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Riflessioni sul pensiero filosofico-penalistico di Enrico Pessina prima del Codice Zanardelli

Riflessioni sul pensiero filosofico-penalistico di Enrico Pessina prima del Codice Zanardelli
Riflessioni sul pensiero filosofico-penalistico di Enrico Pessina prima del Codice Zanardelli

Il secolo XIX ha costituito una traversata della storia istituzionale, e in generale antropica, in mezzo al magma dei princìpi figli della Rivoluzione francese, anzitutto quella primula, illuminata; l’Ottocento, però, è stato anche contenitore, artefice e testimone delle istanze reazionarie e conservatrici del periodo c.d. della Restaurazione, segnato nel suo convenzionale inizio dal Congresso di Vienna, il cui motto indice era, tuttavia, “conservare progredendo”.

La separazione dei poteri statuali, ma anche la separazione tra la giustizia civile e quella penale, la pubblicità delle procedure, il giudizio di sola legittimità in Cassazione, l’obbligo di motivazione delle sentenze, il doppio grado di giudizio, il divieto di tortura e la c.d. umanizzazione delle pene, a rigor del vero delle ricostruzioni storiche, erano - ed erano viste come - il portato della cultura tecnico-giuridica francese. Quest’ultima aveva ispirato, negli anni della Restaurazione, tutti i governi dell’Europa continentale nella loro opera di riforma del sistema giudiziario. L’importanza degli interventi di politica giudiziaria avvenuti in Francia, così, era stata riconosciuta anche in Italia[1], dove quei princìpi sistemici del ius, sempre in condendo non appena condito, contribuirono alla “modernizzazione della giurisdizione”[2].

Dalla tensione a muoversi a passo del gambero, nelle sovrastrutture sociali e giuridico-istituzionali dell’Ancien Régime appena trascorso, allo slancio verso le teoriche marxiane del socialismo quale necessità storico-escatologica, in funzione dell’avvento di una dimensione anti-alienazionistica dell’Homo poliedricus contrapposto al mero homo oeconomicus, l’Ottocento letterario e scientifico ha inciso sul divenire dell’evoluzione nomologica. La predetta incisione, nella pratica, si è verificata con una vera e propria canalizzazione della cultura giuridica verso le complesse e faticose dinamiche garantistiche, anzitutto in materia penale, attraverso i congegni concettuali giuspositivistici rappresentati nelle istanze codificatorie. Passando ora dal generale al particolare, uno studioso penalista, autore di pregevoli opere giuridiche e filosofiche, un uomo che dell’Ottocento ha vissuto varie esperienze di battaglie progressiste in prima persona, e in prima linea, dall’adesione alle idee liberali, al contrasto dei Borboni, alla partecipazione alla primavera civica dei moti del ‘48, Enrico Pessina, merita qui tutta la sentita ammirazione, oltre che la breve menzione di alcuni suoi peculiari passi, indici del suo pensiero, su cui sicuramente occorre riflettere.

Il Professore Pessina, nel volume I dei suoi “Elementi di diritto penale”, edizione del 1882, nella parte prima della “Introduzione”, sottotitolata con la dizione “Nozioni preliminari sul diritto penale e sulla sua cognizione scientifica”, scriveva quanto segue:

Un fatto che, per la sua riproduzione in tutti i luoghi e in tutti i tempi che forman parte del dominio della storia, può dirsi una costante tradizione dell’umana famiglia si è quello della giustizia penale, per cui l’uomo, considerandosi come investito di un sacro mandato, ha sottoposto il suo simile alla efficacia di una punizione, quando il medesimo si è renduto autore di un qualche atto che egli ha considerato come trasgressione delle norme su cui poggiava la vita sociale.[3]

Dall’incipit dell’opera si apprende come l’Autore concepisca l’operatività del diritto penale, e la sua esistenza stessa sotto forma di “giustizia penale”, come un “fatto”, in consonanza con la qualificazione che la tradizione ha da sempre connesso alla ontologia dell’oggetto principe del diritto penale (il fatto), salutato, appunto, con la dictio di dirittodelfatto. Una tale icastica definizione, seppur nel pressappochismo discernitivo in seno al quale è sorta, risulta comunque rappresentativa di una caratterizzazione in simbiosi con il principio di materialità, postulato dell’offensività, di quella parte dell’ordinamento giuridico che, già dallo stesso Pessina, veniva avvertita quale piattaforma ‘estrema’ del sistema giuridico.

La giustizia penale risulta pure una “costante tradizione dell’umana famiglia”. Il carattere della costanza, attraverso lo studio delle varie società storiche, invero, risulta attinente all’esigenza naturale dell’essere umano di occuparsi dell’equa amministrazione della convivenza tra consociati. La gestione tecnica dell’ars boni et aequi si presta alla ricomposizione, impersonale ma non spersonalizzante, dei fragili equilibri cooperativi, nel risanamento del debito che la società intera ha verso la parte offesa: ciò mediante la ricostruzione delle dinamiche oggettive e subiettive del fatto punito, nella individuazione di un colpevole specifico, oggi secondo il criterio accertativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio (si veda l’attuale articolo 533, comma 1, c.p.p. italiano), nella garanzia della sicurezza pubblica all’insegna della rieducazione, in funzione anti-criminogena. Il termine “famiglia”, poi, attiene non soltanto ad una vaga dimensione filantropica del Pessina, ma ad un consapevole inquadramento concettuale dell’aggregazione in societas quale organizzazione frutto di un pactum, che vincola l’uomo a dismettere l’esistenza tipica da homo homini lupus.

Proseguendo la lettura della parte iniziale dell’opera pessiniana, risalta l’apprensione della sua concezione generale del diritto. Una concezione che si struttura in negativo, per quello che il diritto non è, e in positivo, per ciò che invece esso è.

Il Diritto non è il prodotto artifiziato delle convenzioni umane, non è fattura della volontà dell’uomo, non è l’interesse individuale o l’interesse sociale, o la somma di entrambi; esso è la ragione medesima, e come tale è un principio assoluto che governa l’attività umana individuale e sociale in tutto quelle che dipendendo dalla libertà dell’uomo serve indispensabilmente al compimento della sua destinazione. Il Diritto è vincolo di solidalità per il genere umano; e l’uomo ha innanzi alla legge etica del mondo il dovere di combattere, perché esso regni sovrano in mezzo alla lotta inevitabile degli interessi.[4]

Questa confessione filosofica, propedeutica - per certi versi in senso maieutico, per altri in senso parabolico - all’iniziamento alla disciplina giuspenalistica, la si rinviene nei “Prolegomeni allo studio del diritto penale italiano”, tra i “Fondamenti razionali del diritto penale”, a proposito del principio fondamentale della giustizia penale. Dato che per il Pessina la legge della vita è la lotta, che definisce come la condizione che accompagna tutto l’esplicamento dell’attività umana[5], il diritto viene concettualizzato come una entità razionale, assoluta, che organizza e dirige la forza di questa dialettica, di questa lotta.

Il diritto come ragione, se si sottopone ad un analitico scrutinio filosofico l’apparato sistemico ordinamentale in generale, rappresenta il prodotto della categorizzazione del ius quale ente logico, i cui concetti corrispondono appunto ad insiemi categorici, alla cui base risiede il dover essere, funzionale al miglior esplicamento dell’essere, tanto nella sua dimensione individuale quanto in quella personologico-associata, o sociale.

Interessante è sottolineare e comprendere la visione del diritto a “D” maiuscola a cui è negata la dimensione di sovrastruttura, tanto cara, invece, alle concezioni ottocentesche che, partendo da posizioni analitiche di natura materialistico-storica, criticavano la società istituzionalizzata di allora, così istruita all’insegna di una cultura giuridica formale, vista come mero riflesso delle dinamiche socioeconomiche, dalle cui dialettiche, in generale, emergono di èra in èra delle classi dominanti e delle classi subordinate.

Il diritto è funzionale al compimento della dimensione ontologica dell’essere umano, alla sua realizzazione quale animale sociale avente bisogni individuali. Il diritto è dedito al compimento delle finalità intrinsecamente umane, secondo la teleologia gius-filosofica pessiniana. Esso serve a realizzare gli interessi individuali e quelli sociali, ma non si identifica al contempo con gli interessi de quibus, presi singolarmente o in combinazione fra loro; essendo il Diritto, per il Pessina, qualcosa di più.

L’identità del diritto viene condensata attorno al concetto di vincolo, riprendendo il portato sapienziale delle obligationes proprie dell’antico diritto romano, trasposto macroscopicamente, tuttavia, nel terreno scientifico della teoretica pubblicistica. Il vincolo, poi, viene qualificato attraverso il carattere della “solidalità per il genere umano”, quasi attraverso un mutuo cooperativismo, nella lotta per l’esistenza. L’essenza propria del diritto, tra l’altro, viene rinvenuta dall’Autore nell’armonia dei legittimi interessi nella convivenza sociale, e tale armonia viene concepita come una delle determinazioni concrete della vita morale [6].

Osservando la storia, si avverte il senso evoluzionistico per cui “il progredire della civiltà fece sì che a poco a poco venissero relegate nel dominio delle antichità e della rozzezza primitiva”[7] le tante forme inumane, e degradanti, che i sistemi giuridico-punitivi del passato conoscevano. L’Autore ricorda le primitive faide, le lotte tra famiglie per vendicare e rivendicare, poi la legge c.d. del taglione materiale, ove la similitudo supplicii divenne l’essenza costitutiva stessa della giustizia penalpunitiva. Nell’occhio per occhio, dente per dente e vita per vita, invero, sono state rilevate le conseguenze parossistiche tipiche dell’ottica meramente retributivo-proporzionalistica, scevra da ogni illuminata cognizione e riflessione circa i fondamenti e i fini delle necessità concrete del punire. La formula del “si punisca il membro peccatore”, paradigma (e limite) di tutta la giustizia punitrice presso alcuni popoli, tuttavia, negli svolgimenti argomentativi della riflessione pessiniana, risulta rozza e grossolana sì, ma rozza e grossolana estrinsecazione di un principio più alto, ossia la necessità di estirpare la cagione del delitto, la radice stessa del male. Vigoroso è il paragone che l’Autore fa con il “sapiente cultore dell’arte salutare”, il quale “non si appaga di curare il sintomo esteriore e locale di una infermità corporea, ma tenta di risalire alla cagione del male, ed estinguere questo nelle sue radici”[8]. Si rinforza quindi, in tal modo, la concezione nous-centrica, o conato-centrica, per cui l’origine della devianza delinquenziale non può rintracciarsi nella mano che colpisce per ferire o uccidere, o nella lingua che proferisce falsità o parole lesive e denigranti, bensì nella mente, in quell’io che determina l’uomo alla parola o all’opera iniqua[9]. Ovviamente la base eziologica del contegno criminoso, e quindi il campo-bersaglio della punizione e della rieducazione, può essere focalizzata nella dimensione mentale, centro caratterizzante dell’essere umano, soltanto a fronte della sussistenza di un effettivo accadimento materiale ed offensivo. Ciò in quanto non può confondersi l’oggetto della punibilità del sistema ordinamentale penale con quello tipico del diritto canonico, volto a sondare anche solo il foro interiore della coscienza, per la salvezza e la salute dell’anima.

