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Cronologia di un’aspettativa: quando la pensione perde quota

Cronologia di un’aspettativa: quando la pensione perde quota
Cronologia di un’aspettativa: quando la pensione perde quota

Abstract 

Sarebbe troppo facile giocare con le parole e scrivere la storia di un’ape che spicca il volo, ma quando la realtà dei fatti ci lascia basiti il senso ludico crolla improvvisamente, lasciando a malapena quello spazio di manovra sufficiente a rendersi conto che la più grande illusione sia sfumata a ridosso del tempo di recupero. Ed ecco che il sogno di godere finalmente della pensione perde quota vertiginosamente e si infrange sull’anticipo pensionistico di pochi. Questo articolo è una sorta di diario che ripercorre le tappe del probabile intervento principe post 2012 in materia pensionistica, partendo dal miraggio che – passando per una quasi totale convinzione e speranza –  è naufragato a metà.

Tralasciando i diversi metodi di calcolo e le vie di pensionamento connesse a stati di invalidità o a norme particolari sopravvissute o meno alla “rivoluzione forneriana”, il requisito anagrafico ordinario per accedere alla pensione di vecchiaia era, fino a non molti anni fa, di 60 anni per le donne e 65 per gli uomini.

Cinque anni addietro, tra le novità, veniva introdotto il progressivo innalzamento dell’età pensionabile. L’articolo 24 del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011 (detto “salva Italia”, convertito in Legge il 22 dicembre 2011) consentirebbe  un risparmio eccezionale per le casse dello Stato; una mossa che solo un governo tecnico avrebbe potuto piazzare. In breve, l’annuncio di pensioni più lontane e più basse. Un cambiamento a tal punto drastico e negativo per tutti, che un esecutivo politico avrebbe potuto fantasticare soltanto in un incubo. Se l’obiettivo prioritario è scongiurare il default e tenere al sicuro il bilancio e se i livelli di disoccupazione fossero minimi, allora la riforma in vigore dal 2012 sarebbe da considerare un ottimo piano. Purtroppo la seconda condizione rappresenta un miraggio.

Mettendo da parte la faccenda critica del sistema di calcolo contributivo, si è cercato di porre rimedio al problema dell’elevazione dell’età richiesta attraverso una serie di salvaguardie che hanno interessato tutti quei soggetti prossimi alla pensione e tagliati fuori dalla riforma poco prima di poter proporre la relativa domanda. Si tratta, nello specifico, di determinate categorie di lavoratori, cd. esodati, in tal modo tutelati grazie a vere e proprie deroghe al nuovo impianto pensionistico italiano.

L’apprensione più grande è legata inevitabilmente alla condizione quanto mai precaria ed allarmante degli individui over 60 privi di un impiego stabile, o che si ritrovino assolutamente senza una collocazione.

Oggi le donne possono richiedere la pensione di vecchiaia al compimento di 65 anni e 7 mesi, mentre gli uomini a 66 anni e 7 mesi. Numeri destinati ad aumentare, non tanto a causa dell’adeguamento alla durata della vita, quanto per l’adeguamento alle direttive di solidità finanziaria e di risparmio della previdenza.

Già a partire dall’inizio del 2016 cominciava a delinearsi concretamente l’eventualità di un intervento mirato in ambito pensionistico, voci in merito all’opportunità di un’uscita anticipata subordinata ad una riduzione del rateo. Prendendo le mosse dalle prime proposte e dalle opinioni si intende risalire fino ad oggi, un punto di stasi fino al prossimo step: la Legge di Stabilità 2017.

Nel mese di febbraio il sottosegretario alla presidenza del consiglio Tommaso Nannicini anticipa che la flessibilità troverà un posto certo nella manovra di fine anno al costo di una spesa variabile dai 5 ai 7 miliardi di euro. Un progetto presumibilmente impossibile da finanziare interamente a deficit a causa delle restrizioni di Bruxelles (da qui la scaturente necessità di ricercare strade alternative). Intanto, il presidente dell’Inps Boeri avanza la proposta di un’uscita anticipata a 63 anni e 7 mesi, a costo di una penalizzazione dell’importo compresa tra il 9 e l’11%.

