra sia soddisfatta al giudice nazionale, che dovrà interpretare le rivendicazione (appunto al fine di stabilire se si “riferiscano implicitamente ma necessariamente, e in maniera specifica, al principio attivo”) in base a quanto previsto dall’art. 69 della Convenzione sul Brevetto Europeo e dal relativo Protocollo interpretativo (punto 40 della sentenza); ed altresì che al riguardo la sentenza aggiunge che “occorre tuttavia precisare, per quanto attiene ai requisiti derivanti dalla CBE, che la Corte non è affatto competente a interpretare le disposizioni di tale convenzione, dato che, a differenza degli Stati membri, l’Unione non vi ha aderito. Pertanto, la Corte non può fornire ulteriori indicazioni al giudice del rinvio per quanto riguarda le modalità per valutare la portata delle rivendicazioni di un brevetto rilasciato dall’UEB”, rimandando dunque alle regole interpretative previste dalla CBE.

Si deve anche sottolineare che le circostanze del caso concreto possono avere influito sul wording usato dalla Corte: nel caso oggetto della decisione Ely Lilly il SPC richiesto aveva infatti ad oggetto un anticorpo (l’anticorpo LY2127399), che, secondo quanto sostenuto dal richiedente, doveva ritenersi protetto dal brevetto di base, il quale tuttavia rivendicava del tutto genericamente un “anticorpo isolato o parte di tale anticorpo che si lega specificamente al polipeptide neutrocina α” (punti 13 e 15 della decisione), con una definizione funzionale che potrebbe essere sufficiente alla condizione (il cui rispetto il Giudice nazionale ha il compito di valutare) che tale anticorpo si possa individuare alla luce dell’interpretazione del brevetto, e non ci si trovi invece nella situazione in cui il brevetto rimandi ad un’intera (indeterminata) gamma di anticorpi idonei a legarsi al polipeptide neutrocina, giustificando quindi la richiesta della Corte della presenza di un riferimento anche implicito, ma necessario e specifico. Sulla risposta della Corte ha peraltro ovviamente influito anche la formulazione del quesito rivolto dal giudice remittente (la High Court inglese), che chiedeva anzitutto ai giudici comunitari di stabilire se “è necessario che il principio attivo sia menzionato nelle rivendicazioni di tale brevetto mediante una formula strutturale, o se tale principio attivo possa essere considerato protetto anche qualora sia ricompreso in una formula funzionale contenuta in tali rivendicazioni” e che quindi implicava una contrapposizione tra rivendicazioni strutturali e funzionali, che in effetti riaffiora in vari passaggi della sentenza, anche se non sembra l’elemento decisivo della valutazione dei Giudici, che fanno invece apertamente riferimento al “ruolo essenziale delle rivendicazioni per stabilire se un prodotto sia protetto da un brevetto di base ai sensi di tale disposizione” (punto 33 e, in termini analoghi, punto 34 della decisione): rilievo questo che pare rimandare - anche se senza una totale consapevolezza della questione - ai consueti criteri interpretativi dell’ambito di protezione dei brevetti codificati dalla Convenzione sul Brevetto Europeo e recepiti anche nel nostro Codice della Proprietà Industriale, all’articolo 52.

5. La prospettiva della valorizzazione delle rivendicazioni non solo nel loro tenore letterale, ma nella portata che ad esse va attribuita in via interpretativa, ed in particolare delle definizioni funzionali in esse contenute, appare del resto coerente con la regola prevista mentre dall’articolo 4 del Regolamento, che prevede che “nei limiti della protezione del brevetto di base, la protezione conferita dal certificato riguarda il prodotto … per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”: e ciò per la necessaria simmetria che, come si è già ricordato, deve esistere tra ambito di protezione e presupposti per la valida concessione del certificato complementare, nella prospettiva pro-concorrenziale che caratterizza in generale il diritto della proprietà intellettuale, in particolare nell’interpretazione dei vari istituti di esso fornita dalla Corte di Giustizia europea e del resto anche nella chiave di lettura di stampo giusnaturalistico ad essa implicitamente sottesa, che tende a commisurare la protezione di questi diritti a ciò che essi concretamente rappresentano nel mondo della vita.