La legge morale ha due lati, il lato della moralità e il lato del diritto, e, più in particolare, la legge giuridica si riferisce non al volere puro ma al volere estrinsecato in un dato operare, in attività; non la mala voluntas bensì la mala actio costituisce il fatto incriminabile; i princìpi della religione e della moralità non costituiscono il maleficio, che è invece l’azione della libertà umana che infrange il diritto [10]. Ritorna, così, la concezione del delitto quale negazione del diritto[11]. Tale concezione, come risulta chiaramente dai passi sopra riportati, è ben lontana dalla dottrina antideologica del diritto, dottrina che invece troverà maggiore fioritura nel ‘900 con gli studi del Kelsen[12], costituenti il vivo verbo e il vivido presupposto per lo sviluppo degli orientamenti anti-giusnaturalistici che, epistemologicamente, sono vocati ad isolare l’analitica del dato conoscitivo del diritto positivo, dal sostrato volitivo di tipo politico o economico.

Nei “Prolegomeni” degli “Elementi” del 1882, poi, vengono passate in breve e incisiva disamina la dottrina dell’intimidazione (in futuro sistemata in connessione con la deterrenza e con la funzione c.d. generalpreventiva della pena), la dottrina dell’emendamento, facendo attenzione per questa a non uscire fuori dall’entroterra giuridico in senso stretto, data la forte caratura morale della siffatta teoria; e infine le dottrine relative - condensate intorno al nucleo concettuale della vendetta pubblica ad opera dello Stato - e della reciprocanza; e ancora, le dottrine miste o eclettiche, della riparazione del danno ideale, dell’utilitarismo come chiave di lettura del giusto, della pena quale necessità non dialettica ma storica, a cui l’individuo deve sottoporsi, in caso di violazione da parte sua dell’ordine della vita sociale, a fronte dell’esigenza della retribuzione caratterizzata dal pathos.   

Il Pessina critica le dottrine relative, poiché poco contemperano tutte le diverse istanze teoretiche che tentano di spiegare il fondamento ontologico della pena, giacché spesso le diverse scuole di pensiero si sono soffermate intorno ad un solo elemento logico della necessità del punire, piuttosto che sull’insieme dinamico degli elementi. Viene pure apprestata una critica alle posizioni che confondono il piano del diritto con quello della moralità in senso stretto; alla dottrina dell’emendamento, in realtà, viene mossa una critica di natura tecnico-qualificatoria, incentrata più che altro sul fatto che l’emendamento è una delle condizioni e non già lo scopo fondamentale, la ragione giustificatrice della pena. La dottrina della retribuzione giuridica, comunque, si propone di contrapporre un’azione di restrizione alla sfera di attività giuridica dell’individuo quando questi abbia violato l’ordo iuris, e in ciò risulterebbe ancora attuale, dai tempi del Pessina alla logica penalistica contemporanea.

Al di là delle considerazioni ontologiche, eziologiche e finalistiche sulla penalità, nello scritto qui esaminato si riprendono e si propongono i fondamenti della lezione beccariana sui delitti e sulle pene, sulla proporzionalità del rapporto logico-consequenziale ed effettuale tra i delitti e le pene, oltre che sulla necessità di umanizzazione di queste ultime. La lezione del Beccaria, in realtà, risulta onnipresente nella gnoseologia scientifico-dommatica e filosofica del Pessina, giacché gli “Elementi di diritto penale” sono cosparsi di citazioni dell’anzidetto maestro del passato.

Lo scopo della pena è quello di annientare il delitto (e non il soggetto autore dell’azione delittuosa), se si appresta a configurare la pena sotto forma di dolore e di male per la individualità che vi soggiace.

Come la negazione del diritto, e quindi il delitto, può essere varia a seconda della prescrizione giuridica violata, “e varia per qualità e per quantità, cioè secondo l’importanza del rapporto giuridico che è conculcato, e secondo la gravezza specifica della violazione di quel rapporto, determinata dalle sue condizioni come fatto concreto e particolare”, è equo e logico che i delitti medesimi siano puniti secondo proporzionalità da parte dello Stato. L’esistenza e l’operatività di quest’ultimo, a fronte dei princìpi anzidetti, garantisce la legittimità dell’azione repressiva contrapposta al contegno negatorio del diritto, e fuga i rischi di una retrograda vendetta di sangue. Tala vendetta, per il Pessina, è la negazione della pena, e toglie all’azione punitiva, che essa pure persegue, quel carattere di imparzialità che deve accompagnare l’epifania operativa della giustizia punitrice. Tuttavia, costituirebbe “un errore il fare dello Stato lo scopo ultimo e fondamentale della punizione, ma la punizione che è voluta dal Diritto debba avere per ministro l’organo stesso del Diritto nella vita sociale” [13]. Questa visione statualistica non risulta totalizzante, poiché non assorbe in modo fagocitante e repressivo le esigenze della persona (che precede e fonda, cronologicamente ed assiologicamente, lo Stato), sia come singola che nelle formazioni associative collettive, oltre che nell’aggregato massimo dei consociati tutti. Risulta ben presente, nell’ermeneutica e nella concettualistica gius-penalistica del Pessina, precedente al codice Zanardelli, l’importanza della dimensione della legalità, dato che la risposta punitiva statuale deve essere esercitata secondo norme direttrici identificate nella legge.

Indicativi risultano, quindi, i princìpi incontrovertibili che formano il nucleo della scienza del diritto penale secondo l’Autore qui in esame, nel suo pensiero appunto precedente l’intervento nel panorama giuridico italiano del codice Zanardelli dell’89: tali princìpi sono sintetizzati nell’ultimissima parte dei “Prolegomeni”, ove il Pessina ha riassunto i fondamenti del suo pensiero in tema di diritto e punibilità, in soli sei punti.

1° Sono da incriminare e tutte e sole le manifestazioni dell’attività libera dell’uomo che infrangono i dettati del Diritto.

2° La pena per riaffermare il Diritto negato dee far soffrire alcun dolore al delinquente, proporzionato alla quantità e qualità del suo delitto, ed estirpare in lui per quanto è possibile le radici del delinquere.

3° L’organo della giustizia punitrice è lo Stato, non l’individuo.

4° La legge debbe essere la norma direttrice della potestà civile nella punizione dei delinquenti.

5° Niun individuo può soggiacere a pena se non dietro irrevocabile giudicato che mostri esser convincimento della coscienza sociale la reità di lui.

6° Nella esecuzione dei giudicati penali sta il compimento della giustizia punitrice, salvo i casi, prevedibili dalla legge stessa, in cui non si debba proseguire il reato o punirne l’autore.[14]

Dal punto primo (“Sono da incriminare e tutte e sole”) può ricavarsi quello che odiernamente è il principio di frammentarietà del diritto penale, che, con l’avvento del pensiero liberaldemocratico, a rigore, tende a diventare sempre più diritto penale minimo, già extrema ratio del sistema ordinamentale giuridico. Tuttavia, dalla formula espositiva del pensiero pessiniano occorre notare la peculiare dicitura “e tutte”, la quale può essere salutata come un necessario riferimento al principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il riferimento ai “dettati del Diritto” risulta indice del principio di giuridicità in senso prescrittivo dell’ordinamento statuale, principio anticamera del principio - più specifico - di legalità nel suo versante formale di riserva di legge, oggi dominante perno ermeneutico nell’economia della Carta costituzionale italiana del 1948, all’articolo 25, cpv., oltre che ai sensi dell’articolo 1 (e dell’articolo 199) del codice penale Rocco, entrato in vigore il 1 luglio 1931, attualmente ancora vigente, malgrado le tante necessarie azioni riformatrici dei diversi legislatori nel tempo. Il verbo “infrangere”, utilizzato per qualificare il rapporto antinomico tra il contegno del soggetto agente e il parametro giuridico prescrittivo, indicativamente, denota l’in-sé del reato, ossia l’antigiuridicità, dalla teoria del reato c.d. tripartita ricostruita finzionisticamente quale elemento strutturale, e non quale dimensione ontologica propria della qualificabilità di un fatto storico in termini di reità. Il verbo anzidetto, poi, può pure essere indice dell’ammissibilità di un concetto di causalità in senso tecnico, nutrita e corroborata da leggi di copertura di tipo strettamente giuridico, ma ciò per i reati cc.dd. tecnici contemplanti la violazione di parametri normativi specifici. Costituiscono il presupposto della punibilità, poi, soltanto le manifestazioni libere dell’attività dell’uomo. Le attività devono essere manifestate, e ciò conferma il processo genetico dell’ermeneutica penalistica della materialità quale corollario dell’offensività. Le manifestazioni fondanti il contegno umano specifico devono essere libere: ci si deve quindi trovare al di fuori del contesto specifico del c.d. autore mediato, e si deve essere, anzitutto, coscienti, capaci di intendere e di volere. L’attributo (“libera”) che il Pessina ha utilizzato per dimensionare l’attività dell’uomo, resta qui, nei “Prolegomeni”, genericamente onnicomprensivo, e verrà di seguito sviscerato nel corso della sua autorevole trattazione, circa l’imputabilità in senso psicologico del soggetto agente. Piccolo appunto ulteriore potrebbe essere quello della punibilità limitata all’essere umano: nella storia delle organizzazioni giudiziarie, invero, si sono celebrati processi contro animali, ma in tempi molto risalenti.  

Dal secondo punto dei princìpi penali riassunti dal Pessina, poi, si evince il principio di proporzionalità delle pene a fronte della qualità e quantità delle azioni punite a titolo di reato dal sistema giuridico. In ciò si persegue il presupposto per l’umanizzazione delle pene. Viene confermata la piccola (o grande) rivoluzione copernicana della punibilità, giacché è la mente il centro dell’economia volitiva e attiva dell’essere umano, e dalla mente dipendono gli arti utilizzati per commettere le azioni criminose, arti che in concezioni più arcaiche e più grette del sistema sanzionatorio, in realtà, costituivano l’oggetto immediato della retribuzione, in risposta al torto subito dall’offeso, divenuto torto sociale attraverso lo schermo dell’organizzazione proto-giudiziaria. La teleologia funzionalistica della pena, ente di ragione consequenziale al reato, risulta già nell’Ottocento dispiegata verso orizzonti progressisti: estirpare nel delinquente le radici del delinquere, e non la personalità stessa - ex se considerata - del delinquente; tale concetto viene posto a fondamento della rieducazione stessa del reo, nel percorso di coscienza che dovrebbe condurre il suo io alla conformazione ai valori forti condivisi in un dato periodo storico dalla maggior parte dei suoi consociati, per quanto concerne i delitti più tecnici, ed anche ai valori naturali di conservazione e divieto di lesione del prossimo, in tema di delitti cc.dd. naturali.

Il terzo punto afferma l’esigenza che a far giustizia sia un’organizzazione, nell’interesse anche del singolo individuo offeso, e non l’individuo stesso, o la sua famiglia, o il suo clan, o il suo partito.

Il quarto punto, invece, si occupa di rintracciare nella “legge”, specificamente, il presupposto legittimante il potere di perseguire il contegno criminoso, da un lato, nonché di rintracciare le modalità attraverso le quali si celebra il meccanismo della giustizia penale, quindi le procedure, dall’altro lato. Finalmente, tra i principi fondamentali del diritto penale, compare il frutto delle riflessioni giuspositivistiche, la legalità, che è qualcosa di più della mera giuridicità o della vincolatività o cogenza, date le conquiste storiche da parte del movimento liberaldemocratico circa lo specifico strumento, la legge, prodotto della sovranità rappresentativa nei Parlamenti moderni.

