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Quando le anatre attaccano…: inquadramento giuridico del mobbing

Quando le anatre attaccano…: inquadramento giuridico del mobbing
Quando le anatre attaccano…: inquadramento giuridico del mobbing

Sommario: 1. Origine e significato del termine  2. La nozione giurisprudenziale di mobbing  3. Le tutele giuridiche

1. Possiamo dirci certi  che durante i suoi studi sul comportamento delle anatre selvatiche  Konrad Lorenz, noto zoologo austriaco e padre dell’etologia  moderna, non pensasse esattamente alle aule di tribunale. Possiamo dirci altrettanto certi che nelle aule di tribunale gli studi di etologia non godano di eccessiva considerazione. Eppure un nesso c’è e si chiama mobbing. Tale termine, di cui si fa uso e ancor più spesso abuso, è da tempo entrato nel linguaggio comune. Deriva dall’inglese to mob (‹‹affollarsi››, ‹‹attaccare››, ‹‹assalire in massa››,) e venne utilizzato per la prima volta proprio per definire la reazione di attacco collettivo di un gruppo di uccelli selvatici nei confronti di un singolo considerato più forte e percepito come  potenziale nemico.

Attualmente questa parola è utilizzata per indicare una pratica vessatoria e persecutoria (a volte sconfinante in una vera e propria forma di terrore psicologico) posta in essere dal datore di lavoro o dai colleghi, nei confronti di un lavoratore, col fine di emarginarlo e di costringerlo ad abbandonare l’ambiente di lavoro.

A differenza di altri paesi Europei, in Italia non esiste una specifica disciplina giuridica del mobbing, tantomeno una sua definizione legislativa. Paesi come la Svezia (Swedishact del 1993), il Regno Unito (Protection from Harassment Act del 1997) e la Francia (Legge 73 del 17 gennaio 2002 contenente la sezione Lutte contre le harcèlemen tau travail) si sono legislativamente armati già da tempo per contrastare questo fenomeno così complesso che, seppur di difficile rilevazione, può ritenersi apprezzabilmente diffuso all’interno dei confini europei (secondo l’indagine condotta da Eurofound nel 2012 sulle condizioni di lavoro in Europa, il 14% dei lavoratori europei sarebbe stato vittima di vessazioni sul posto di lavoro nei 12 mesi antecedenti la rilevazione).

2. In assenza di una disciplina ad hoc  è stata la giurisprudenza, attingendo dalla psicologia del lavoro, ad elaborare una nozione di mobbing e a riconoscergli così il diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

A riguardo risulta preziosa e illuminante la recente sentenza n. 2920 del 15 febbraio 2016 nella quale la Corte di Cassazione, nel respingere un ricorso proposto da una dipendente della Casa Circondariale di Nuoro nei confronti del Ministero della Giustizia, avente ad oggetto proprio una richiesta di risarcimento danni da mobbing, ne ricostruisce la nozione così com’è andata sviluppandosi nella giurisprudenza di legittimità. La Suprema Corte, non potendo per sua natura fare esercizio di modestia, si autocita (sentenza n. 17698 del 06/08/2014) per individuare gli elementi che devono ricorrere ai fini della configurabilità del mobbing, ed essi sono: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti (se singolarmente considerati), posti in essere in maniera sistematica, a lungo nel tempo e con intento vessatorio,direttamente dal datore di lavoro o da un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo di quest’ultimi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le suddette condotte e il pregiudizio subito dalla vittima; d) un intento persecutorio unificante di tutti i singoli comportamenti lesivi. Ne consegue che, affidandoci alle chiarissime parole della Corte, ‹‹ il fenomeno del mobbing, per assumere rilevanza giuridica, implica l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima ››.