Senza spingersi sino alle interpretazioni estreme che vorrebbero addirittura far rientrare nell’ambito di esclusiva attribuito dal brevetto persino le forme di attuazione che deriverebbero dall’aggiornamento tecnologico, in quanto il giudizio di contraffazione dovrebbe essere collocato temporalmente nel momento in cui si verifica la condotta del terzo, cosicché dovrebbero ritenersi lesive dell’esclusiva persino realizzazioni nemmeno ipotizzabili all’epoca del deposito[3], il punto di equilibrio va evidentemente ricercato nei più consueti criteri interpretativi che si basano sì sulle rivendicazioni, ma interpretandole alla luce della descrizione e, più in generale, delle conoscenze già presenti nello stato della tecnica al momento del deposito, comprese quelle riconducibili alla common general knowledge dell’epoca, in relazione alla quale il Board of Appeal dell’EPO ha chiarito che “the skilled person may use his common general knowledge to supplement the information contained in the application”[4], cosicché anch’essa può essere utilizzata per determinare il limite dell’ambito di esclusiva attribuito dal brevetto, ossia ciò che il tecnico del ramo può ricavare dalle rivendicazioni, anche in termini di equivalenza, ovviamente una volta chiarito che il punto di riferimento di quest’ultima non è un’astratta “idea di soluzione”, ma ciò che si rinviene appunto nelle rivendicazioni, interpretate alla luce della descrizione integrata dalla common general knowledge.

In questa prospettiva sarebbe evidentemente assurdo richiedere che il principio attivo debba ritenersi “protetto da un brevetto di base in vigore” solo quando esso è nominativamente indicato nelle rivendicazioni, giacché si deve escludere, in base ai consueti criteri interpretativi, che una rivendicazione che tutela un composto chimico lo protegga solo tel quel, non essendo pensabile che sia esclusa dall’ambito di esclusiva ogni modifica, seppur minima e necessaria ad attuare un insegnamento del brevetto, tanto più che di regola un brevetto farmaceutico rivendica espressamente non solo il principio attivo (o i principi attivi) che ne formano oggetto, in sé considerati, ma anche l’uso in medicina dello stesso, uso che spesso comporta anche delle modificazioni di esso. La tesi opposta, del resto, ipotizzerebbe che in materia chimica e farmaceutica si applichino, senza alcuna giustificazione, regole diverse e più restrittive da quelle che valgono in ogni altro settore della tecnica, il che risulta però immediatamente erroneo, ed è stato infatti negato dalla giurisprudenza in materia di ambito di protezione dei brevetti farmaceutici e biotecnologici, che ha ad esempio affermato che “La contraffazione di un’invenzione biotecnologica non è esclusa dalla non perfetta sovrapponibilità delle sequenze di amminoacidi rivendicate nel brevetto e di quelle usate dal contraffattore, quando sia comunque riscontrabile la corrispondenza dei tratti di sequenza che manifestano peculiare efficacia ai fini dello svolgimento dell’attività del composto, per ottenere il risultato perseguito nel brevetto”[5].

6. A queste conclusioni sembra essere in effetti giunta la più recente giurisprudenza comunitaria in materia, e cioè la sentenza di Corte Giust. U.E., 15 gennaio 2015, nel procedimento C-631/13, Forsgren, che ha affermato che non osta alla concessione di un valido SPC la circostanza che il principio attivo brevettato non si presenti tel quel nel medicinale, ma sia modificato nel modo occorrente per la realizzazione di un legame covalente ad un’altra sostanza, per consentirne l’utilizzazione[6].