Niun individuo può soggiacere a pena se non dietro irrevocabile giudicato che mostri esser convincimento della coscienza sociale la reità di lui, poi, rintraccia gius-causalisticamente il percorso della punitività: dal giudizio irrevocabile al soggiacimento alla pena da parte dell’individuo, accertato colpevole e tecnicamente condannato. Lascerebbe perplessi, però, il riferimento ad un eventuale (precedente) rapporto causalistico, ossia quello del percorso logico dal convincimento della generale e generica coscienza sociale all’atto giuridico specifico del provvedimento irrevocabile, che statuisce nel singolo caso l’assoluzione o la condanna dell’imputato. Una perplessità che, prima facie, e con gli occhi dell’odierna consapevolezza storica, verrebbe giustificata dall’abitudine ad aver letto sui codici dei sistemi totalitaristici - di destra e di sinistra - i vaghi e indeterministici, arbitrari riferimenti al sano sentimento del popolo, o alla coscienza di classe; tali parametri normativi verranno invero adottati nei regimi che il Pessina, morto nel 1916, non arriverà mai a vedere. In realtà, e a rigore, il riferimento al convincimento della coscienza sociale sarebbe da salutare, nel 1882, quale fortificazione dell’idea per cui la giustizia è amministrata in nome del popolo della Nazione patria (secondo il patriottismo indipendentista e ‘illuminato’, e non secondo quello dispotico del Novecento). Verso la fine dell’Ottocento, il pensiero liberale era spesso accompagnato dal pensiero liberista, ancora dominante, e ciò aveva delle ricadute anche sulla considerazione del sistema-giustizia nel suo complesso: il riferimento alla coscienza sociale costituiva, così, il frutto di un labor limae filosofico vocato alla eliminazione della individualistica concezione secondo cui la giustizia penale sarebbe un congegno di mera retribuzione punitiva, in nome soltanto della parte offesa, sul modello del processo civile. Si ricordi, tra l’altro, che l’uomo dell’Ottocento era giovane nel suo esistere in quanto essere privato, libero nel suo laissez-faire, svincolato dall’eccesso di sudditanza tipico dell’avantieri assolutistico, e non ancora pervenuto alle dottrine economiche keynesiane.

Come il “Diritto” è funzionalizzato, nell’economia assiologica generale del Pessina, al compimento della destinazione dell’uomo (e qui si può già avvertire la conquista filosofica dell’essere umano quale valore in sé, figlia di un orientamento antropocentrico di matrice laicistica e personologica, novecentesca), così nel momento esecutivo dei giudicati penali si realizza il compimento, pratico ed effettivo, della giustizia punitrice. Dal versante della ragion pura si passa all’alveo procedimentalistico della ragion pratica, ed empirica, dalla cui conformazione e dal cui grado di rispondenza ai valori astratti ordinamentali, in verità, dipende il grado di satisfattorietà dell’interesse del soggetto leso, e della società tutta, alla garanzia di sicurezza e di pace sociale.

Data la non ancora avvenuta maturazione, nell’Ottocento, del pensiero logico-positivistico, o neopositivistico in senso empirico e verificazionistico, che troverà la propria matrice storica in seno al circolo di Vienna, nel corso della prima metà del secolo XX, al pensiero filosofico-giuridico del Pessina è stata attribuita una coloritura di più o meno consapevole consequenzialismo gnoseologico rispetto alle concezioni proprie dei “giusnaturalismi” [15]. A condurre una siffatta critica, in verità, non è stata un’opera fuori dalle righe, di nicchia, ma la Relazione al Re del Guardasigilli Alfredo Rocco, il quale ha dato ‘il nome’ al vigente codice penale italiano, in un’epoca storica dominata da politiche fortemente improntate all’autoritarismo, o se si preferisce, al “totalitarismo zoppo[16].

Nella Relazione de qua, infatti, si legge quanto segue:

La filosofia giuridica penale, che ispira la nuova opera legislativa, non è che una derivazione della filosofia giuridica generale del Fascismo. Filosofia, in verità, ben diversa da quella che fu propria degli enciclopedisti francesi a cui si ispirarono la rivoluzione del 1789, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, i codici penali del 1791 e del 3 brumaio anno IV e la stessa codificazione legislativa penale del primo Napoleone, che fu il modello a cui si attennero, per più di un secolo, tutte le altre successive legislazioni che dominarono all’estero e in Italia, non escluso il codice penale del 1889. I caratteri che distinguono l’una dall’altra filosofia sono principalmente in ciò che l’una è esclusivamente individualista, l’altra essenzialmente sociale e collettiva o statuale, in quanto che, pur evitando gli eccessi della statolatria, pur tutelando nei confronti dello Stato l’interesse alla libertà individuale, tuttavia subordina tale interesse all’interesse supremo dell’esistenza dello Stato e impedisce che la libertà degli individui trascenda in licenza od arbitrio. Secondo la concezione filosofica individualista che fu propria dell’illuminismo francese, il diritto di punire, nelle mani dello Stato, si concepiva come un derivato di un diritto naturale dell’individuo, trasmesso allo Stato mediante alienazione o cessione fattane nel così detto contratto sociale o contratto costitutivo della società e dello Stato o nel pactum subjectionis che ne derivava. Ritenevano taluni, tra cui il Filangieri, che codesto naturale diritto dell’individuo, allo Stato ceduto, fosse il naturale diritto di difesa o di vendetta individuale contro le offese minacciate o avvenute, il che portava a concepire il diritto statuale di punire come un diritto di vendetta collettiva o sociale o pubblica. Ritenevano altri, tra cui il Beccaria, che il diritto di punire dello Stato altro non fosse che un derivato del naturale diritto di libertà del cittadino e più precisamente come un deposito in comune delle minime porzioni di libertà naturale degli individui rinunziate per costituire appunto la Sovranità, come somma dei poteri dello Stato, ivi compreso il potere di punire. A tali concezioni ultra-individualistiche del diritto di punire che costituiscono assai più la negazione che l’affermazione del suddetto potere riguardato come una graziosa concessione fatta dagli individui allo Stato, per sé sempre mutabile e revocabile, e avente a proprio limite la barriera insuperabile del diritto di libertà dell’individuo, almeno nella parte non rinunciata, si contrappone tenacemente e logicamente la filosofia giuridica penale del Fascismo. Secondo tale concezione filosofica, il diritto di punire dello Stato non è un derivato di un diritto naturale dell’individuo come ritennero i giusnaturalismi, le cui concezioni più o meno avvertitamente dominano altresì l’opera di alcuni sommi nostri criminalisti, quali il Carrara e il Pessina. Il diritto di punire è, invece, secondo la concezione fascista (che in ciò si ricollega alla tradizione propria del Romagnosi e del Carmignani, ripresa, se pur talvolta con evidenti esagerazioni, dalla scuola criminale antropologica), null’altro che un diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo, analogo ma sostanzialmente diverso dal diritto di difesa dell’individuo e avente lo scopo di assicurare e garantire le condizioni fondamentali e indispensabili della vita in comune.[17]

Il pensiero fascista, che il Pessina non arriverà cronologicamente a vivere e ad analizzare, invero, ha tentato di falsificare, assiologicamente ed anzi proprio ideologicamente, lo stato dell’arte della scienza penale ottocentesca, dagli orientamenti criminologici e filosofico-penalistici in senso stretto del Pessina, alle più antiche rivoluzioni normative, dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, al codice penale francese del 1791, e via discorrendo. 

Enrico Pessina, invece, risultava illuminato nel suo pensiero dalle tappe che faticosamente aveva percorso il principio di legalità in senso garantistico, ancor per nulla sostanzializzato, in realtà, nell’economia strutturale delle fattispecie astratte delle prescrizioni normative incriminatrici del suo tempo; ciò, ovviamente, se si utilizzano gli occhiali del giurista contemporaneo italiano, così solerte nell’analisi del rispetto del principio legalistico nei suoi ulteriori versanti e contenuti, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 7 CEDU nell’ordinamento interno, con la L. cost. n. 3/2001 che ha modificato il comma primo dell’articolo 117 della Costituzione del 1948.

In tema di punitività, a rigore, l’indagine logica edifica inferenziali ponti con le concezioni della libertà personale. Tutto il costrutto culturale che secoli e secoli di storia hanno prodotto, circa la liceità dell’intervento statuale teleologicamente orientato al ristabilimento della pace sociale, attraverso lo strumento dell’ars boni et aequi, passa per le disposizioni miliari di diverse Carte di diritti che il Professore Pessina ben conosceva, nel loro valore gnoseologico e nel loro significato antropologico-evolutivo.

Si pensi, ad esempio, al paragrafo 39 della Magna Carta Libertatum del 1215, la quale sanciva che “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno”.

Il riferimento al giudizio legale e alla legge del regno, così, rappresenta il presupposto per l’avvio, nel pensiero giuridico, della connessione tra la legalità e le garanzie di libertà: la legalità non più soltanto come impositiva e realizzativa dei fini meramente pubblicistici, ove la sfera patrimoniale e personologica dell’individuo è spesso soggetta a rarefazione e, conseguentemente, al costante rischio dell’arbitrio, bensì come garantista, anzitutto dal punto di vista della certezza del diritto, bene della vita nel cui entroterra logico, e pratico, trovano il proprio momento genetico tutte le altre tutele del suddito che tende a voler essere sempre più cittadino. Sono da incriminare e tutte e sole le manifestazioni dell’attività libera dell’uomo che infrangono i dettati del Diritto, aveva scritto il Pessina al primo punto della sua sintesi dei princìpi penalistici fondamentali, vero e proprio manifesto programmatico per ogni legislatore illuminato, vocato al progresso della civiltà attraverso l’affinamento e l’approfondimento dei diritti. Il 1889, e quindi il codice Zanardelli, infatti, era quasi prossimo all’anno di pubblicazione dei “Prolegomeni” degli “Elementi” pessiniani, il 1882.

I riferimento al diritto, alla giustizia penale, ai valori sottesi al tecnicismo, poi, sono rinvenibili in seno alle antiche Carte dei diritti, e li ritroviamo pure nella filosofia dell’Autore su cui qui si riflette, in fondo figlio e finissimo continuatore della tradizione garante delle libertà.

“A nessuno venderemo, negheremo, differiremo o rifiuteremo il diritto o la giustizia”, disponeva il paragrafo 40 dell’anzidetta Carta del 1215. Proprio come il Pessina, sempre nel punto primo dei suoi princìpi, affermava che sono da incriminare “tutte” le manifestazioni criminose previste: se non fossero incriminate tutte, a qualcuno sarebbe venduto, negato, differito o rifiutato il diritto o la giustizia. La storia tante volte ha conosciuto, e talvolta ancora conosce, deroghe (talvolta tecniche, talvolta non) all’applicazione della sfera penale, punitiva, a beneficio di alcune categorie, anzitutto istituzionali, protette dal sistema. Infatti, malgrado “Nella esecuzione dei giudicati penali sta il compimento della giustizia punitrice”, l’Autore medesimo prende cognizione e afferma l’esistenza di deroghe al principio generale secondo cui la legge è uguale per tutti(“salvo i casi, prevedibili dalla legge stessa, in cui non si debba proseguire il reato o punirne l’autore”).

Nel pensiero pessiniano, al contrario di quelli che saranno gli intenti totalizzanti del regime fascista attraverso la codificazione del ’30, è sempre ravvisabile il lume epistemologico della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, del 26 agosto 1789. In particolare, in tema di fondamento della punibilità e, simmetricamente in tema di fondamento e limiti del principio di libertà, di habeas corpus all’insegna della certezza legalistica, si pensi all’articolo 4 della Dichiarazione appena menzionata, che ha sancito che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che dalla legge”. Si pensi pure al successivo articolo, il quale ha disposto che “La legge ha il diritto di proibire solo le azioni nocive alla Società. Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina” (articolo 5). E ancora, sul sentiero logico del paragrafo 39 della Magna Carta Libertatum, nonché in sintonia con lo spirito del primo dei princìpi enucleati dal Pessina, si ponga attenzione al disposto dell’articolo 7 della Dichiarazione del 1789, il quale ribadisce in senso forte il valore della libertà personale della persona, disponendo che “Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che sollecitano, spediscono, eseguono o fanno eseguire ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto in virtù della legge deve obbedire all’istante; opponendo resistenza si rende colpevole”[18].