È evidente che l’onere della prova risulta particolarmente gravoso per il lavoratore, il quale non solo dovrà dimostrare l’esistenza di un animus nocendi nei propri confronti e con le caratteristiche suindicate, ma dovrà anche provare lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito. Proprio tale ultima prova sembra essere la più difficile e delicata da fornire e ciò nonostante siano diverse le tipologie di danno associabili al mobbing: si va dal danno morale, al danno patrimoniale (ad es. mancato guadagno conseguente ad eventuali dimissioni) sino a giungere al danno biologico (ormai posto a carico dell’INAIL in quanto equiparato al danno biologico di cui all’art. 13 del Decreto Legislativo 38/2000). Come fatto presente da Dina Guglielmi, docente di Psicologia del lavoro presso l’Università di Bologna [Mobbing. Quando il lavoro ci fa soffrire, Il Mulino, Bologna, 2015], per dimostrare in termini giuridici il nesso di causa-effetto non è sufficiente documentare la consequenzialità tra comportamento ed evento, ma è necessario che l’evento costituisca con regolarità statistica una normale conseguenza del comportamento. Nel caso del mobbing, secondo la Guglielmi, questa consequenzialità tra condotta ed evento dannosorisulterebbe di difficile dimostrazione dato che si è in presenza di un fenomeno multideterminato da fattori di varia natura (personalità dei soggetti coinvolti, processi di gruppo, caratteristiche organizzative…).

3. Ad ogni modo, se è vero che la giurisprudenza ha tentato di supplire all’assenza di una disciplina specifica in materia di mobbing, è altrettanto vero che il nostro ordinamento non è sprovvisto di anticorpi in grado di contrastare azioni vessatorie e mortificanti perpetrate in danno del lavoratore e lesive della sua integrità psicofisica. Difatti l’ordinamento italiano tutela la salute dei cittadini (articolo 32 della Costituzione), preordina lo svolgimento dell’iniziativa economica privata al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza e della dignità umana  (articolo 41 della Costituzione), delimita e procedimentalizza l’esercizio dei poteri del datore di lavoro (Legge n. 300 del 1970), prevede la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (Decreto legislativo n. 216 del 2003),  dispone la tutela dei dati personali del lavoratore (Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196). La questione dell’inquadramento giuridico del mobbing deve quindi essere inserita all’interno di questo contesto normativo, e ciò non per occultarne la rilevanza, relegandola a questione dal valore puramente residuale, ma, al contrario, per sottolinearne l’importanza: un ordinamento come quello italiano che riconosce e tutela il lavoratore come parte debole nel rapporto di lavoro, non potrebbe che giovarsi della messa a punto di una disciplina legislativa che, anche facendo tesoro dei già citati sforzi della giurisprudenza, mettesse ulteriormente al riparo la persona del lavoratore da nuove e sempre più subdole forme di mortificazione.

Ciò detto, fra i vari strumenti normativi potenzialmente idonei ad assolvere ad una funzione di contrasto del mobbing, se ne possono individuare alcuni meglio applicabili alle peculiarità del fenomeno. E` il caso dell’art. 2087 del Codice Civile, vera architrave del sistema prevenzionistico italiano, che impone al datore di lavoro di ‹‹ adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro ››. Tale disposizione ci consente di collocare condotte che non “calzano” perfettamente la nozione giuridica di mobbing  elaborata dai giudici all’interno della fattispecie dell’inadempimento contrattuale. Ciò vale sia nel caso di c.d. mobbing discendente, cioè quando l’aggressione proviene dal datore di lavoro o da altro superiore gerarchico del lavoratore, sia nel caso di c.d. mobbing orizzontale, cioè quando l’aggressione proviene da persone che lavorano assieme alla vittima e che si trovano al suo stesso livello gerarchico all’interno dell’organizzazione di lavoro. Nel primo caso sarà il datore di lavoro a porre direttamente in essere una condotta vietata mentre, nel secondo, sarà colpevole di non aver adempiuto all’obbligo di tutela che la legge pone a suo carico.