Tale sentenza è stata infatti resa in un caso in cui nel farmaco per il quale era stata autorizzata l’immissione in commercio il principio attivo oggetto del SPC della cui validità si discuteva era presente in legame covalente con altre sostanze (e addirittura con altri principî attivi) ed il problema posto era esattamente quello di stabilire se questa circostanza determinasse la sussistenza di un “prodotto” diverso sul piano giuridico (e quindi ai fini del Regolamento sugli SPC) rispetto a quello protetto dal brevetto di base. E sul punto, la Corte di Giustizia ha affermato, questa volta con estrema chiarezza, che “Gli articoli 1, lettera b), e 3, lettera a), del regolamento (CE) n. 469/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009, sul certificato protettivo complementare per i medicinali, devono essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a che un principio attivo possa formare oggetto di un certificato protettivo complementare qualora tale principio attivo sia in legame covalente (e quindi necessariamente in forma modificata: n.d.r.) con altri principi attivi inclusi nella composizione di un medicinale”.

A questa conclusione i giudici comunitari sono pervenuti in base alla considerazione che “la nozione di ‘principio attivo’ si riferisce, ai fini dell’applicazione del regolamento n. 469/2009, alle sostanze che producono un’azione farmacologica, immunologica o metabolica propria” (qual è incontestabilmente la MMAE) e che “poiché il regolamento n. 469/2009 non opera alcuna distinzione a seconda che il principio attivo sia in legame covalente con altre sostanze, non deve escludersi, per tale motivo, il rilascio di un CCP per un siffatto principio attivo”. Questa decisione si presta dunque ad essere letta in una linea di evoluzione della giurisprudenza comunitaria, che parte dalla sentenza Medeva e passa per la sentenza Eli Lilly, chiarendo profili che, semplicemente, non erano stati esplicitamente considerati da tali sentenze anteriori, ancorché potessero essere risolti in modo conforme a quanto è stato fatto appunto con tale sentenza già sulla base dei principi enunciati in particolare nella decisione Eli Lilly.

Tale pronuncia, del resto, trova uno spunto conforme in un’altra pronuncia che è stata richiamata sopra, in relazione al problema in essa più direttamente trattato della possibilità di ottenere più SPC con scadenza successiva, e cioè la sentenza di Corte Giust. C.E., 24 novembre 2011, nel caso C-422/10, Georgetown, ove si legge tra l’altro che “l’articolo 3, lett. b), del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 6 maggio 2009, n. 469, sul certificato protettivo supplementare per i medicinali, dev’essere interpretato nel senso che, sempre che ricorrano anche le altre condizioni previste da tale articolo, esso non osta a che i competenti uffici della proprietà industriale di uno Stato membro rilascino un certificato protettivo supplementare per un principio attivo, figurante nel testo delle rivendicazioni del brevetto di base invocato, qualora il medicinale, la cui autorizzazione di immissione in commercio viene presentata a sostegno della domanda di certificato protettivo supplementare, comprenda non solo il suddetto principio attivo, ma anche altri principî attivi”.

La decisione nel caso Forsgren ha quindi in sostanza chiarito che un principio attivo oggetto di un brevetto di base è suscettibile di essere protetto con un SPC anche ove nel farmaco per il quale è rilasciata l’AIC questo non sia presente tal quale rivendicato, ma legato con legame covalente ad un’altra sostanza, e quindi in una forma necessariamente modificata rispetto a quella espressamente rivendicata, naturalmente con il limite che la modifica rientri nell’ambito di protezione del brevetto, e quindi costituisca una variante la cui realizzazione era alla portata del tecnico del ramo. Tale principio, dunque, sembra chiarire, ed applicare al caso di specie, l’insegnamento generale già ricavabile dalla sentenza di Corte Giust. C.E., 12 dicembre 2013, C-493/12, Eli Lilly, che aveva affermato che è suscettibile della protezione degli SPC anche il principio attivo, pur non espressamente indicato, al quale però “le rivendicazioni si riferiscono implicitamente, ma necessariamente e specificamente”: la Corte ha infatti in sostanza chiarito, con la sentenza Forsgren, che tale principio riguarda (ed anzi, evidentemente, deve applicarsi a fortiori) anche il caso di una variante del principio attivo rivendicato, e cioè quella in cui lo stesso è legato ad un’altra sostanza, naturalmente in quanto la realizzazione di tale variante rientri nell’ambito dell’esclusiva brevettuale, ossia costituisca una forma di attuazione dell’insegnamento brevettato, come indicato nelle rivendicazioni interpretate alla luce della descrizione e della common general knowledge.

