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Liberi di cambiare canale

La dimensione collettiva della sicurezza sul lavoro e i sistemi di rappresentanza
Liberi di cambiare canale
Liberi di cambiare canale

Abstract: Dalle commissioni interne al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: genesi, evoluzione  ed analisi delle forme di organizzazione dei lavoratori a fini di autotutela, all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro, fra sistema a canale unico e sistema a canale doppio di rappresentanza.

 

Sommario 1. L’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: evoluzione storica 2. La dimensione collettiva della sicurezza del lavoro nello Statuto dei Lavoratori 3. Il rappresentante dei lavorativi per la sicurezza 4. Sistemi di rappresentanza

1. L’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: evoluzione storica

Le organizzazioni dei lavoratori a fini di autotutela dei propri interessi possono essere sia interne che esterne ai luoghi di lavoro. Nel nostro paese, all’inizio del secolo scorso, erano presenti due tipi di organizzazioni dei lavoratori, molto differenti tra loro: da una parte i sindacati con struttura associativa ad adesione volontaria operanti all’esterno del luogo di lavoro, dall’altra strutture elettive di rappresentanza di tutti i lavoratori presenti nell’azienda, denominate “commissioni interne” (CI) e operanti all’interno dei luoghi di lavoro. Tali commissioni conobbero la loro prima regolazione nel 1906 tramite un accordo sindacale tra la Federazione italiana operai metallurgici (FIOM) e la fabbrica di automobili Italia; da allora in poi la loro disciplina rimase sempre di origine contrattuale. Le CI erano elette nell’unità produttiva tramite un sistema proporzionale, con voto di preferenza, e sulla base di liste presentate da qualunque gruppo di lavoratori.

Soppresse durante il periodo fascista e subito ripristinate dopo la caduta del regime, le CI erano investite del potere negoziale necessario per la stipulazione dei contratti collettivi aziendali  ma, dopo la Liberazione, subirono un forte ridimensionamento  con l’ accordo interconfederale del 7/8/1947 che ne ridisegnò la disciplina, attribuendo ad esse  meri poteri di controllo sulla corretta applicazione di disposizioni collettive e di composizione di controversie aziendali.

La necessità sempre più crescente da parte del sindacato  di ottenere una presenza diretta e non mediata nel luogo di lavoro, assieme agli evidenti problemi di coordinamento che lo stesso sindacato aveva nel rapportarsi con strutture organizzative così distinte da sé, furono le ragioni di tale depotenziamento, cui va aggiunto il fatto che, essendo le CI  elette a collegio universale unico (corrispondente con l’intera unità produttiva), la loro composizione non rispecchiava l’organizzazione aziendale del lavoro e, conseguentemente, i diversi interessi dei lavoratori [G.Giugni, Diritto sindacale, Cacucci editore, Bari, 2007, p. 79].

Queste le ragioni che portarono ad una progressiva sostituzione delle CI con nuove forme di rappresentanza dei lavoratori che si affermarono compiutamente solo dopo la stagione delle lotte sindacali del biennio 1968-69.

Nonostante gli esiti infruttuosi dovuti alla  scarsa diffusione (limitata a poche imprese industriali), merita di essere menzionato anche un altro tentativo di superamento del sistema basato sulla convivenza sindacato – CI, promosso dalla Cisl: la costituzione nei luoghi di lavoro delle “sezioni sindacali aziendali” (SAS). Si trattava di strutture associative, rappresentative non di tutti i lavoratori occupati in azienda ma solo di quelli iscritti ai sindacati, con poteri e funzioni negoziali; dunque ‹‹vere articolazioni sindacali in azienda›› [F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro 1. Il diritto sindacale, Utet giuridica, s.l., 2013, p. 81], incapaci però di rispondere alla forte domanda di partecipazione prepotentemente emersa alla fine degli anni ‘60.