Tuttavia è sicuramente nel Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che si rinvengono le disposizioni più interessanti ai nostri fini. Difatti il Decreto Legislativo 81/2008 impone al datore di lavoro di procedere alla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ed è evidente come il mobbing rientri a pieno titolo fra i possibili rischi di un ambiente di lavoro. In più l’articolo 28 dello stesso decreto obbliga il datore di lavoro a valutare tutti i rischi ivi compresi quelli stress-lavoro correlati, quelli riguardanti lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi a differenze di genere, età e provenienza da altri paesi. Il Legislatore ha dunque sentito l’esigenza di esplicitare, data la loro rilevanza, alcuni dei rischi oggetto di valutazione obbligatoria, svincolandoli così dalla capacità di individuazione del datore di lavoro. Fra questi particolare attenzione merita il rischio stress correlato al lavoro. L’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, ai cui contenuti il Testo Unico rimanda ai fini della sua valutazione, definisce lo stress come «una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative».

Stress e mobbing non sono perfettamente sovrapponibili ma fra i due esiste un legame molto stretto: è ampiamente dimostrato che il mobbing è responsabile, tra l’altro, di un aumento di stress nelle vittime. Non abbiamo però la stessa certezza scientifica sul fatto che lo stress costituisca causa del mobbing. Tuttavia è evidente, come sostiene Dina Guglielmi, che un ambiente lavorativo ad alti livelli di stress costituisce terreno fertile per la nascita di situazioni riconducibili al mobbing. D’altronde anche la ricerca empirica sembrerebbe confermare una maggiore presenza del fenomeno in attività caratterizzate da elevate richieste di lavoro e da bassi livelli di autonomia (entrambe condizioni ad alto rischio stress).

Dunque, seppure ancora orfano di una specifica previsione normativa, il mobbing costituisce senza dubbio uno dei rischi dell’ambiente di lavoro, più precisamente un rischio psicosociale e, come tale, è oggetto di un obbligo di valutazione che grava sul datore di lavoro e il cui mancato adempimento comporta l’applicazione delle sanzioni previste dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Pare certo, però, che per giungere dagli studi  sul comportamento degli uccelli selvatici sino a al varo di una legge ad hoc in materia di mobbing non basterà  certo un  battito d’ali.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2920/16

Sommario: 1. Origine e significato del termine  2. La nozione giurisprudenziale di mobbing  3. Le tutele giuridiche

1. Possiamo dirci certi  che durante i suoi studi sul comportamento delle anatre selvatiche  Konrad Lorenz, noto zoologo austriaco e padre dell’etologia  moderna, non pensasse esattamente alle aule di tribunale. Possiamo dirci altrettanto certi che nelle aule di tribunale gli studi di etologia non godano di eccessiva considerazione. Eppure un nesso c’è e si chiama mobbing. Tale termine, di cui si fa uso e ancor più spesso abuso, è da tempo entrato nel linguaggio comune. Deriva dall’inglese to mob (‹‹affollarsi››, ‹‹attaccare››, ‹‹assalire in massa››,) e venne utilizzato per la prima volta proprio per definire la reazione di attacco collettivo di un gruppo di uccelli selvatici nei confronti di un singolo considerato più forte e percepito come  potenziale nemico.

Attualmente questa parola è utilizzata per indicare una pratica vessatoria e persecutoria (a volte sconfinante in una vera e propria forma di terrore psicologico) posta in essere dal datore di lavoro o dai colleghi, nei confronti di un lavoratore, col fine di emarginarlo e di costringerlo ad abbandonare l’ambiente di lavoro.

A differenza di altri paesi Europei, in Italia non esiste una specifica disciplina giuridica del mobbing, tantomeno una sua definizione legislativa. Paesi come la Svezia (Swedishact del 1993), il Regno Unito (Protection from Harassment Act del 1997) e la Francia (Legge 73 del 17 gennaio 2002 contenente la sezione Lutte contre le harcèlemen tau travail) si sono legislativamente armati già da tempo per contrastare questo fenomeno così complesso che, seppur di difficile rilevazione, può ritenersi apprezzabilmente diffuso all’interno dei confini europei (secondo l’indagine condotta da Eurofound nel 2012 sulle condizioni di lavoro in Europa, il 14% dei lavoratori europei sarebbe stato vittima di vessazioni sul posto di lavoro nei 12 mesi antecedenti la rilevazione).