A marzo crescono le chances di puntare un’opzione di anticipo pensionistico da inserire nel quadro più ampio della Legge 214/ 2011 ed in grado di intervenire sull’età pensionabile più alta in Europa dopo la Grecia. Il provvedimento, giorno dopo giorno, si palesa sempre più urgente e necessario, mentre il problema di fondo resta la copertura economica.

A maggio viene redatta una bozza del decreto. Il requisito anagrafico previsto si abbassa a 63 anni; una soluzione ancora dai contorni incerti e senz’altro non indirizzabile a tutti gli aspiranti pensionati, ma la visione inizia quantomeno a prendere forma e a divenire attuale. Viene introdotto il concetto di “ape”, l’acronimo di un anticipo pensionistico condizionato da una decurtazione ipotizzata del 2% - 4% annuo. Per i disoccupati i costi della flessibilità si prevedono a carico dello Stato, mentre per i lavoratori in esubero si presuppone a carico delle aziende. Circola la voce, alquanto criticata, che il tutto dovrebbe essere sovvenzionato dalle banche, facendo meditare sulla possibile ennesima genialata per far del bene agli istituti di emissione. L’idea di un prestito bancario innesta immediatamente il sospetto ed è in grado di evocare l’animo diffidente di tanti. Il primo incontro tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Poletti ed i rappresentanti sindacali rende formale e tangibile il proposito di modifica della Legge Fornero entro la fine dell’anno, benché nell’ottica restrittiva dei vincoli di bilancio. 

Proseguendo, durante il mese di settembre si assiste ad un’importante accelerata. Si da per certo che volendo andare in pensione prima del previsto si debba prendere un prestito. Il susseguirsi di informazioni, indiscrezioni, studi tecnici e confronti con i sindacati consentono di fare luce su un disegno sempre più limpido. La novità sarebbe indirizzata a tutti i nati tra l’anno 1951 e l’anno 1953 ed a seguire fino a quelli nati nel 1955, dal momento che la riforma dovrebbe essere lanciata in via sperimentale per due anni. L’intervento previdenziale permetterebbe di ottenere la pensione con un’anticipazione fino a 3 anni e 7 mesi per gli uomini. Si ribadisce che l’ape altro non è che un prestito bancario, una paga di dodici mesi l’anno (dunque senza supposizione di tredicesima) in attesa di raggiungere l’età della pensione di vecchiaia; somma poi da rimborsare nei successivi vent’anni, dopo i quali la pensione diventerà pari all’importo realmente maturato al calcolo.

Un anticipo pensionistico pensato a titolo gratuito (ovvero a carico dello Stato) per tutti quei soggetti disagiati, disoccupati e per chi abbia sviluppato un assegno fino a 1200 euro netti.

L’oscillazione andrebbe da una decurtazione mensile di durata ventennale stimata intorno al 5% (se l’anticipo è di un solo anno) fino ad un massimo del 18% (optando per l’anticipo di tre anni e sette mesi). Calcoli che però non tengono conto dell’ulteriore riduzione dovuta all’indispensabile sottoscrizione di una polizza prevista in favore delle banche per l’eventuale decesso del pensionato entro i vent’anni dalla data di decorrenza della pensione. Si giungerebbe al 25% di trattenuta, potendo così notare con estrema facilità il potenziale ammontare dei profitti a favore degli istituti di credito e delle società assicuratrici (taluno sostiene che si tratta di vantaggi circoscritti nel breve periodo). Tuttavia, questa pare sia l’unica strada percorribile in grado di consentire l’uscita dal mondo del lavoro accettando una pensione più bassa rispetto a quella effettivamente maturata.