L’articolo 8 della Dichiarazione dell’agosto del 1789, invece, apre le porte al principio di necessità (o stretta necessità) della pena quale risposta sanzionatoria legale, consequenziale all’infrazione di specifiche prescrizioni dell’ordinamento giuridico. E dall’affermazione del principio di necessità al riconoscimento del principio di frammentarietà del sistema penale, sul piano logico, il passaggio è breve. L’articolo 8, infatti, sancisce che “La legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata”. L’avverbio “strettamente” qualifica il carattere di necessità della pena in senso forte, mentre l’avverbio “evidentemente” canalizza la sfera della necessità suddetta verso la dimensione dell’empiricità, o se si vuole, (già) del verificazionismo proprio del neopositivismo giuridico, o positivismo logico, del novecentesco circolo viennese. Se la pena è funzionale al raggiungimento dei suoi scopi, retributivo-punitivi e rieducativi (nel pensiero del Pessina), deve essere la realtà a dimostrarlo, non la aprioristica ideologia della vendetta pubblica o dell’oltranzismo giustizialistico. L’articolo da ultimo citato, poi, nella sua seconda parte, afferma il principio di irretroattività.

Dallo Stato forte e risolutore propugnato nel seicentesco “Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil” di Thomas Hobbes, allo Stato dell’io generale rousseauiano, generatore del male dell’ineguaglianza tra gli uomini a fronte della giuridicizzazione del “questo è mio” dell’antico uomo in preda alle passioni, allo Stato engelo-marxiano quale mero strumento sovrastrutturale destinato ad estinguersi (Aufhebung des Staates) per la sua paventata inutilità nel momento edenico (secondo la filosofia de qua) del comunismo evoluto, al pensiero filosofico-giuridico “non utopistico” del Pessina, sulla necessità della efficacia esecutiva di uno Stato che assicuri la realizzazione della dimensione sociale dell’essere umano, e non soltanto quella individuale. Il pensiero sociale pessiniano, si noti, è stato sì contemporaneo alle correnti socialiste di matrice storico-materialistica, ma non ne ha scientificamente risentito, poiché si è manifestato in senso progressista dal punto di vista liberale, figlio e continuatore della parte primogenita e illuminata della Rivoluzione francese: lo Stato non tende ad assorbire totalitariamente le libertà della persona in nome della ricerca di una giustizia ideologica, nel pensiero dell’Autore in questione, ma è anzi il mezzo che si fa garante dell’imparzialità tra i consociati, nel momento applicativo della pena; e non (soltanto) in nome del prestigio e del potere statuale, bensì, soprattutto, in nome del retto vivere e del benessere degli individui. Partendo da questo assunto valoristico, così, si può leggere compiutamente il senso del terzo punto del manifesto pessiniano dei princìpi penalistici dell’82: L’organo della giustizia punitrice è lo Stato, non l’individuo.

L’entroterra storico-assiologico di ispirazione, a rigore, non può che essere la norma dispositiva dell’articolo 12 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, la quale ha sancito che “La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica, questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata”.

Così, il motto del Congresso viennese, “conservare progredendo”, al di là delle interpretazioni più equilibrate e dinamiche che si possono intorno ad esso dispiegare, non riesce più ad essere al passo con le esigenze garantistico-penalistiche del tempo del Pessina, volto già a sondare effettualmente le spesso improduttive conseguenze della repressione punitiva fine a se stessa, e teso sulle ardue frontiere - ancora attualissime nel secolo XXI - della umanizzazione della pena ai fini rieducativi e risocializzanti. 

 

[1] Cfr. M. R. DI SIMONE, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’antico regime al fascismo, Torino 2007, 145 ss.; P. ALVAZZI DEL FRATE, Giustizia e garanzie giurisdizionali. Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari, Torino, Giappichelli, 2001, 67.

[2] P. ALVAZZI DEL FRATE, ibidem.

[3] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, vol. I, Napoli, Riccardo Marghieri di Gius., 1882, 5.

[4] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 20.

[5] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 17.

[6] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 10.

[7] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 25.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 37-38.

[11] Cfr.E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 38, ove l’Autore afferma, in particolare, che “E come il Diritto chiude in sé le condizioni dello adempimento dell’umana destinazione, le quali dipendono dalla umana libertà, così e converso la negazione del Diritto, cioè il delitto, inchiude la manifestazione della libertà umana in qualche fatto che rende impossibile per il caso speciale l’adempimento di alcuna di quelle condizioni”. Si pensi, invece, a quanto scriverà il Kelsen a proposito della negazione anzidetta: “La norma che ordina il comportamento che evita la sanzione può valere quindi soltanto come norma giuridica secondaria. In relazione al fatto ordinato da questa come dovuto, in relazione cioè alla condotta che evita la coazione e che costituisce il fine dell’ordinamento giuridico, l’illecito, che costituisce la condizione dell’atto coattivo, rappresenta indubbiamente qualcosa come una negazione, come una specie di contraddizione [appunto, come una negazione, ma non una negazione in senso logico, n.d.a.]. Ma il fatto illecito, in relazione con la norma secondaria che comanda il contrario non si trova in contraddizione logica. Una simile contraddizione può verificarsi soltanto fra due proposizioni di dover essere o fra due proposizioni di essere, non mai fra una proposizione che esprime un dover essere e una proposizione che esprime un essere. […] La infrazione della norma appartiene a una categoria completamente diversa da quella della contraddizione logica. L’opposizione in cui entra un fatto con una norma che comanda il contrario non può essere qualificata come una antitesi logica, ma piuttosto come una antitesi teleologica, sempre che il telos sia quivi presupposto come fine oggettivo. Evidentemente i tradizionali concetti di giuridicità e antigiuridicità, di comportamenti contrastanti e corrispondenti al diritto, si riferiscono alla norma secondaria come espressione del fine del diritto. Ci si può servire di questi concetti alla condizione che col primo si pensi al comportamento che condiziona l’atto coattivo e che col secondo si pensi al comportamento che evita tale atto” (H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, 1934, trad. di R. Treves col titolo “Lineamenti di dottrina pura del diritto”, ristampa del 2015, Torino, Einaudi, 70-71). Il perno di scarto tra la dottrina post-giusnaturalistica e la dottrina pura del diritto quale teoria del positivismo giuridico, nell’entroterra metodologico kelseniano, risulta essere focalizzato nell’ermeneutica del rigore analitico, operante in seno alla struttura – inferenzialmente predeterminata – della astratta fattispecie legale.   

[12] Cfr. H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, 1934, trad. di R. Treves col titolo “Lineamenti di dottrina pura del diritto”, ristampa del 2015, Torino, Einaudi, ove Kelsen sosteneva che “Il concetto di illecito subisce un essenziale cambiamento di significato quando venga considerato dal punto di vista immanente in cui si pone la dottrina pura del diritto. L’intenzione del legislatore, la circostanza che un fatto non sia gradito all’autorità legislativa, che sia antisociale come imprecisamente si suol dire (si potrebbe infatti soltanto dire che è ritenuto tale dal legislatore), non costituiscono elementi essenziali per la determinazione del concetto di illecito. Essenziale è esclusivamente e soltanto la posizione del fatto in questione in seno alla proposizione giuridica: che questo sia condizione per la specifica reazione del diritto, per l’atto di coazione (che è atto dello stato). Illecito è quel determinato comportamento dell’uomo, che nella proposizione giuridica viene posto come la condizione, per cui si rivolge contro di esso l’atto coattivo posto nella proposizione stessa come conseguenza. […] Con questa specie di trattazione, l’illecito, da negazione del diritto, come appare da un punto di vista politico-giuridico, diventa una condizione specifica del diritto e, soltanto così, un oggetto possibile della conoscenza giuridica. Questa può concepire anche l’illecito soltanto come diritto. Il concetto di illecito rinuncia alla sua posizione extrasistematica in cui lo può mantenere soltanto una ingenua giurisprudenza prescientifica e assume una posizione intrasistematica. […] La dottrina pura del diritto respinge la concezione per cui l’uomo, con l’illecito, verrebbe a infrangere o a violare il diritto. Essa dimostra che il diritto non può essere infranto o violato dall’illecito perché è anzi soltanto a mezzo suo che il diritto raggiunge la propria essenziale funzione [n.d.a.: Ciò in un’ottica in cui il sistema giuridico, penale, in particolare, sia funzionalmente strutturato in una serie di enunciati che vietino una serie tassativa di contegni antropici, secondo il detto, successivo all’Ancien Régime, “è concesso tutto ciò che non è specificamente vietato”]. L’illecito non significa, come lascia supporre la concezione tradizionale, un’interruzione nella esistenza del diritto, ma proprio l’opposto; in questo fatto si conferma l’esistenza del diritto che consiste nella sua validità, nella doverosità dell’atto coattivo come conseguenza dell’illecito giuridico. Anche in questo punto, la dottrina pura del diritto è in opposizione con la teoria giuridica del nostro tempo che, in strettissima connessione con la sua inclinazione verso la dottrina del diritto naturale, vorrebbe rinunciare al momento della coazione come criterio empirico del diritto, dato che ritiene di poter ritrovare questo criterio nel suo intimo contenuto, nella sua concordanza con una certa idea del diritto” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 66-68). Si pensi, d’altronde, come Kelsen abbia concepito in generale il diritto: “Il diritto non è caratterizzato come un fine, bensì come un mezzo specifico” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 71).

[13] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 40.

[14] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 41.

[15] A modesto parer di chi scrive, da un punto di vista tecnico-analitico, nel pensiero del Pessina possono essere rilevati elementi non tanto trascendenti quanto gnoseologicamente trascendentali, in senso kantiano, riconducibili all’entroterra dottrinale post-giusnaturalistico. Si pensi, ad esempio, al passo in cui l’A. sostiene che “La violazione o negazione del Diritto necessita la riaffermazione di esso. La quale importa che la forza del Diritto vinca l’attività individuale, la soggioghi, la sottoponga a sé medesima” (E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 38, inizio del § 3). Si pensi, invece, a quanto affermerà il Kelsen, il quale osserverà che “Come la legge naturale connette un determinato fatto come causa a un altro come effetto, così la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto (cioè con la così detta conseguenza dell’illecito). Nell’un caso la forma della connessione dei fatti è la causalità, nell’altro è l’imputazione in cui la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto. […] Il rapporto tra la pena e il delitto, tra l’esecuzione e l’illecito civile non ha un significato causale, ma bensì un significato normativo. […] così come la necessità (das Müssen) è l’espressione della legge di causalità” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 63-64). La necessità, quindi, è un attributo ontologico dell’esperienza causalistica in seno alle fenomeniche naturali, e il verbo “necessitare” utilizzato dal Pessina nel passo da ultimo citato nella presente nota, invero, riporta in una dimensione post-giusnaturalistica l’enunciato della trattazione dell’autorevole penalista italiano, poiché, in ragione della lesione, o comunque della violazione dell’ordo iuris incardinante la stessa naturalis ratio, risulterebbe simmetricamente necessaria la riaffermazione, appunto, di quel “Diritto” con l’iniziale maiuscola. Un siffatto giusnaturalismo radicale, come noto, non può essere attribuito, in senso proprio e caratterizzante, al pensiero pessiniano sui fondamenti della legalità e, prima ancora, della giuridicità.

[16] S. MERLINI, Il governo costituzionale, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma, 1995, 42.

[17] Tratto dalla Relazione al Re del Guardasigilli On. Alfredo Rocco.

[18] Si ricordi, tra l’altro, che anche l’art. 26 dello Statuto del Regno di Sardegna, emanato da Carlo Alberto nel 1848 (periodo molto più vicino allo scritto del Pessina preso come riferimento critico nel presente lavoro), prescriveva che “La libertà individuale è guarentita.

Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive”.

Il secolo XIX ha costituito una traversata della storia istituzionale, e in generale antropica, in mezzo al magma dei princìpi figli della Rivoluzione francese, anzitutto quella primula, illuminata; l’Ottocento, però, è stato anche contenitore, artefice e testimone delle istanze reazionarie e conservatrici del periodo c.d. della Restaurazione, segnato nel suo convenzionale inizio dal Congresso di Vienna, il cui motto indice era, tuttavia, “conservare progredendo”.

La separazione dei poteri statuali, ma anche la separazione tra la giustizia civile e quella penale, la pubblicità delle procedure, il giudizio di sola legittimità in Cassazione, l’obbligo di motivazione delle sentenze, il doppio grado di giudizio, il divieto di tortura e la c.d. umanizzazione delle pene, a rigor del vero delle ricostruzioni storiche, erano - ed erano viste come - il portato della cultura tecnico-giuridica francese. Quest’ultima aveva ispirato, negli anni della Restaurazione, tutti i governi dell’Europa continentale nella loro opera di riforma del sistema giudiziario. L’importanza degli interventi di politica giudiziaria avvenuti in Francia, così, era stata riconosciuta anche in Italia[1], dove quei princìpi sistemici del ius, sempre in condendo non appena condito, contribuirono alla “modernizzazione della giurisdizione”[2].

Dalla tensione a muoversi a passo del gambero, nelle sovrastrutture sociali e giuridico-istituzionali dell’Ancien Régime appena trascorso, allo slancio verso le teoriche marxiane del socialismo quale necessità storico-escatologica, in funzione dell’avvento di una dimensione anti-alienazionistica dell’Homo poliedricus contrapposto al mero homo oeconomicus, l’Ottocento letterario e scientifico ha inciso sul divenire dell’evoluzione nomologica. La predetta incisione, nella pratica, si è verificata con una vera e propria canalizzazione della cultura giuridica verso le complesse e faticose dinamiche garantistiche, anzitutto in materia penale, attraverso i congegni concettuali giuspositivistici rappresentati nelle istanze codificatorie. Passando ora dal generale al particolare, uno studioso penalista, autore di pregevoli opere giuridiche e filosofiche, un uomo che dell’Ottocento ha vissuto varie esperienze di battaglie progressiste in prima persona, e in prima linea, dall’adesione alle idee liberali, al contrasto dei Borboni, alla partecipazione alla primavera civica dei moti del ‘48, Enrico Pessina, merita qui tutta la sentita ammirazione, oltre che la breve menzione di alcuni suoi peculiari passi, indici del suo pensiero, su cui sicuramente occorre riflettere.

Il Professore Pessina, nel volume I dei suoi “Elementi di diritto penale”, edizione del 1882, nella parte prima della “Introduzione”, sottotitolata con la dizione “Nozioni preliminari sul diritto penale e sulla sua cognizione scientifica”, scriveva quanto segue:

Un fatto che, per la sua riproduzione in tutti i luoghi e in tutti i tempi che forman parte del dominio della storia, può dirsi una costante tradizione dell’umana famiglia si è quello della giustizia penale, per cui l’uomo, considerandosi come investito di un sacro mandato, ha sottoposto il suo simile alla efficacia di una punizione, quando il medesimo si è renduto autore di un qualche atto che egli ha considerato come trasgressione delle norme su cui poggiava la vita sociale.[3]

Dall’incipit dell’opera si apprende come l’Autore concepisca l’operatività del diritto penale, e la sua esistenza stessa sotto forma di “giustizia penale”, come un “fatto”, in consonanza con la qualificazione che la tradizione ha da sempre connesso alla ontologia dell’oggetto principe del diritto penale (il fatto), salutato, appunto, con la dictio di dirittodelfatto. Una tale icastica definizione, seppur nel pressappochismo discernitivo in seno al quale è sorta, risulta comunque rappresentativa di una caratterizzazione in simbiosi con il principio di materialità, postulato dell’offensività, di quella parte dell’ordinamento giuridico che, già dallo stesso Pessina, veniva avvertita quale piattaforma ‘estrema’ del sistema giuridico.

La giustizia penale risulta pure una “costante tradizione dell’umana famiglia”. Il carattere della costanza, attraverso lo studio delle varie società storiche, invero, risulta attinente all’esigenza naturale dell’essere umano di occuparsi dell’equa amministrazione della convivenza tra consociati. La gestione tecnica dell’ars boni et aequi si presta alla ricomposizione, impersonale ma non spersonalizzante, dei fragili equilibri cooperativi, nel risanamento del debito che la società intera ha verso la parte offesa: ciò mediante la ricostruzione delle dinamiche oggettive e subiettive del fatto punito, nella individuazione di un colpevole specifico, oggi secondo il criterio accertativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio (si veda l’attuale articolo 533, comma 1, c.p.p. italiano), nella garanzia della sicurezza pubblica all’insegna della rieducazione, in funzione anti-criminogena. Il termine “famiglia”, poi, attiene non soltanto ad una vaga dimensione filantropica del Pessina, ma ad un consapevole inquadramento concettuale dell’aggregazione in societas quale organizzazione frutto di un pactum, che vincola l’uomo a dismettere l’esistenza tipica da homo homini lupus.

Proseguendo la lettura della parte iniziale dell’opera pessiniana, risalta l’apprensione della sua concezione generale del diritto. Una concezione che si struttura in negativo, per quello che il diritto non è, e in positivo, per ciò che invece esso è.

Il Diritto non è il prodotto artifiziato delle convenzioni umane, non è fattura della volontà dell’uomo, non è l’interesse individuale o l’interesse sociale, o la somma di entrambi; esso è la ragione medesima, e come tale è un principio assoluto che governa l’attività umana individuale e sociale in tutto quelle che dipendendo dalla libertà dell’uomo serve indispensabilmente al compimento della sua destinazione. Il Diritto è vincolo di solidalità per il genere umano; e l’uomo ha innanzi alla legge etica del mondo il dovere di combattere, perché esso regni sovrano in mezzo alla lotta inevitabile degli interessi.[4]

Questa confessione filosofica, propedeutica - per certi versi in senso maieutico, per altri in senso parabolico - all’iniziamento alla disciplina giuspenalistica, la si rinviene nei “Prolegomeni allo studio del diritto penale italiano”, tra i “Fondamenti razionali del diritto penale”, a proposito del principio fondamentale della giustizia penale. Dato che per il Pessina la legge della vita è la lotta, che definisce come la condizione che accompagna tutto l’esplicamento dell’attività umana[5], il diritto viene concettualizzato come una entità razionale, assoluta, che organizza e dirige la forza di questa dialettica, di questa lotta.

Il diritto come ragione, se si sottopone ad un analitico scrutinio filosofico l’apparato sistemico ordinamentale in generale, rappresenta il prodotto della categorizzazione del ius quale ente logico, i cui concetti corrispondono appunto ad insiemi categorici, alla cui base risiede il dover essere, funzionale al miglior esplicamento dell’essere, tanto nella sua dimensione individuale quanto in quella personologico-associata, o sociale.

Interessante è sottolineare e comprendere la visione del diritto a “D” maiuscola a cui è negata la dimensione di sovrastruttura, tanto cara, invece, alle concezioni ottocentesche che, partendo da posizioni analitiche di natura materialistico-storica, criticavano la società istituzionalizzata di allora, così istruita all’insegna di una cultura giuridica formale, vista come mero riflesso delle dinamiche socioeconomiche, dalle cui dialettiche, in generale, emergono di èra in èra delle classi dominanti e delle classi subordinate.

Il diritto è funzionale al compimento della dimensione ontologica dell’essere umano, alla sua realizzazione quale animale sociale avente bisogni individuali. Il diritto è dedito al compimento delle finalità intrinsecamente umane, secondo la teleologia gius-filosofica pessiniana. Esso serve a realizzare gli interessi individuali e quelli sociali, ma non si identifica al contempo con gli interessi de quibus, presi singolarmente o in combinazione fra loro; essendo il Diritto, per il Pessina, qualcosa di più.

L’identità del diritto viene condensata attorno al concetto di vincolo, riprendendo il portato sapienziale delle obligationes proprie dell’antico diritto romano, trasposto macroscopicamente, tuttavia, nel terreno scientifico della teoretica pubblicistica. Il vincolo, poi, viene qualificato attraverso il carattere della “solidalità per il genere umano”, quasi attraverso un mutuo cooperativismo, nella lotta per l’esistenza. L’essenza propria del diritto, tra l’altro, viene rinvenuta dall’Autore nell’armonia dei legittimi interessi nella convivenza sociale, e tale armonia viene concepita come una delle determinazioni concrete della vita morale [6].

Osservando la storia, si avverte il senso evoluzionistico per cui “il progredire della civiltà fece sì che a poco a poco venissero relegate nel dominio delle antichità e della rozzezza primitiva”[7] le tante forme inumane, e degradanti, che i sistemi giuridico-punitivi del passato conoscevano. L’Autore ricorda le primitive faide, le lotte tra famiglie per vendicare e rivendicare, poi la legge c.d. del taglione materiale, ove la similitudo supplicii divenne l’essenza costitutiva stessa della giustizia penalpunitiva. Nell’occhio per occhio, dente per dente e vita per vita, invero, sono state rilevate le conseguenze parossistiche tipiche dell’ottica meramente retributivo-proporzionalistica, scevra da ogni illuminata cognizione e riflessione circa i fondamenti e i fini delle necessità concrete del punire. La formula del “si punisca il membro peccatore”, paradigma (e limite) di tutta la giustizia punitrice presso alcuni popoli, tuttavia, negli svolgimenti argomentativi della riflessione pessiniana, risulta rozza e grossolana sì, ma rozza e grossolana estrinsecazione di un principio più alto, ossia la necessità di estirpare la cagione del delitto, la radice stessa del male. Vigoroso è il paragone che l’Autore fa con il “sapiente cultore dell’arte salutare”, il quale “non si appaga di curare il sintomo esteriore e locale di una infermità corporea, ma tenta di risalire alla cagione del male, ed estinguere questo nelle sue radici”[8]. Si rinforza quindi, in tal modo, la concezione nous-centrica, o conato-centrica, per cui l’origine della devianza delinquenziale non può rintracciarsi nella mano che colpisce per ferire o uccidere, o nella lingua che proferisce falsità o parole lesive e denigranti, bensì nella mente, in quell’io che determina l’uomo alla parola o all’opera iniqua[9]. Ovviamente la base eziologica del contegno criminoso, e quindi il campo-bersaglio della punizione e della rieducazione, può essere focalizzata nella dimensione mentale, centro caratterizzante dell’essere umano, soltanto a fronte della sussistenza di un effettivo accadimento materiale ed offensivo. Ciò in quanto non può confondersi l’oggetto della punibilità del sistema ordinamentale penale con quello tipico del diritto canonico, volto a sondare anche solo il foro interiore della coscienza, per la salvezza e la salute dell’anima.

La legge morale ha due lati, il lato della moralità e il lato del diritto, e, più in particolare, la legge giuridica si riferisce non al volere puro ma al volere estrinsecato in un dato operare, in attività; non la mala voluntas bensì la mala actio costituisce il fatto incriminabile; i princìpi della religione e della moralità non costituiscono il maleficio, che è invece l’azione della libertà umana che infrange il diritto [10]. Ritorna, così, la concezione del delitto quale negazione del diritto[11]. Tale concezione, come risulta chiaramente dai passi sopra riportati, è ben lontana dalla dottrina antideologica del diritto, dottrina che invece troverà maggiore fioritura nel ‘900 con gli studi del Kelsen[12], costituenti il vivo verbo e il vivido presupposto per lo sviluppo degli orientamenti anti-giusnaturalistici che, epistemologicamente, sono vocati ad isolare l’analitica del dato conoscitivo del diritto positivo, dal sostrato volitivo di tipo politico o economico.