2. In assenza di una disciplina ad hoc  è stata la giurisprudenza, attingendo dalla psicologia del lavoro, ad elaborare una nozione di mobbing e a riconoscergli così il diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

A riguardo risulta preziosa e illuminante la recente sentenza n. 2920 del 15 febbraio 2016 nella quale la Corte di Cassazione, nel respingere un ricorso proposto da una dipendente della Casa Circondariale di Nuoro nei confronti del Ministero della Giustizia, avente ad oggetto proprio una richiesta di risarcimento danni da mobbing, ne ricostruisce la nozione così com’è andata sviluppandosi nella giurisprudenza di legittimità. La Suprema Corte, non potendo per sua natura fare esercizio di modestia, si autocita (sentenza n. 17698 del 06/08/2014) per individuare gli elementi che devono ricorrere ai fini della configurabilità del mobbing, ed essi sono: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti (se singolarmente considerati), posti in essere in maniera sistematica, a lungo nel tempo e con intento vessatorio,direttamente dal datore di lavoro o da un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo di quest’ultimi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le suddette condotte e il pregiudizio subito dalla vittima; d) un intento persecutorio unificante di tutti i singoli comportamenti lesivi. Ne consegue che, affidandoci alle chiarissime parole della Corte, ‹‹ il fenomeno del mobbing, per assumere rilevanza giuridica, implica l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima ››.

È evidente che l’onere della prova risulta particolarmente gravoso per il lavoratore, il quale non solo dovrà dimostrare l’esistenza di un animus nocendi nei propri confronti e con le caratteristiche suindicate, ma dovrà anche provare lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito. Proprio tale ultima prova sembra essere la più difficile e delicata da fornire e ciò nonostante siano diverse le tipologie di danno associabili al mobbing: si va dal danno morale, al danno patrimoniale (ad es. mancato guadagno conseguente ad eventuali dimissioni) sino a giungere al danno biologico (ormai posto a carico dell’INAIL in quanto equiparato al danno biologico di cui all’art. 13 del Decreto Legislativo 38/2000). Come fatto presente da Dina Guglielmi, docente di Psicologia del lavoro presso l’Università di Bologna [Mobbing. Quando il lavoro ci fa soffrire, Il Mulino, Bologna, 2015], per dimostrare in termini giuridici il nesso di causa-effetto non è sufficiente documentare la consequenzialità tra comportamento ed evento, ma è necessario che l’evento costituisca con regolarità statistica una normale conseguenza del comportamento. Nel caso del mobbing, secondo la Guglielmi, questa consequenzialità tra condotta ed evento dannosorisulterebbe di difficile dimostrazione dato che si è in presenza di un fenomeno multideterminato da fattori di varia natura (personalità dei soggetti coinvolti, processi di gruppo, caratteristiche organizzative…).

3. Ad ogni modo, se è vero che la giurisprudenza ha tentato di supplire all’assenza di una disciplina specifica in materia di mobbing, è altrettanto vero che il nostro ordinamento non è sprovvisto di anticorpi in grado di contrastare azioni vessatorie e mortificanti perpetrate in danno del lavoratore e lesive della sua integrità psicofisica. Difatti l’ordinamento italiano tutela la salute dei cittadini (articolo 32 della Costituzione), preordina lo svolgimento dell’iniziativa economica privata al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza e della dignità umana  (articolo 41 della Costituzione), delimita e procedimentalizza l’esercizio dei poteri del datore di lavoro (Legge n. 300 del 1970), prevede la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (Decreto legislativo n. 216 del 2003),  dispone la tutela dei dati personali del lavoratore (Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196). La questione dell’inquadramento giuridico del mobbing deve quindi essere inserita all’interno di questo contesto normativo, e ciò non per occultarne la rilevanza, relegandola a questione dal valore puramente residuale, ma, al contrario, per sottolinearne l’importanza: un ordinamento come quello italiano che riconosce e tutela il lavoratore come parte debole nel rapporto di lavoro, non potrebbe che giovarsi della messa a punto di una disciplina legislativa che, anche facendo tesoro dei già citati sforzi della giurisprudenza, mettesse ulteriormente al riparo la persona del lavoratore da nuove e sempre più subdole forme di mortificazione.