A fine settembre l’atmosfera si fa pesante in vista dell’incontro decisivo governo-sindacati e dell’avvicinarsi del termine previsto per la presentazione al Parlamento del disegno di legge di bilancio. Vengono fissati alcuni punti. I destinatari dell’ape saranno sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi. Prende forza la persuasione che a fronte di un reddito basso, di stati disoccupazionali, o lavori particolarmente faticosi non si dovranno rimborsare né il capitale anticipato, né tantomeno le spese annesse. Si distinguono tre diversi canali di anticipo: a) l’ape volontaria per chi scegliesse di lasciare il posto di lavoro, caso in cui l’onere dell’operazione sarebbe a pieno carico dell’instante; b) l’ape aziendale, concordata con il datore di lavoro ed utilizzabile nell’ipotesi di crisi o ristrutturazione dell’attività, con gravami a carico dell’azienda; c) l’ape sociale (o gratuita) riservata ai disoccupati che non possano più usufruire degli ammortizzatori sociali (disoccupazione e mobilità), agli invalidi o aventi a carico un familiare disabile e ad alcune attività lavorative (operai del settore edile, infermieri, maestre d’asilo). In questi casi le spese per l’anticipo sono previste a carico dello Stato per chi raggiunga un assegno inferiore a 1300-1500 euro lordi. Partendo da quest’ultima precisazione e combinandola con un dato statistico fornito dall’Inps, stando al quale circa il 70% dei pensionati italiani percepisce una pensione non superiore ai 1443 euro lordi mensili, è evidente che l’ape sociale si rivelerebbe la migliore manna dal cielo per una platea vastissima di soggetti. Un’opzione quanto mai conveniente, una novità invocata e desiderata da anni. Più difficile invece provare ad immaginare quanti deciderebbero di aderire all’ape volontaria, assai meno conveniente (ma pur sempre un’alternativa aggiunta).

L’accordo siglato il 29 settembre presso il Ministero del Lavoro con le organizzazioni sindacali riflette l’apice della mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil con il duplice obiettivo di cambiare la disciplina delle pensioni e offrire lavoro ai giovani. Viene ancora una volta confermata l’ape agevolata per alcune categorie, tramite l’utilizzo di bonus fiscali volti a garantire il cd. reddito ponte fino all’età prevista per la pensione di vecchiaia, senza fare menzione di altre prerogative in merito all’anzianità contributiva, se non il requisito minimo standard dei 20 anni di contributi.

Il giorno successivo al vertice, avendo intuito con un certo ritardo la portata dell’ape gratuita, viene avanzata una possibile modifica, quella di erogare questa misura con risorse ad esaurimento. 

Nel corso della prima decade di ottobre l’elenco delle qualifiche che rappresentano un canale verso l’ape sociale sembrano definite: operai dell’edilizia, macchinisti e autisti di mezzi pubblici e pesanti, personale sanitario e maestri d’infanzia.

L’ex ministro Fornero si pronuncia sul nuovo mezzo pronto a creare flessibilità esprimendo un parere del tutto condivisibile e banalmente riassumibile in due righe: la soluzione proposta dall’ape volontaria risulterebbe scarsamente utilizzata, al contrario della versione gratuita che sarebbe in grado di sovraccaricare eccessivamente il bilancio pubblico.Pochi giorni prima dell’approvazione del piano del Consiglio dei Ministri, si rende noto che l’anticipo non oneroso potrebbe difficilmente riguardare altre tipologie di candidati, mettendo un punto interrogativo anche su quelle appena preventivate.

Il 15 ottobre a Palazzo Chigi un ulteriore incontro con le parti sindacali sentenzia che l’anticipo pensionistico sarà operativo a partire dal mese di maggio 2017 e la versione agevolata risulterà accessibile ai disoccupati, agli invalidi (e parenti di primo grado che assistano un disabile) e a chi svolga attività lavorative pesanti, fissando la soglia di reddito entro il quale poterne beneficiare a 1350 euro lordi. E fin qui, verrebbe da dire, poco di nuovo. Se non fosse che a ritocco di quanto pronosticato, o meglio, di quanto dato per assodato fin dal primo momento, il vero colpo di scena pronto a tagliare fuori un numero davvero cospicuo di possibili aventi diritto (presunti tali fino a quell’attimo) consiste nella previsione, da parte del governo, di un requisito in più, diverso e mai accennato: mentre per l’anticipo volontario rimangono sufficienti i 20 anni di anzianità contributiva, i pensionandi pronti a richiedere l’ape agevolata dovranno disporre di almeno 30 anni di contributi anziché 20! Non solo, bisognerà averne totalizzati addirittura 36 (piuttosto che 20) da chi abbia svolto lavori gravosi (tra l’altro ancora da definire). Un chiosa che spacca e che spiazza.