Un altro punto che merita di essere sottolineato è che la sentenza Forsgren subordina la validità del SPC concesso su un principio attivo che compaia all’interno di un medicinale in legame covalente con altri “ingredienti” al fatto che il principio stesso abbia “un effetto che rientra nelle indicazioni terapeutiche riportate nel testo della AIC” (punto 39 della decisione). In base al Regolamento C.E. n. 469/2009 è infatti la nozione di “medicinale” e non quella di “prodotto” ad avere in sé un riferimento ad una specifica patologia umana da trattare, dal momento che, come si è già ricordato, secondo l’articolo 1 del Regolamento, è il “medicinale” ad essere definito “composizione presentata come avente proprietà curative … d(i) una malatti(a) uman(a)”.

D’altra parte, non è insolito che un principio attivo si presenti all’interno di un medicinale abbinato ad un altro ingrediente, che gli consente di dispiegare il proprio effetto terapeutico. Tale questione si era infatti già posta all’attenzione della Corte di Giustizia europea nel caso, anche questo già ricordato, del principio attivo Carmustina, deciso dalla sentenza del 4 maggio 2006 nel procedimento C-431/04, Massachusetts Institute of Technology. La Carmustina è infatti un antitumorale che, in ragione del suo alto grado di tossicità, può essere utilizzato praticamente come antitumorale per la cura di neoplasie al cervello solo in combinazione con un’altra sostanza, ovvero il proliferprosan; e appunto occupandosi di quest’ultimo, la Corte di Giustizia europea ha chiarito che “la nozione di ‘composizione di principi attivi di un medicinale’ non comprende una composizione costituita da due sostanze delle quali soltanto una è dotata di effetti terapeutici propri per una determinata indicazione e l’altra consente di ottenere una forma farmaceutica del medicinale necessaria all’efficacia terapeutica della prima sostanza per la medesima indicazione”, cosicché nel caso della Carmustina il principio attivo del medicinale è solo quest’ultima e non si può parlare di una combinazione di principî attivi (e men che meno di un “nuovo” principio attivo costituito dalla combinazione della Carmustina più la sostanza cui è necessariamente combinata), nonostante il Proliferprosan sia necessario al dispiegarsi dell’efficacia terapeutica della Carmustina stessa.

In questa prospettiva si incontrano e si completano le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza comunitaria già richiamata a proposito del divieto di prolungare la protezione attraverso la concessione in successione di più SPC con scadenze diverse per lo stesso principio attivo e quelle cui è ora pervenuta la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia europea nel definire quando ci si trova di fronte a un principio attivo “protetto da un brevetto di base in vigore” e quelle che definiscono l’ambito di protezione del certificato complementare una volta validamente concesso.

Il certificato supplementare di protezione che venga chiesto per un principio attivo protegge infatti in ogni caso, ai sensi dell’articolo 4 del Reg. C.E. n. 469/2009, tale principio attivo non solo in relazione al medicinale oggetto dell’autorizzazione corrispondente, ma più in generale “nei limiti della protezione del brevetto di base … per qualsiasi impiego del prodotto in quanto medicinale, che sia autorizzato prima della scadenza del certificato”, e quindi anche per l’uso nell’ambito di medicinali ulteriori, eventualmente anche per curare malattie diverse, ovvero uniti in legame covalente con diverse sostanze, con l’ovvio corollario che, alla scadenza di tale SPC, l’uso del principio attivo in questione dovrà essere libero per i terzi per “qualsiasi medicinale contenente detto principio attivo in composizione con un altro principio attivo” (come ha chiarito sempre la Corte di Giustizia europea nella sua sentenza del 12 dicembre 2013, nella causa C-443/12, Actavis). È anzi degno di nota che una situazione analoga sussisteva anche nel caso Massachusetts Institute of Technology (Corte Giust. C.E. 4 maggio 2006 nella causa C-431/04), in cui, come si è detto, era stato rilasciato un SPC per il principio attivo Carmustina in relazione a un farmaco nel quale essa era combinata a determinate sostanze in modo da ottenerne il rilascio con una determinata modalità, e la Corte ha chiarito che non poteva essere concesso un secondo SPC per una composizione della Carmustina con altre sostanze tale da “rende(re) possibile una forma farmaceutica del medicinale che comporta una mutata efficacia di tale medicinale”, forma che doveva ritenersi coperta già dal primo (e unico) SPC.