I “delegati” e i “Consigli di fabbrica” (o “Consigli dei delegati”) furono le nuove strutture organizzative dei lavoratori che si sostituirono alle precedenti affermandosi all’interno dei luoghi di lavoro. I primi delegati comparvero nel 1969 in alcune grandi fabbriche del nord dell’Italia: si trattava di forme di rappresentanza costituite non solo spontaneamente dai lavoratori, ma spesso in aperta contrapposizione con le organizzazioni confederali. Il delegato veniva eletto direttamente da tutti i lavoratori appartenenti a un gruppo omogeneo, individuato come tale sulla base dell’attività svolta dagli stessi lavoratori all’interno del processo produttivo (ad es. lavoratori dello stesso ufficio o reparto) e si faceva dunque portatore di interessi altrettanto omogenei dei lavoratori; generalmente il delegato non doveva essere iscritto a nessun sindacato per potersi candidare e l’elezione era tendenzialmente scevra dall’intervento sindacale. Il Consiglio di fabbrica era invece costituito dall’insieme dei delegati di una certa unità produttiva mentre, nelle imprese più grandi, veniva nominato un esecutivo a causa dell’elevato numero dei componenti.

Alle tre maggiori confederazioni sindacali - Cgil, Cisl e Uil - va però riconosciuta l’intelligenza e la capacità di aver recuperato al proprio interno queste organizzazioni, superando così l’iniziale spontaneismo che le aveva contraddistinte; difatti con il patto federativo del 1972 i Consigli di fabbrica furono riconosciuti come ‹‹ istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro ››,  andando nuovamente ad innovare la struttura dell’organizzazione dei lavoratori e della loro rappresentanza. I Consigli divennero la cellula base del sindacato operando all’interno dei luoghi di lavoro, con una struttura indubbiamente più articolata rispetto alle CI, con un rapporto più stretto e funzionale tra rappresentante e rappresentato e forti di uno stretto legame politico-organizzativo con il sindacato di riferimento. Vennero generalmente identificati con le RSA ( rappresentanze sindacali aziendali) ex art. 19 St. lav., con la conseguente titolarità dei diritti e dei poteri previsti dal titolo III dello stesso Statuto.

Difatti il primo intervento legislativo in materia di rappresentanza fu proprio lo Statuto dei lavoratori del 1970; prima di allora le varie strutture rappresentative sopra descritte si  formarono in assenza di una regolamentazione legislativa. Tuttavia lo Statuto introduce una disciplina normativa ‹‹di sostegno della presenza e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, non di regolamentazione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro›› [G.Giugni, op cit., p. 81].

Lo stesso art.19 St.lav., infatti, si limita ad individuare i soggetti titolari dei diritti sindacali previsti dagli artt. 20 e ss. dello stesso Statuto, dimostrando così la particolare attenzione dedicata dal legislatore al contesto in cui si inserisce tale nuova disciplina: nel 1970 il panorama delle rappresentanze dei lavoratori in azienda era piuttosto composito e vedeva convivere al suo interno le vecchie CI, alcune sezioni sindacali aziendali e i nuovi Consigli di fabbrica con i relativi delegati. Si potrebbe dire che oltre alla portata sistemica di tale impostazione legislativa, anche ragioni di opportunità consigliavano di non optare per l’una o per l’altra struttura di rappresentanza onde evitare di fare una scelta di campo che poteva non soddisfare gli interessi reali sottesi alla questione della rappresentanza sindacale, allora – evidentemente - ancora apertissima. Così, ai fini del riconoscimento ad una RSA  dei diritti sindacali previsti dallo Statuto, l’art. 19 prevede esclusivamente la sua costituzione  ad iniziativa dei lavoratori e nell’ambito di associazioni sindacali che rispettino determinati requisiti individuati dalla stessa disposizione normativa.

 Negli anni ’80 la nuova struttura organizzativa sindacale entra in crisi: sono gli anni della rottura del patto federativo del 1984, della fine dell’unità sindacale e della perdita di rappresentatività del sindacato confederale, il quale reagirà orientandosi verso una riforma della rappresentanza che vedrà la luce con il Protocollo del luglio 1993 e con l’entrata in scena delle RSU ( rappresentanze sindacali unitarie ).