Il meccanismo della flessibilità è operativo in 14 Paesi dell’Unione Europea e consente di presentare la domanda di pensione con uno o più anni di anticipo dietro rinuncia di una quota in misura percentuale all’indennità maturata durante la carriera lavorativa. L’opposizione di gran parte dell’opinione pubblica non è dovuta all’ovvia riduzione dell’importo della rendita comparato al periodo di anticipo, bensì al mutuo che si costituirebbe, sebbene sulla base di una libera scelta del soggetto richiedente. A questo punto la riflessione dev’essere anzitutto personale ed orientata semplicemente a ponderare i vantaggi e gli svantaggi di una preferenza in tal senso. 

Resta da dire che quanti non vedano l’ora di uscire dal mondo del lavoro perché ormai è da tempo che non ne fanno più parte o perché spossati dal giogo degli anni, possono fondare le proprie idee per il futuro prossimo sulle fondamenta sospese di questo programma, consci del fatto che le stesse rimarranno vaghe anche durante quest’intervallo statico che, passando attraverso campagne referendarie, problemi di integrazione, disaccordi con l’Unione Europea, preoccupazioni sismiche e ricerca sterile di soluzioni per i giovani, condurrà dapprima al varo della Legge di Stabilità e successivamente ai decreti attuativi per conoscere ogni dettaglio immensamente rilevante di questa novella. Si scorge un’ottima possibilità di apertura al mondo del lavoro, ma in realtà l’ape raffigura – soprattutto la “social” per coloro vicini alla pensione – l’unico ormeggio salvaguardato nel quale riporre fiducia.

Abstract 

Sarebbe troppo facile giocare con le parole e scrivere la storia di un’ape che spicca il volo, ma quando la realtà dei fatti ci lascia basiti il senso ludico crolla improvvisamente, lasciando a malapena quello spazio di manovra sufficiente a rendersi conto che la più grande illusione sia sfumata a ridosso del tempo di recupero. Ed ecco che il sogno di godere finalmente della pensione perde quota vertiginosamente e si infrange sull’anticipo pensionistico di pochi. Questo articolo è una sorta di diario che ripercorre le tappe del probabile intervento principe post 2012 in materia pensionistica, partendo dal miraggio che – passando per una quasi totale convinzione e speranza –  è naufragato a metà.

Tralasciando i diversi metodi di calcolo e le vie di pensionamento connesse a stati di invalidità o a norme particolari sopravvissute o meno alla “rivoluzione forneriana”, il requisito anagrafico ordinario per accedere alla pensione di vecchiaia era, fino a non molti anni fa, di 60 anni per le donne e 65 per gli uomini.

Cinque anni addietro, tra le novità, veniva introdotto il progressivo innalzamento dell’età pensionabile. L’articolo 24 del Decreto Legge n. 201 del 6 dicembre 2011 (detto “salva Italia”, convertito in Legge il 22 dicembre 2011) consentirebbe  un risparmio eccezionale per le casse dello Stato; una mossa che solo un governo tecnico avrebbe potuto piazzare. In breve, l’annuncio di pensioni più lontane e più basse. Un cambiamento a tal punto drastico e negativo per tutti, che un esecutivo politico avrebbe potuto fantasticare soltanto in un incubo. Se l’obiettivo prioritario è scongiurare il default e tenere al sicuro il bilancio e se i livelli di disoccupazione fossero minimi, allora la riforma in vigore dal 2012 sarebbe da considerare un ottimo piano. Purtroppo la seconda condizione rappresenta un miraggio.