Anche questo punto è stato chiarito con precisione (e sempre all’interno di un quadro sostanzialmente coerente) dalla sentenza Actavis, la quale riferisce specificamente la preclusione alla concessione di un secondo SPC avente ad oggetto la combinazione proprio al caso in cui un primo principio attivo, che abbia formato oggetto del primo SPC (come, nella fattispecie di cui è causa, il Telmisartan) si combini ad un secondo principio attivo non protetto “in quanto tale” dal brevetto di base; e ritiene invece che la concessione di una ulteriore protezione complementare per combinazione sarebbe ammissibile nella diversa ipotesi in cui anche tale secondo principio attivo sia tutelato di per sé dal medesimo brevetto, in quanto allora essa avrebbe ad oggetto non una forma di commercializzazione del primo principio attivo, ma un trovato vero proprio, e cioè il secondo principio attivo, che, essendo tutelato in quanto tale da un brevetto, rientra nel “cuore dell’attività inventiva” di esso, e che dunque merita in sé di godere della compensazione del ritardo nella commercializzazione (che, ovviamente, il primo SPC sull’altro principio attivo della combinazione non gli ha conferito, non avendolo considerato né isolatamente, né in combinazione).

La sentenza nel caso Forsgren ha quindi solo aggiunto un altro tassello a questa ricostruzione, rendendo evidente come anche il fatto che gli ingredienti del medicinale non siano solo in combinazione, ma fra loro in legame covalente non modifica l’inquadramento della fattispecie, perché ciò che conta per la concessione del certificato è che il principio attivo presente nel medicinale sia coperto dal brevetto, dato che la protezione che tale certificato assicura è una protezione in tutto simile a quella brevettuale e quindi riguarda anche ogni altro medicinale e ogni altro uso come medicina di tale principio attivo, da solo o in combinazione o in un legame che formi una nuova sostanza nella quale tuttavia sia ancora tale principio a svolgere un’efficacia terapeutica: cosicché tale sentenza, letta insieme a quella resa nel caso MIT sulla Carmustina e a quella nel caso Georgetown, chiude perfettamente il cerchio, fornendo una soluzione che – sia pure raggiunta per progressive approssimazioni, anche in relazione alle difficoltà di comprensione della materia brevettuale da parte della Corte europea, che non è un Giudice specializzato in questo campo, ciò di cui si deve necessariamente tener conto anche nella trasposizione dei principî che essa enuncia alla soluzione dei casi concreti - appare coerente con il complessivo equilibrio tra protezione dell’innovazione e difesa della concorrenza che sta alla base del diritto comunitario della proprietà intellettuale, e in definitiva anche alla valorizzazione e alla tutela di tutto e solo ciò che questa tutela effettivamente merita sul mercato.

 

[1]Per una sintetica rassegna di questi problemi rimando a GALLI, Il rinvio alla disciplina comunitaria dei certificati supplementari di protezione, in GALLI-GAMBINO, Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, Torino, 2011, p. 672 e ss. e BOSCARIOL DE ROBERTO, I certificati complementari di protezione, ivi, 805 e ss.
[2] Anche la norma «italiana», benché molto meno chiara, è stata interpretata in questo senso: si vedano sul punto GALLI, Certificato protettivo complementare: tra legge interna e disciplina comunitaria, in Dir.
Prat. Soc., 1999, 17, p. 63 e ss.; ANGELINI, Istituzione del certificato complementare per i prodotti
fitosanitari, ne Il Dir. ind., 1997, p. 112 e ss.; e DEL CORNO, Brevetti farmaceutici e certificati protettivi complementari, in Riv. dir. ind., 1998, I, p. 47 e ss.