Nei “Prolegomeni” degli “Elementi” del 1882, poi, vengono passate in breve e incisiva disamina la dottrina dell’intimidazione (in futuro sistemata in connessione con la deterrenza e con la funzione c.d. generalpreventiva della pena), la dottrina dell’emendamento, facendo attenzione per questa a non uscire fuori dall’entroterra giuridico in senso stretto, data la forte caratura morale della siffatta teoria; e infine le dottrine relative - condensate intorno al nucleo concettuale della vendetta pubblica ad opera dello Stato - e della reciprocanza; e ancora, le dottrine miste o eclettiche, della riparazione del danno ideale, dell’utilitarismo come chiave di lettura del giusto, della pena quale necessità non dialettica ma storica, a cui l’individuo deve sottoporsi, in caso di violazione da parte sua dell’ordine della vita sociale, a fronte dell’esigenza della retribuzione caratterizzata dal pathos.   

Il Pessina critica le dottrine relative, poiché poco contemperano tutte le diverse istanze teoretiche che tentano di spiegare il fondamento ontologico della pena, giacché spesso le diverse scuole di pensiero si sono soffermate intorno ad un solo elemento logico della necessità del punire, piuttosto che sull’insieme dinamico degli elementi. Viene pure apprestata una critica alle posizioni che confondono il piano del diritto con quello della moralità in senso stretto; alla dottrina dell’emendamento, in realtà, viene mossa una critica di natura tecnico-qualificatoria, incentrata più che altro sul fatto che l’emendamento è una delle condizioni e non già lo scopo fondamentale, la ragione giustificatrice della pena. La dottrina della retribuzione giuridica, comunque, si propone di contrapporre un’azione di restrizione alla sfera di attività giuridica dell’individuo quando questi abbia violato l’ordo iuris, e in ciò risulterebbe ancora attuale, dai tempi del Pessina alla logica penalistica contemporanea.

Al di là delle considerazioni ontologiche, eziologiche e finalistiche sulla penalità, nello scritto qui esaminato si riprendono e si propongono i fondamenti della lezione beccariana sui delitti e sulle pene, sulla proporzionalità del rapporto logico-consequenziale ed effettuale tra i delitti e le pene, oltre che sulla necessità di umanizzazione di queste ultime. La lezione del Beccaria, in realtà, risulta onnipresente nella gnoseologia scientifico-dommatica e filosofica del Pessina, giacché gli “Elementi di diritto penale” sono cosparsi di citazioni dell’anzidetto maestro del passato.

Lo scopo della pena è quello di annientare il delitto (e non il soggetto autore dell’azione delittuosa), se si appresta a configurare la pena sotto forma di dolore e di male per la individualità che vi soggiace.

Come la negazione del diritto, e quindi il delitto, può essere varia a seconda della prescrizione giuridica violata, “e varia per qualità e per quantità, cioè secondo l’importanza del rapporto giuridico che è conculcato, e secondo la gravezza specifica della violazione di quel rapporto, determinata dalle sue condizioni come fatto concreto e particolare”, è equo e logico che i delitti medesimi siano puniti secondo proporzionalità da parte dello Stato. L’esistenza e l’operatività di quest’ultimo, a fronte dei princìpi anzidetti, garantisce la legittimità dell’azione repressiva contrapposta al contegno negatorio del diritto, e fuga i rischi di una retrograda vendetta di sangue. Tala vendetta, per il Pessina, è la negazione della pena, e toglie all’azione punitiva, che essa pure persegue, quel carattere di imparzialità che deve accompagnare l’epifania operativa della giustizia punitrice. Tuttavia, costituirebbe “un errore il fare dello Stato lo scopo ultimo e fondamentale della punizione, ma la punizione che è voluta dal Diritto debba avere per ministro l’organo stesso del Diritto nella vita sociale” [13]. Questa visione statualistica non risulta totalizzante, poiché non assorbe in modo fagocitante e repressivo le esigenze della persona (che precede e fonda, cronologicamente ed assiologicamente, lo Stato), sia come singola che nelle formazioni associative collettive, oltre che nell’aggregato massimo dei consociati tutti. Risulta ben presente, nell’ermeneutica e nella concettualistica gius-penalistica del Pessina, precedente al codice Zanardelli, l’importanza della dimensione della legalità, dato che la risposta punitiva statuale deve essere esercitata secondo norme direttrici identificate nella legge.

Indicativi risultano, quindi, i princìpi incontrovertibili che formano il nucleo della scienza del diritto penale secondo l’Autore qui in esame, nel suo pensiero appunto precedente l’intervento nel panorama giuridico italiano del codice Zanardelli dell’89: tali princìpi sono sintetizzati nell’ultimissima parte dei “Prolegomeni”, ove il Pessina ha riassunto i fondamenti del suo pensiero in tema di diritto e punibilità, in soli sei punti.

1° Sono da incriminare e tutte e sole le manifestazioni dell’attività libera dell’uomo che infrangono i dettati del Diritto.

2° La pena per riaffermare il Diritto negato dee far soffrire alcun dolore al delinquente, proporzionato alla quantità e qualità del suo delitto, ed estirpare in lui per quanto è possibile le radici del delinquere.

3° L’organo della giustizia punitrice è lo Stato, non l’individuo.

4° La legge debbe essere la norma direttrice della potestà civile nella punizione dei delinquenti.

5° Niun individuo può soggiacere a pena se non dietro irrevocabile giudicato che mostri esser convincimento della coscienza sociale la reità di lui.

6° Nella esecuzione dei giudicati penali sta il compimento della giustizia punitrice, salvo i casi, prevedibili dalla legge stessa, in cui non si debba proseguire il reato o punirne l’autore.[14]

Dal punto primo (“Sono da incriminare e tutte e sole”) può ricavarsi quello che odiernamente è il principio di frammentarietà del diritto penale, che, con l’avvento del pensiero liberaldemocratico, a rigore, tende a diventare sempre più diritto penale minimo, già extrema ratio del sistema ordinamentale giuridico. Tuttavia, dalla formula espositiva del pensiero pessiniano occorre notare la peculiare dicitura “e tutte”, la quale può essere salutata come un necessario riferimento al principio di obbligatorietà dell’azione penale. Il riferimento ai “dettati del Diritto” risulta indice del principio di giuridicità in senso prescrittivo dell’ordinamento statuale, principio anticamera del principio - più specifico - di legalità nel suo versante formale di riserva di legge, oggi dominante perno ermeneutico nell’economia della Carta costituzionale italiana del 1948, all’articolo 25, cpv., oltre che ai sensi dell’articolo 1 (e dell’articolo 199) del codice penale Rocco, entrato in vigore il 1 luglio 1931, attualmente ancora vigente, malgrado le tante necessarie azioni riformatrici dei diversi legislatori nel tempo. Il verbo “infrangere”, utilizzato per qualificare il rapporto antinomico tra il contegno del soggetto agente e il parametro giuridico prescrittivo, indicativamente, denota l’in-sé del reato, ossia l’antigiuridicità, dalla teoria del reato c.d. tripartita ricostruita finzionisticamente quale elemento strutturale, e non quale dimensione ontologica propria della qualificabilità di un fatto storico in termini di reità. Il verbo anzidetto, poi, può pure essere indice dell’ammissibilità di un concetto di causalità in senso tecnico, nutrita e corroborata da leggi di copertura di tipo strettamente giuridico, ma ciò per i reati cc.dd. tecnici contemplanti la violazione di parametri normativi specifici. Costituiscono il presupposto della punibilità, poi, soltanto le manifestazioni libere dell’attività dell’uomo. Le attività devono essere manifestate, e ciò conferma il processo genetico dell’ermeneutica penalistica della materialità quale corollario dell’offensività. Le manifestazioni fondanti il contegno umano specifico devono essere libere: ci si deve quindi trovare al di fuori del contesto specifico del c.d. autore mediato, e si deve essere, anzitutto, coscienti, capaci di intendere e di volere. L’attributo (“libera”) che il Pessina ha utilizzato per dimensionare l’attività dell’uomo, resta qui, nei “Prolegomeni”, genericamente onnicomprensivo, e verrà di seguito sviscerato nel corso della sua autorevole trattazione, circa l’imputabilità in senso psicologico del soggetto agente. Piccolo appunto ulteriore potrebbe essere quello della punibilità limitata all’essere umano: nella storia delle organizzazioni giudiziarie, invero, si sono celebrati processi contro animali, ma in tempi molto risalenti.  

Dal secondo punto dei princìpi penali riassunti dal Pessina, poi, si evince il principio di proporzionalità delle pene a fronte della qualità e quantità delle azioni punite a titolo di reato dal sistema giuridico. In ciò si persegue il presupposto per l’umanizzazione delle pene. Viene confermata la piccola (o grande) rivoluzione copernicana della punibilità, giacché è la mente il centro dell’economia volitiva e attiva dell’essere umano, e dalla mente dipendono gli arti utilizzati per commettere le azioni criminose, arti che in concezioni più arcaiche e più grette del sistema sanzionatorio, in realtà, costituivano l’oggetto immediato della retribuzione, in risposta al torto subito dall’offeso, divenuto torto sociale attraverso lo schermo dell’organizzazione proto-giudiziaria. La teleologia funzionalistica della pena, ente di ragione consequenziale al reato, risulta già nell’Ottocento dispiegata verso orizzonti progressisti: estirpare nel delinquente le radici del delinquere, e non la personalità stessa - ex se considerata - del delinquente; tale concetto viene posto a fondamento della rieducazione stessa del reo, nel percorso di coscienza che dovrebbe condurre il suo io alla conformazione ai valori forti condivisi in un dato periodo storico dalla maggior parte dei suoi consociati, per quanto concerne i delitti più tecnici, ed anche ai valori naturali di conservazione e divieto di lesione del prossimo, in tema di delitti cc.dd. naturali.

Il terzo punto afferma l’esigenza che a far giustizia sia un’organizzazione, nell’interesse anche del singolo individuo offeso, e non l’individuo stesso, o la sua famiglia, o il suo clan, o il suo partito.

Il quarto punto, invece, si occupa di rintracciare nella “legge”, specificamente, il presupposto legittimante il potere di perseguire il contegno criminoso, da un lato, nonché di rintracciare le modalità attraverso le quali si celebra il meccanismo della giustizia penale, quindi le procedure, dall’altro lato. Finalmente, tra i principi fondamentali del diritto penale, compare il frutto delle riflessioni giuspositivistiche, la legalità, che è qualcosa di più della mera giuridicità o della vincolatività o cogenza, date le conquiste storiche da parte del movimento liberaldemocratico circa lo specifico strumento, la legge, prodotto della sovranità rappresentativa nei Parlamenti moderni.