Mettendo da parte la faccenda critica del sistema di calcolo contributivo, si è cercato di porre rimedio al problema dell’elevazione dell’età richiesta attraverso una serie di salvaguardie che hanno interessato tutti quei soggetti prossimi alla pensione e tagliati fuori dalla riforma poco prima di poter proporre la relativa domanda. Si tratta, nello specifico, di determinate categorie di lavoratori, cd. esodati, in tal modo tutelati grazie a vere e proprie deroghe al nuovo impianto pensionistico italiano.

L’apprensione più grande è legata inevitabilmente alla condizione quanto mai precaria ed allarmante degli individui over 60 privi di un impiego stabile, o che si ritrovino assolutamente senza una collocazione.

Oggi le donne possono richiedere la pensione di vecchiaia al compimento di 65 anni e 7 mesi, mentre gli uomini a 66 anni e 7 mesi. Numeri destinati ad aumentare, non tanto a causa dell’adeguamento alla durata della vita, quanto per l’adeguamento alle direttive di solidità finanziaria e di risparmio della previdenza.

Già a partire dall’inizio del 2016 cominciava a delinearsi concretamente l’eventualità di un intervento mirato in ambito pensionistico, voci in merito all’opportunità di un’uscita anticipata subordinata ad una riduzione del rateo. Prendendo le mosse dalle prime proposte e dalle opinioni si intende risalire fino ad oggi, un punto di stasi fino al prossimo step: la Legge di Stabilità 2017.

Nel mese di febbraio il sottosegretario alla presidenza del consiglio Tommaso Nannicini anticipa che la flessibilità troverà un posto certo nella manovra di fine anno al costo di una spesa variabile dai 5 ai 7 miliardi di euro. Un progetto presumibilmente impossibile da finanziare interamente a deficit a causa delle restrizioni di Bruxelles (da qui la scaturente necessità di ricercare strade alternative). Intanto, il presidente dell’Inps Boeri avanza la proposta di un’uscita anticipata a 63 anni e 7 mesi, a costo di una penalizzazione dell’importo compresa tra il 9 e l’11%.

A marzo crescono le chances di puntare un’opzione di anticipo pensionistico da inserire nel quadro più ampio della Legge 214/ 2011 ed in grado di intervenire sull’età pensionabile più alta in Europa dopo la Grecia. Il provvedimento, giorno dopo giorno, si palesa sempre più urgente e necessario, mentre il problema di fondo resta la copertura economica.

A maggio viene redatta una bozza del decreto. Il requisito anagrafico previsto si abbassa a 63 anni; una soluzione ancora dai contorni incerti e senz’altro non indirizzabile a tutti gli aspiranti pensionati, ma la visione inizia quantomeno a prendere forma e a divenire attuale. Viene introdotto il concetto di “ape”, l’acronimo di un anticipo pensionistico condizionato da una decurtazione ipotizzata del 2% - 4% annuo. Per i disoccupati i costi della flessibilità si prevedono a carico dello Stato, mentre per i lavoratori in esubero si presuppone a carico delle aziende. Circola la voce, alquanto criticata, che il tutto dovrebbe essere sovvenzionato dalle banche, facendo meditare sulla possibile ennesima genialata per far del bene agli istituti di emissione. L’idea di un prestito bancario innesta immediatamente il sospetto ed è in grado di evocare l’animo diffidente di tanti. Il primo incontro tra il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Poletti ed i rappresentanti sindacali rende formale e tangibile il proposito di modifica della Legge Fornero entro la fine dell’anno, benché nell’ottica restrittiva dei vincoli di bilancio. 