2. La dimensione collettiva della sicurezza del lavoro nello Statuto dei Lavoratori

Anche la dimensione collettiva della salute e della sicurezza dei lavoratori nasce in Italia con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) che, all’art. 9, riconosce a non meglio identificate “rappresentanze” dei lavoratori una serie di prerogative proprio in materia di tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori sul luogo di lavoro.

La norma può essere divisa in due parti: la prima che prevede il diritto delle rappresentanze di verificare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali (a tale parte si è sempre riconosciuta immediata efficacia precettiva);  la seconda che riconosce ai rappresentanti il diritto di ‹‹promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee›› a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori (a questa parte si è invece attribuito un valore puramente programmatico, mai specificato dalla contrattazione collettiva).

C’è da dire che, con l’entrata in vigore della l. 629/1994 e - da ultimo - del T.U.  n. 81/2008, la materia è stata ampiamente e dettagliatamente disciplinata, tanto che l’opinione prevalente ritiene ormai implicitamente abrogata la norma statutaria.

Il principale problema interpretativo posto dall’art. 9 riguarda la natura e i criteri di identificazione delle rappresentanze: l’opinione prevalente si è orientata verso un’interpretazione ampia, ritenendo legittimati insieme alle rappresentanze sindacali di cui all’art. 19 del medesimo Statuto anche altri organismi rappresentativi seppur esterni all’azienda. Tuttavia la contrattazione collettiva, sposando la prassi aziendale, ha nel tempo dimostrato una sostanziale identificazione delle rappresentanze ex art.9 con le RSA ex art.19 St. lav. [ cfr. F. Basenghi, L. Golzio, A. Zini, op. cit., pp. 106-107] .

In ogni caso con l’emanazione della l. 300/70, la sicurezza dei lavoratori scopre un nuovo orizzonte: il lavoratore, tramite l’azione delle rappresentanze, forti anche della tutela garantita dall’art. 28 St. lav. ( procedimento di repressione della condotta antisindacale), può ottenere una tutela relativa alle proprie condizioni di lavoro che supera la mera dimensione risarcitoria.

3. Il rappresentante dei lavorativi per la sicurezza

Una rilevante innovazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, anche in relazione alla dimensione collettiva della stessa, è rappresentata dalla direttiva - quadro n. 89/391. Quest’ultima impone agli Stati membri l’adozione di strategie fortemente partecipative nella gestione della sicurezza aziendale, tant’è che nell’art. 11 della stessa (indicativamente rubricato ‹‹Consultazione e partecipazione dei lavoratori››) si richiede agli Stati membri di obbligare i datori di lavoro al confronto con i lavoratori e/o i loro rappresentanti, i quali devono essere messi in condizione di poter adeguatamente partecipare (principio di equilibrata partecipazione), di essere preventivamente informati e consultati e di formulare proposte e soluzioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

Con l’emanazione del D.Lgs. n. 626/1994 il legislatore adempie, anche se con ritardo, all’attuazione della direttiva quadro (e di altre direttive c.d. “figlie”) importando così la filosofia europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro ed i relativi principi di collaborazione tra datore e prestatore di lavoro e di coinvolgimento di quest’ultimo. Nasce in quest’ottica  la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), le cui funzioni e caratteristiche vengono definite dal D.Lgs 626/1994 nell’ottica di una competente collaborazione col datore di lavoro.

Il D.Lgs. 81/2008 (c.d. TU della sicurezza sul lavoro) conferma la previgente impostazione basata su un modello partecipato di gestione della sicurezza sul lavoro  che vede come interlocutori privilegiati i rappresentanti dei lavoratori, il cui ruolo consultivo e partecipativo si estrinseca ampiamente nelle attribuzioni che gli vengono riconosciute, fra le quali si segnalano: l’accesso ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni; la possibilità di fare proposte in relazione all’attività di prevenzione; la promozione, elaborazione ed attuazione di misure di prevenzione; la ricezione di informazioni relative alla sicurezza in azienda; il ricorso alle autorità competenti qualora si ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.