Ciò detto, fra i vari strumenti normativi potenzialmente idonei ad assolvere ad una funzione di contrasto del mobbing, se ne possono individuare alcuni meglio applicabili alle peculiarità del fenomeno. E` il caso dell’art. 2087 del Codice Civile, vera architrave del sistema prevenzionistico italiano, che impone al datore di lavoro di ‹‹ adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro ››. Tale disposizione ci consente di collocare condotte che non “calzano” perfettamente la nozione giuridica di mobbing  elaborata dai giudici all’interno della fattispecie dell’inadempimento contrattuale. Ciò vale sia nel caso di c.d. mobbing discendente, cioè quando l’aggressione proviene dal datore di lavoro o da altro superiore gerarchico del lavoratore, sia nel caso di c.d. mobbing orizzontale, cioè quando l’aggressione proviene da persone che lavorano assieme alla vittima e che si trovano al suo stesso livello gerarchico all’interno dell’organizzazione di lavoro. Nel primo caso sarà il datore di lavoro a porre direttamente in essere una condotta vietata mentre, nel secondo, sarà colpevole di non aver adempiuto all’obbligo di tutela che la legge pone a suo carico.

Tuttavia è sicuramente nel Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che si rinvengono le disposizioni più interessanti ai nostri fini. Difatti il Decreto Legislativo 81/2008 impone al datore di lavoro di procedere alla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ed è evidente come il mobbing rientri a pieno titolo fra i possibili rischi di un ambiente di lavoro. In più l’articolo 28 dello stesso decreto obbliga il datore di lavoro a valutare tutti i rischi ivi compresi quelli stress-lavoro correlati, quelli riguardanti lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi a differenze di genere, età e provenienza da altri paesi. Il Legislatore ha dunque sentito l’esigenza di esplicitare, data la loro rilevanza, alcuni dei rischi oggetto di valutazione obbligatoria, svincolandoli così dalla capacità di individuazione del datore di lavoro. Fra questi particolare attenzione merita il rischio stress correlato al lavoro. L’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, ai cui contenuti il Testo Unico rimanda ai fini della sua valutazione, definisce lo stress come «una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative».

Stress e mobbing non sono perfettamente sovrapponibili ma fra i due esiste un legame molto stretto: è ampiamente dimostrato che il mobbing è responsabile, tra l’altro, di un aumento di stress nelle vittime. Non abbiamo però la stessa certezza scientifica sul fatto che lo stress costituisca causa del mobbing. Tuttavia è evidente, come sostiene Dina Guglielmi, che un ambiente lavorativo ad alti livelli di stress costituisce terreno fertile per la nascita di situazioni riconducibili al mobbing. D’altronde anche la ricerca empirica sembrerebbe confermare una maggiore presenza del fenomeno in attività caratterizzate da elevate richieste di lavoro e da bassi livelli di autonomia (entrambe condizioni ad alto rischio stress).

Dunque, seppure ancora orfano di una specifica previsione normativa, il mobbing costituisce senza dubbio uno dei rischi dell’ambiente di lavoro, più precisamente un rischio psicosociale e, come tale, è oggetto di un obbligo di valutazione che grava sul datore di lavoro e il cui mancato adempimento comporta l’applicazione delle sanzioni previste dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Pare certo, però, che per giungere dagli studi  sul comportamento degli uccelli selvatici sino a al varo di una legge ad hoc in materia di mobbing non basterà  certo un  battito d’ali.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2920/16