Proseguendo, durante il mese di settembre si assiste ad un’importante accelerata. Si da per certo che volendo andare in pensione prima del previsto si debba prendere un prestito. Il susseguirsi di informazioni, indiscrezioni, studi tecnici e confronti con i sindacati consentono di fare luce su un disegno sempre più limpido. La novità sarebbe indirizzata a tutti i nati tra l’anno 1951 e l’anno 1953 ed a seguire fino a quelli nati nel 1955, dal momento che la riforma dovrebbe essere lanciata in via sperimentale per due anni. L’intervento previdenziale permetterebbe di ottenere la pensione con un’anticipazione fino a 3 anni e 7 mesi per gli uomini. Si ribadisce che l’ape altro non è che un prestito bancario, una paga di dodici mesi l’anno (dunque senza supposizione di tredicesima) in attesa di raggiungere l’età della pensione di vecchiaia; somma poi da rimborsare nei successivi vent’anni, dopo i quali la pensione diventerà pari all’importo realmente maturato al calcolo.

Un anticipo pensionistico pensato a titolo gratuito (ovvero a carico dello Stato) per tutti quei soggetti disagiati, disoccupati e per chi abbia sviluppato un assegno fino a 1200 euro netti.

L’oscillazione andrebbe da una decurtazione mensile di durata ventennale stimata intorno al 5% (se l’anticipo è di un solo anno) fino ad un massimo del 18% (optando per l’anticipo di tre anni e sette mesi). Calcoli che però non tengono conto dell’ulteriore riduzione dovuta all’indispensabile sottoscrizione di una polizza prevista in favore delle banche per l’eventuale decesso del pensionato entro i vent’anni dalla data di decorrenza della pensione. Si giungerebbe al 25% di trattenuta, potendo così notare con estrema facilità il potenziale ammontare dei profitti a favore degli istituti di credito e delle società assicuratrici (taluno sostiene che si tratta di vantaggi circoscritti nel breve periodo). Tuttavia, questa pare sia l’unica strada percorribile in grado di consentire l’uscita dal mondo del lavoro accettando una pensione più bassa rispetto a quella effettivamente maturata.

A fine settembre l’atmosfera si fa pesante in vista dell’incontro decisivo governo-sindacati e dell’avvicinarsi del termine previsto per la presentazione al Parlamento del disegno di legge di bilancio. Vengono fissati alcuni punti. I destinatari dell’ape saranno sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi. Prende forza la persuasione che a fronte di un reddito basso, di stati disoccupazionali, o lavori particolarmente faticosi non si dovranno rimborsare né il capitale anticipato, né tantomeno le spese annesse. Si distinguono tre diversi canali di anticipo: a) l’ape volontaria per chi scegliesse di lasciare il posto di lavoro, caso in cui l’onere dell’operazione sarebbe a pieno carico dell’instante; b) l’ape aziendale, concordata con il datore di lavoro ed utilizzabile nell’ipotesi di crisi o ristrutturazione dell’attività, con gravami a carico dell’azienda; c) l’ape sociale (o gratuita) riservata ai disoccupati che non possano più usufruire degli ammortizzatori sociali (disoccupazione e mobilità), agli invalidi o aventi a carico un familiare disabile e ad alcune attività lavorative (operai del settore edile, infermieri, maestre d’asilo). In questi casi le spese per l’anticipo sono previste a carico dello Stato per chi raggiunga un assegno inferiore a 1300-1500 euro lordi. Partendo da quest’ultima precisazione e combinandola con un dato statistico fornito dall’Inps, stando al quale circa il 70% dei pensionati italiani percepisce una pensione non superiore ai 1443 euro lordi mensili, è evidente che l’ape sociale si rivelerebbe la migliore manna dal cielo per una platea vastissima di soggetti. Un’opzione quanto mai conveniente, una novità invocata e desiderata da anni. Più difficile invece provare ad immaginare quanti deciderebbero di aderire all’ape volontaria, assai meno conveniente (ma pur sempre un’alternativa aggiunta).

L’accordo siglato il 29 settembre presso il Ministero del Lavoro con le organizzazioni sindacali riflette l’apice della mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil con il duplice obiettivo di cambiare la disciplina delle pensioni e offrire lavoro ai giovani. Viene ancora una volta confermata l’ape agevolata per alcune categorie, tramite l’utilizzo di bonus fiscali volti a garantire il cd. reddito ponte fino all’età prevista per la pensione di vecchiaia, senza fare menzione di altre prerogative in merito all’anzianità contributiva, se non il requisito minimo standard dei 20 anni di contributi.