Niun individuo può soggiacere a pena se non dietro irrevocabile giudicato che mostri esser convincimento della coscienza sociale la reità di lui, poi, rintraccia gius-causalisticamente il percorso della punitività: dal giudizio irrevocabile al soggiacimento alla pena da parte dell’individuo, accertato colpevole e tecnicamente condannato. Lascerebbe perplessi, però, il riferimento ad un eventuale (precedente) rapporto causalistico, ossia quello del percorso logico dal convincimento della generale e generica coscienza sociale all’atto giuridico specifico del provvedimento irrevocabile, che statuisce nel singolo caso l’assoluzione o la condanna dell’imputato. Una perplessità che, prima facie, e con gli occhi dell’odierna consapevolezza storica, verrebbe giustificata dall’abitudine ad aver letto sui codici dei sistemi totalitaristici - di destra e di sinistra - i vaghi e indeterministici, arbitrari riferimenti al sano sentimento del popolo, o alla coscienza di classe; tali parametri normativi verranno invero adottati nei regimi che il Pessina, morto nel 1916, non arriverà mai a vedere. In realtà, e a rigore, il riferimento al convincimento della coscienza sociale sarebbe da salutare, nel 1882, quale fortificazione dell’idea per cui la giustizia è amministrata in nome del popolo della Nazione patria (secondo il patriottismo indipendentista e ‘illuminato’, e non secondo quello dispotico del Novecento). Verso la fine dell’Ottocento, il pensiero liberale era spesso accompagnato dal pensiero liberista, ancora dominante, e ciò aveva delle ricadute anche sulla considerazione del sistema-giustizia nel suo complesso: il riferimento alla coscienza sociale costituiva, così, il frutto di un labor limae filosofico vocato alla eliminazione della individualistica concezione secondo cui la giustizia penale sarebbe un congegno di mera retribuzione punitiva, in nome soltanto della parte offesa, sul modello del processo civile. Si ricordi, tra l’altro, che l’uomo dell’Ottocento era giovane nel suo esistere in quanto essere privato, libero nel suo laissez-faire, svincolato dall’eccesso di sudditanza tipico dell’avantieri assolutistico, e non ancora pervenuto alle dottrine economiche keynesiane.

Come il “Diritto” è funzionalizzato, nell’economia assiologica generale del Pessina, al compimento della destinazione dell’uomo (e qui si può già avvertire la conquista filosofica dell’essere umano quale valore in sé, figlia di un orientamento antropocentrico di matrice laicistica e personologica, novecentesca), così nel momento esecutivo dei giudicati penali si realizza il compimento, pratico ed effettivo, della giustizia punitrice. Dal versante della ragion pura si passa all’alveo procedimentalistico della ragion pratica, ed empirica, dalla cui conformazione e dal cui grado di rispondenza ai valori astratti ordinamentali, in verità, dipende il grado di satisfattorietà dell’interesse del soggetto leso, e della società tutta, alla garanzia di sicurezza e di pace sociale.

Data la non ancora avvenuta maturazione, nell’Ottocento, del pensiero logico-positivistico, o neopositivistico in senso empirico e verificazionistico, che troverà la propria matrice storica in seno al circolo di Vienna, nel corso della prima metà del secolo XX, al pensiero filosofico-giuridico del Pessina è stata attribuita una coloritura di più o meno consapevole consequenzialismo gnoseologico rispetto alle concezioni proprie dei “giusnaturalismi” [15]. A condurre una siffatta critica, in verità, non è stata un’opera fuori dalle righe, di nicchia, ma la Relazione al Re del Guardasigilli Alfredo Rocco, il quale ha dato ‘il nome’ al vigente codice penale italiano, in un’epoca storica dominata da politiche fortemente improntate all’autoritarismo, o se si preferisce, al “totalitarismo zoppo[16].

Nella Relazione de qua, infatti, si legge quanto segue:

La filosofia giuridica penale, che ispira la nuova opera legislativa, non è che una derivazione della filosofia giuridica generale del Fascismo. Filosofia, in verità, ben diversa da quella che fu propria degli enciclopedisti francesi a cui si ispirarono la rivoluzione del 1789, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, i codici penali del 1791 e del 3 brumaio anno IV e la stessa codificazione legislativa penale del primo Napoleone, che fu il modello a cui si attennero, per più di un secolo, tutte le altre successive legislazioni che dominarono all’estero e in Italia, non escluso il codice penale del 1889. I caratteri che distinguono l’una dall’altra filosofia sono principalmente in ciò che l’una è esclusivamente individualista, l’altra essenzialmente sociale e collettiva o statuale, in quanto che, pur evitando gli eccessi della statolatria, pur tutelando nei confronti dello Stato l’interesse alla libertà individuale, tuttavia subordina tale interesse all’interesse supremo dell’esistenza dello Stato e impedisce che la libertà degli individui trascenda in licenza od arbitrio. Secondo la concezione filosofica individualista che fu propria dell’illuminismo francese, il diritto di punire, nelle mani dello Stato, si concepiva come un derivato di un diritto naturale dell’individuo, trasmesso allo Stato mediante alienazione o cessione fattane nel così detto contratto sociale o contratto costitutivo della società e dello Stato o nel pactum subjectionis che ne derivava. Ritenevano taluni, tra cui il Filangieri, che codesto naturale diritto dell’individuo, allo Stato ceduto, fosse il naturale diritto di difesa o di vendetta individuale contro le offese minacciate o avvenute, il che portava a concepire il diritto statuale di punire come un diritto di vendetta collettiva o sociale o pubblica. Ritenevano altri, tra cui il Beccaria, che il diritto di punire dello Stato altro non fosse che un derivato del naturale diritto di libertà del cittadino e più precisamente come un deposito in comune delle minime porzioni di libertà naturale degli individui rinunziate per costituire appunto la Sovranità, come somma dei poteri dello Stato, ivi compreso il potere di punire. A tali concezioni ultra-individualistiche del diritto di punire che costituiscono assai più la negazione che l’affermazione del suddetto potere riguardato come una graziosa concessione fatta dagli individui allo Stato, per sé sempre mutabile e revocabile, e avente a proprio limite la barriera insuperabile del diritto di libertà dell’individuo, almeno nella parte non rinunciata, si contrappone tenacemente e logicamente la filosofia giuridica penale del Fascismo. Secondo tale concezione filosofica, il diritto di punire dello Stato non è un derivato di un diritto naturale dell’individuo come ritennero i giusnaturalismi, le cui concezioni più o meno avvertitamente dominano altresì l’opera di alcuni sommi nostri criminalisti, quali il Carrara e il Pessina. Il diritto di punire è, invece, secondo la concezione fascista (che in ciò si ricollega alla tradizione propria del Romagnosi e del Carmignani, ripresa, se pur talvolta con evidenti esagerazioni, dalla scuola criminale antropologica), null’altro che un diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo, analogo ma sostanzialmente diverso dal diritto di difesa dell’individuo e avente lo scopo di assicurare e garantire le condizioni fondamentali e indispensabili della vita in comune.[17]

Il pensiero fascista, che il Pessina non arriverà cronologicamente a vivere e ad analizzare, invero, ha tentato di falsificare, assiologicamente ed anzi proprio ideologicamente, lo stato dell’arte della scienza penale ottocentesca, dagli orientamenti criminologici e filosofico-penalistici in senso stretto del Pessina, alle più antiche rivoluzioni normative, dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, al codice penale francese del 1791, e via discorrendo. 

Enrico Pessina, invece, risultava illuminato nel suo pensiero dalle tappe che faticosamente aveva percorso il principio di legalità in senso garantistico, ancor per nulla sostanzializzato, in realtà, nell’economia strutturale delle fattispecie astratte delle prescrizioni normative incriminatrici del suo tempo; ciò, ovviamente, se si utilizzano gli occhiali del giurista contemporaneo italiano, così solerte nell’analisi del rispetto del principio legalistico nei suoi ulteriori versanti e contenuti, dopo l’entrata in vigore dell’articolo 7 CEDU nell’ordinamento interno, con la L. cost. n. 3/2001 che ha modificato il comma primo dell’articolo 117 della Costituzione del 1948.

In tema di punitività, a rigore, l’indagine logica edifica inferenziali ponti con le concezioni della libertà personale. Tutto il costrutto culturale che secoli e secoli di storia hanno prodotto, circa la liceità dell’intervento statuale teleologicamente orientato al ristabilimento della pace sociale, attraverso lo strumento dell’ars boni et aequi, passa per le disposizioni miliari di diverse Carte di diritti che il Professore Pessina ben conosceva, nel loro valore gnoseologico e nel loro significato antropologico-evolutivo.

Si pensi, ad esempio, al paragrafo 39 della Magna Carta Libertatum del 1215, la quale sanciva che “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno”.

Il riferimento al giudizio legale e alla legge del regno, così, rappresenta il presupposto per l’avvio, nel pensiero giuridico, della connessione tra la legalità e le garanzie di libertà: la legalità non più soltanto come impositiva e realizzativa dei fini meramente pubblicistici, ove la sfera patrimoniale e personologica dell’individuo è spesso soggetta a rarefazione e, conseguentemente, al costante rischio dell’arbitrio, bensì come garantista, anzitutto dal punto di vista della certezza del diritto, bene della vita nel cui entroterra logico, e pratico, trovano il proprio momento genetico tutte le altre tutele del suddito che tende a voler essere sempre più cittadino. Sono da incriminare e tutte e sole le manifestazioni dell’attività libera dell’uomo che infrangono i dettati del Diritto, aveva scritto il Pessina al primo punto della sua sintesi dei princìpi penalistici fondamentali, vero e proprio manifesto programmatico per ogni legislatore illuminato, vocato al progresso della civiltà attraverso l’affinamento e l’approfondimento dei diritti. Il 1889, e quindi il codice Zanardelli, infatti, era quasi prossimo all’anno di pubblicazione dei “Prolegomeni” degli “Elementi” pessiniani, il 1882.

I riferimento al diritto, alla giustizia penale, ai valori sottesi al tecnicismo, poi, sono rinvenibili in seno alle antiche Carte dei diritti, e li ritroviamo pure nella filosofia dell’Autore su cui qui si riflette, in fondo figlio e finissimo continuatore della tradizione garante delle libertà.

“A nessuno venderemo, negheremo, differiremo o rifiuteremo il diritto o la giustizia”, disponeva il paragrafo 40 dell’anzidetta Carta del 1215. Proprio come il Pessina, sempre nel punto primo dei suoi princìpi, affermava che sono da incriminare “tutte” le manifestazioni criminose previste: se non fossero incriminate tutte, a qualcuno sarebbe venduto, negato, differito o rifiutato il diritto o la giustizia. La storia tante volte ha conosciuto, e talvolta ancora conosce, deroghe (talvolta tecniche, talvolta non) all’applicazione della sfera penale, punitiva, a beneficio di alcune categorie, anzitutto istituzionali, protette dal sistema. Infatti, malgrado “Nella esecuzione dei giudicati penali sta il compimento della giustizia punitrice”, l’Autore medesimo prende cognizione e afferma l’esistenza di deroghe al principio generale secondo cui la legge è uguale per tutti(“salvo i casi, prevedibili dalla legge stessa, in cui non si debba proseguire il reato o punirne l’autore”).

Nel pensiero pessiniano, al contrario di quelli che saranno gli intenti totalizzanti del regime fascista attraverso la codificazione del ’30, è sempre ravvisabile il lume epistemologico della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, del 26 agosto 1789. In particolare, in tema di fondamento della punibilità e, simmetricamente in tema di fondamento e limiti del principio di libertà, di habeas corpus all’insegna della certezza legalistica, si pensi all’articolo 4 della Dichiarazione appena menzionata, che ha sancito che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che dalla legge”. Si pensi pure al successivo articolo, il quale ha disposto che “La legge ha il diritto di proibire solo le azioni nocive alla Società. Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina” (articolo 5). E ancora, sul sentiero logico del paragrafo 39 della Magna Carta Libertatum, nonché in sintonia con lo spirito del primo dei princìpi enucleati dal Pessina, si ponga attenzione al disposto dell’articolo 7 della Dichiarazione del 1789, il quale ribadisce in senso forte il valore della libertà personale della persona, disponendo che “Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che sollecitano, spediscono, eseguono o fanno eseguire ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto in virtù della legge deve obbedire all’istante; opponendo resistenza si rende colpevole”[18].