[3] Si vedano in tal senso GUGLIELMETTI, La contraffazione del brevetto per equivalenti, in Riv. dir. ind., 2000, I, 132, ove si legge che “un insegnamento brevettato può continuare ad essere sfruttato anche avvalendosi di nuovi mezzi successivamente messi a disposizione dello stato della tecnica o addirittura ideati dallo stesso contraffattore. Perciò è ben possibile che una sostituzione realizzata grazie a un progresso ulteriore possa ricadere nell’ambito di tutela del primo brevetto”; e nello stesso senso VANZETTI (a cura di), Codice della Proprietà Industriale, Milano, 2013, p. 713, nel commento all’art. 52 del Codice, dove osserva che “questa impostazione sembrerebbe soddisfare sia un’equa e sostanziale protezione del titolare del brevetto, sia l’esigenza di certezza dei terzi”; e in giurisprudenza, sempre nello stesso senso, Trib. Roma, 7 aprile 2005, leggibile in www.ipdarts-ip.com e richiamata in VANZETTI, op. ult. cit., p. 715), secondo cui il giudizio di contraffazione si deve svolgere “secondo lo standard del tecnico medio del settore e allo stato della tecnica al momento della contraffazione”. Per la critica di questa impostazione si veda tuttavia GALLI-BOGNI, L’ambito di protezione del brevetto, in GALLI-GAMBINO, Codice commentato della Proprietà Industriale e Intellettuale, Torino, 2011, ove rilevano che “questa tesi finirebbe per attribuire protezione ad una creazione successiva al momento del deposito della domanda ed estranea all’insegnamento brevettuale, così estendendone indebitamente la protezione: una variante non ovvia al momento del deposito del brevetto avrebbe infatti potuto essere autonomamente brevettata, senza che ciò desse luogo a un rapporto di dipendenza tra i due titoli, rappresentando non una derivazione, ma una soluzione alternativa, pur con una parte in comune. Ed il fatto che alla brevettazione non si sia provveduto (magari perché nel frattempo la sostituzione era stata divulgata e quindi non era più nuova) non consente al titolare del primo brevetto di trarne profitto, allargando a posteriori l’ambito della sua esclusiva”; e distinguono peraltro da questo il “caso … in cui invece emergessero successivamente al deposito nuove forme di attuazione della soluzione brevettata che peraltro rientrassero ancora nel diretto ambito delle rivendicazioni, poiché in questo caso l’insegnamento oggetto del brevetto, così come rivendicato, sarebbe comunque integralmente ripreso e la contraffazione non potrebbe quindi essere negata”.
[4] Così ad esempio le decisioni T206/83, T32/85, T51/87, T212/88 e T772/89, che peraltro precisano anche che “According to the board in T 475/88, in the event of a dispute a claim of common general knowledge must be backed up by evidence”, il che di nuovo identifica un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di ragionevole protezione e di tutela dell’affidamento dei terzi, che sono sottese al sistema brevettuale.

[5] Così il Landmark case italiano della materia, Trib. Milano, ord. 22 marzo 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1997, 646, nel caso Chiron vs. Sorin.
[6] Proprio questo problema era stato infatti posto alla Corte europea dal Giudice della rimessione nel caso Forsgren, come risulta dal punto 16 della decisione, ove si legge che “Secondo il giudice del rinvio, se modifiche marginali ad una molecola possono alterarne considerevolmente gli effetti, la stessa cosa dovrebbe avvenire, a maggior ragione, qualora un’altra sostanza le venga aggiunta in covalenza. Ciò potrebbe tuttavia non verificarsi nel caso di specie, nella misura in cui la proteina D, nonostante il legame covalente, ha un effetto immunogenico proprio contro l’Haemophilus influenzae. In tali condizioni, il giudice del rinvio è propenso a ritenere che un CPC possa essere rilasciato anche per un principio attivo protetto da un brevetto di base, qualora esso sia contenuto nel medicinale unicamente nel quadro di un legame covalente”.