Il giorno successivo al vertice, avendo intuito con un certo ritardo la portata dell’ape gratuita, viene avanzata una possibile modifica, quella di erogare questa misura con risorse ad esaurimento. 

Nel corso della prima decade di ottobre l’elenco delle qualifiche che rappresentano un canale verso l’ape sociale sembrano definite: operai dell’edilizia, macchinisti e autisti di mezzi pubblici e pesanti, personale sanitario e maestri d’infanzia.

L’ex ministro Fornero si pronuncia sul nuovo mezzo pronto a creare flessibilità esprimendo un parere del tutto condivisibile e banalmente riassumibile in due righe: la soluzione proposta dall’ape volontaria risulterebbe scarsamente utilizzata, al contrario della versione gratuita che sarebbe in grado di sovraccaricare eccessivamente il bilancio pubblico.Pochi giorni prima dell’approvazione del piano del Consiglio dei Ministri, si rende noto che l’anticipo non oneroso potrebbe difficilmente riguardare altre tipologie di candidati, mettendo un punto interrogativo anche su quelle appena preventivate.

Il 15 ottobre a Palazzo Chigi un ulteriore incontro con le parti sindacali sentenzia che l’anticipo pensionistico sarà operativo a partire dal mese di maggio 2017 e la versione agevolata risulterà accessibile ai disoccupati, agli invalidi (e parenti di primo grado che assistano un disabile) e a chi svolga attività lavorative pesanti, fissando la soglia di reddito entro il quale poterne beneficiare a 1350 euro lordi. E fin qui, verrebbe da dire, poco di nuovo. Se non fosse che a ritocco di quanto pronosticato, o meglio, di quanto dato per assodato fin dal primo momento, il vero colpo di scena pronto a tagliare fuori un numero davvero cospicuo di possibili aventi diritto (presunti tali fino a quell’attimo) consiste nella previsione, da parte del governo, di un requisito in più, diverso e mai accennato: mentre per l’anticipo volontario rimangono sufficienti i 20 anni di anzianità contributiva, i pensionandi pronti a richiedere l’ape agevolata dovranno disporre di almeno 30 anni di contributi anziché 20! Non solo, bisognerà averne totalizzati addirittura 36 (piuttosto che 20) da chi abbia svolto lavori gravosi (tra l’altro ancora da definire). Un chiosa che spacca e che spiazza.

Il meccanismo della flessibilità è operativo in 14 Paesi dell’Unione Europea e consente di presentare la domanda di pensione con uno o più anni di anticipo dietro rinuncia di una quota in misura percentuale all’indennità maturata durante la carriera lavorativa. L’opposizione di gran parte dell’opinione pubblica non è dovuta all’ovvia riduzione dell’importo della rendita comparato al periodo di anticipo, bensì al mutuo che si costituirebbe, sebbene sulla base di una libera scelta del soggetto richiedente. A questo punto la riflessione dev’essere anzitutto personale ed orientata semplicemente a ponderare i vantaggi e gli svantaggi di una preferenza in tal senso. 

Resta da dire che quanti non vedano l’ora di uscire dal mondo del lavoro perché ormai è da tempo che non ne fanno più parte o perché spossati dal giogo degli anni, possono fondare le proprie idee per il futuro prossimo sulle fondamenta sospese di questo programma, consci del fatto che le stesse rimarranno vaghe anche durante quest’intervallo statico che, passando attraverso campagne referendarie, problemi di integrazione, disaccordi con l’Unione Europea, preoccupazioni sismiche e ricerca sterile di soluzioni per i giovani, condurrà dapprima al varo della Legge di Stabilità e successivamente ai decreti attuativi per conoscere ogni dettaglio immensamente rilevante di questa novella. Si scorge un’ottima possibilità di apertura al mondo del lavoro, ma in realtà l’ape raffigura – soprattutto la “social” per coloro vicini alla pensione – l’unico ormeggio salvaguardato nel quale riporre fiducia.