L’articolo 8 della Dichiarazione dell’agosto del 1789, invece, apre le porte al principio di necessità (o stretta necessità) della pena quale risposta sanzionatoria legale, consequenziale all’infrazione di specifiche prescrizioni dell’ordinamento giuridico. E dall’affermazione del principio di necessità al riconoscimento del principio di frammentarietà del sistema penale, sul piano logico, il passaggio è breve. L’articolo 8, infatti, sancisce che “La legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata”. L’avverbio “strettamente” qualifica il carattere di necessità della pena in senso forte, mentre l’avverbio “evidentemente” canalizza la sfera della necessità suddetta verso la dimensione dell’empiricità, o se si vuole, (già) del verificazionismo proprio del neopositivismo giuridico, o positivismo logico, del novecentesco circolo viennese. Se la pena è funzionale al raggiungimento dei suoi scopi, retributivo-punitivi e rieducativi (nel pensiero del Pessina), deve essere la realtà a dimostrarlo, non la aprioristica ideologia della vendetta pubblica o dell’oltranzismo giustizialistico. L’articolo da ultimo citato, poi, nella sua seconda parte, afferma il principio di irretroattività.

Dallo Stato forte e risolutore propugnato nel seicentesco “Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil” di Thomas Hobbes, allo Stato dell’io generale rousseauiano, generatore del male dell’ineguaglianza tra gli uomini a fronte della giuridicizzazione del “questo è mio” dell’antico uomo in preda alle passioni, allo Stato engelo-marxiano quale mero strumento sovrastrutturale destinato ad estinguersi (Aufhebung des Staates) per la sua paventata inutilità nel momento edenico (secondo la filosofia de qua) del comunismo evoluto, al pensiero filosofico-giuridico “non utopistico” del Pessina, sulla necessità della efficacia esecutiva di uno Stato che assicuri la realizzazione della dimensione sociale dell’essere umano, e non soltanto quella individuale. Il pensiero sociale pessiniano, si noti, è stato sì contemporaneo alle correnti socialiste di matrice storico-materialistica, ma non ne ha scientificamente risentito, poiché si è manifestato in senso progressista dal punto di vista liberale, figlio e continuatore della parte primogenita e illuminata della Rivoluzione francese: lo Stato non tende ad assorbire totalitariamente le libertà della persona in nome della ricerca di una giustizia ideologica, nel pensiero dell’Autore in questione, ma è anzi il mezzo che si fa garante dell’imparzialità tra i consociati, nel momento applicativo della pena; e non (soltanto) in nome del prestigio e del potere statuale, bensì, soprattutto, in nome del retto vivere e del benessere degli individui. Partendo da questo assunto valoristico, così, si può leggere compiutamente il senso del terzo punto del manifesto pessiniano dei princìpi penalistici dell’82: L’organo della giustizia punitrice è lo Stato, non l’individuo.

L’entroterra storico-assiologico di ispirazione, a rigore, non può che essere la norma dispositiva dell’articolo 12 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, la quale ha sancito che “La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica, questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata”.

Così, il motto del Congresso viennese, “conservare progredendo”, al di là delle interpretazioni più equilibrate e dinamiche che si possono intorno ad esso dispiegare, non riesce più ad essere al passo con le esigenze garantistico-penalistiche del tempo del Pessina, volto già a sondare effettualmente le spesso improduttive conseguenze della repressione punitiva fine a se stessa, e teso sulle ardue frontiere - ancora attualissime nel secolo XXI - della umanizzazione della pena ai fini rieducativi e risocializzanti. 

 

[1] Cfr. M. R. DI SIMONE, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’antico regime al fascismo, Torino 2007, 145 ss.; P. ALVAZZI DEL FRATE, Giustizia e garanzie giurisdizionali. Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari, Torino, Giappichelli, 2001, 67.

[2] P. ALVAZZI DEL FRATE, ibidem.

[3] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, vol. I, Napoli, Riccardo Marghieri di Gius., 1882, 5.

[4] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 20.

[5] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 17.

[6] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 10.

[7] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 25.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 37-38.

[11] Cfr.E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 38, ove l’Autore afferma, in particolare, che “E come il Diritto chiude in sé le condizioni dello adempimento dell’umana destinazione, le quali dipendono dalla umana libertà, così e converso la negazione del Diritto, cioè il delitto, inchiude la manifestazione della libertà umana in qualche fatto che rende impossibile per il caso speciale l’adempimento di alcuna di quelle condizioni”. Si pensi, invece, a quanto scriverà il Kelsen a proposito della negazione anzidetta: “La norma che ordina il comportamento che evita la sanzione può valere quindi soltanto come norma giuridica secondaria. In relazione al fatto ordinato da questa come dovuto, in relazione cioè alla condotta che evita la coazione e che costituisce il fine dell’ordinamento giuridico, l’illecito, che costituisce la condizione dell’atto coattivo, rappresenta indubbiamente qualcosa come una negazione, come una specie di contraddizione [appunto, come una negazione, ma non una negazione in senso logico, n.d.a.]. Ma il fatto illecito, in relazione con la norma secondaria che comanda il contrario non si trova in contraddizione logica. Una simile contraddizione può verificarsi soltanto fra due proposizioni di dover essere o fra due proposizioni di essere, non mai fra una proposizione che esprime un dover essere e una proposizione che esprime un essere. […] La infrazione della norma appartiene a una categoria completamente diversa da quella della contraddizione logica. L’opposizione in cui entra un fatto con una norma che comanda il contrario non può essere qualificata come una antitesi logica, ma piuttosto come una antitesi teleologica, sempre che il telos sia quivi presupposto come fine oggettivo. Evidentemente i tradizionali concetti di giuridicità e antigiuridicità, di comportamenti contrastanti e corrispondenti al diritto, si riferiscono alla norma secondaria come espressione del fine del diritto. Ci si può servire di questi concetti alla condizione che col primo si pensi al comportamento che condiziona l’atto coattivo e che col secondo si pensi al comportamento che evita tale atto” (H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, 1934, trad. di R. Treves col titolo “Lineamenti di dottrina pura del diritto”, ristampa del 2015, Torino, Einaudi, 70-71). Il perno di scarto tra la dottrina post-giusnaturalistica e la dottrina pura del diritto quale teoria del positivismo giuridico, nell’entroterra metodologico kelseniano, risulta essere focalizzato nell’ermeneutica del rigore analitico, operante in seno alla struttura – inferenzialmente predeterminata – della astratta fattispecie legale.   

[12] Cfr. H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, 1934, trad. di R. Treves col titolo “Lineamenti di dottrina pura del diritto”, ristampa del 2015, Torino, Einaudi, ove Kelsen sosteneva che “Il concetto di illecito subisce un essenziale cambiamento di significato quando venga considerato dal punto di vista immanente in cui si pone la dottrina pura del diritto. L’intenzione del legislatore, la circostanza che un fatto non sia gradito all’autorità legislativa, che sia antisociale come imprecisamente si suol dire (si potrebbe infatti soltanto dire che è ritenuto tale dal legislatore), non costituiscono elementi essenziali per la determinazione del concetto di illecito. Essenziale è esclusivamente e soltanto la posizione del fatto in questione in seno alla proposizione giuridica: che questo sia condizione per la specifica reazione del diritto, per l’atto di coazione (che è atto dello stato). Illecito è quel determinato comportamento dell’uomo, che nella proposizione giuridica viene posto come la condizione, per cui si rivolge contro di esso l’atto coattivo posto nella proposizione stessa come conseguenza. […] Con questa specie di trattazione, l’illecito, da negazione del diritto, come appare da un punto di vista politico-giuridico, diventa una condizione specifica del diritto e, soltanto così, un oggetto possibile della conoscenza giuridica. Questa può concepire anche l’illecito soltanto come diritto. Il concetto di illecito rinuncia alla sua posizione extrasistematica in cui lo può mantenere soltanto una ingenua giurisprudenza prescientifica e assume una posizione intrasistematica. […] La dottrina pura del diritto respinge la concezione per cui l’uomo, con l’illecito, verrebbe a infrangere o a violare il diritto. Essa dimostra che il diritto non può essere infranto o violato dall’illecito perché è anzi soltanto a mezzo suo che il diritto raggiunge la propria essenziale funzione [n.d.a.: Ciò in un’ottica in cui il sistema giuridico, penale, in particolare, sia funzionalmente strutturato in una serie di enunciati che vietino una serie tassativa di contegni antropici, secondo il detto, successivo all’Ancien Régime, “è concesso tutto ciò che non è specificamente vietato”]. L’illecito non significa, come lascia supporre la concezione tradizionale, un’interruzione nella esistenza del diritto, ma proprio l’opposto; in questo fatto si conferma l’esistenza del diritto che consiste nella sua validità, nella doverosità dell’atto coattivo come conseguenza dell’illecito giuridico. Anche in questo punto, la dottrina pura del diritto è in opposizione con la teoria giuridica del nostro tempo che, in strettissima connessione con la sua inclinazione verso la dottrina del diritto naturale, vorrebbe rinunciare al momento della coazione come criterio empirico del diritto, dato che ritiene di poter ritrovare questo criterio nel suo intimo contenuto, nella sua concordanza con una certa idea del diritto” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 66-68). Si pensi, d’altronde, come Kelsen abbia concepito in generale il diritto: “Il diritto non è caratterizzato come un fine, bensì come un mezzo specifico” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 71).

[13] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 40.

[14] E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 41.

[15] A modesto parer di chi scrive, da un punto di vista tecnico-analitico, nel pensiero del Pessina possono essere rilevati elementi non tanto trascendenti quanto gnoseologicamente trascendentali, in senso kantiano, riconducibili all’entroterra dottrinale post-giusnaturalistico. Si pensi, ad esempio, al passo in cui l’A. sostiene che “La violazione o negazione del Diritto necessita la riaffermazione di esso. La quale importa che la forza del Diritto vinca l’attività individuale, la soggioghi, la sottoponga a sé medesima” (E. PESSINA, Elementi di diritto penale, cit., 38, inizio del § 3). Si pensi, invece, a quanto affermerà il Kelsen, il quale osserverà che “Come la legge naturale connette un determinato fatto come causa a un altro come effetto, così la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto (cioè con la così detta conseguenza dell’illecito). Nell’un caso la forma della connessione dei fatti è la causalità, nell’altro è l’imputazione in cui la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto. […] Il rapporto tra la pena e il delitto, tra l’esecuzione e l’illecito civile non ha un significato causale, ma bensì un significato normativo. […] così come la necessità (das Müssen) è l’espressione della legge di causalità” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., 63-64). La necessità, quindi, è un attributo ontologico dell’esperienza causalistica in seno alle fenomeniche naturali, e il verbo “necessitare” utilizzato dal Pessina nel passo da ultimo citato nella presente nota, invero, riporta in una dimensione post-giusnaturalistica l’enunciato della trattazione dell’autorevole penalista italiano, poiché, in ragione della lesione, o comunque della violazione dell’ordo iuris incardinante la stessa naturalis ratio, risulterebbe simmetricamente necessaria la riaffermazione, appunto, di quel “Diritto” con l’iniziale maiuscola. Un siffatto giusnaturalismo radicale, come noto, non può essere attribuito, in senso proprio e caratterizzante, al pensiero pessiniano sui fondamenti della legalità e, prima ancora, della giuridicità.

[16] S. MERLINI, Il governo costituzionale, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma, 1995, 42.

[17] Tratto dalla Relazione al Re del Guardasigilli On. Alfredo Rocco.

[18] Si ricordi, tra l’altro, che anche l’art. 26 dello Statuto del Regno di Sardegna, emanato da Carlo Alberto nel 1848 (periodo molto più vicino allo scritto del Pessina preso come riferimento critico nel presente lavoro), prescriveva che “La libertà individuale è guarentita.

Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive”.