Per poter svolgere con competenza e perizia il proprio ruolo il RLS deve disporre del tempo necessario allo svolgimento dell'incarico senza perdita di retribuzione, nonché dei mezzi e degli spazi necessari per l'esercizio delle proprie funzioni e facoltà. Inoltre ha diritto ad una formazione particolare in materia di salute e sicurezza concernente i rischi specifici esistenti negli ambiti in cui esercita la propria rappresentanza, tale da assicurargli adeguate competenze sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi. Non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali.

Ma il TU  pone in particolare l’accento sul profilo della necessarietà delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.

A tal proposito il D.Lgs. 81/2008 (art. 47) stabilisce che in tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, distinguendo fra:

  1. aziende o unità produttive che occupano fino a 15 lavoratori, dove il RLS è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno oppure è individuato per più aziende nell'ambito territoriale o del comparto produttivo;
  2. aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori, dove il RLS è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda (RSA o RSU) e, in assenza di tali rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno.

Peraltro il legislatore individua un numero minimo di rappresentanti, e specificamente: almeno un rappresentante nelle aziende o unità produttive sino a 200 lavoratori, tre in quelle da 201 a 1000 lavoratori e sei in quelle oltre i 1000 lavoratori.

Qualora non si proceda all’ elezioni del R.L.S. in azienda (che costituisce l’unità base), le funzioni devono essere esercitate dal rappresentante territoriale (R.L.S.T.) o di sito produttivo (R.L.S.P.), salvo diverse intese tra le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

Se il R.L.S.P. è una figura prevista soltanto per specifici contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri (porti, impianti siderurgici…), diverso discorso vale per il R.L.S.T.: tale figura, dal carattere evidentemente suppletivo, trova applicazione in tutti i casi in cui non sia stato eletto o designato un R.L.S. esercitandone le competenze, col chiaro obiettivo di evitare vuoti di rappresentanza.

4. Sistemi di rappresentanza

Sulle finalità e sul ruolo dei R.L.S. sembra fuorviante proporre una secca dicotomia tra dimensione pubblicistico-obbligatoria e dimensione privatistico-volontaristica [Cfr. Pascucci, Costanzi, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nell’ordinamento italiano, in Approfondimenti, Osservatorio Olympus – Università degli studi di Urbino Carlo Bo-, 2010]. È evidente che il profilo “necessario” ed “obbligatorio” del R.L.S. che emerge dalla normativa induce a sposare la tesi della dimensione esclusivamente pubblicistica (soprattutto con riferimento alla figura del R.L.S.T.), ma, ad una lettura più attenta, emerge con chiarezza la coesistenza di entrambi i profili: il primo, quello pubblicistico-obbligatorio, è sicuramente rinvenibile nei “ rapporti esterni ” che il R.L.S. ha nei confronti del datore di lavoro e degli altri attori del sistema prevenzionistico aziendale, oltreché con gli organi di vigilanza e i soggetti istituzionali; il secondo profilo, quello privatistico-volontaristico, emerge invece relativamente ai “ rapporti interni ” che il R.L.S. intrattiene con i lavoratori che rappresenta e con gli altri soggetti con i quali si relaziona per lo svolgimento della propria attività (organizzazioni sindacali, organismi paritetici, altri R.L.S. nel caso di R.L.S.P.); d’altronde le stesse modalità della sua elezione o designazione sono individuate dalla contrattazione collettiva.

Alla luce di quanto sin qui detto in materia di rappresentanza è utile ricordare che i sistemi di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono di due diversi tipi: quello a canale doppio e quello a canale unico.

Il sistema a canale doppio prevede la coesistenza all’interno della stessa azienda (o unità produttiva) di due distinti organismi con natura e funzioni differenti: da un lato, un organismo eletto da tutti i lavoratori occupati in azienda indipendentemente dall’appartenenza ad un sindacato e con poteri di partecipazione, consultazione e informazione; dall’altro, un organismo associativo a base volontaria e con poteri negoziali, espressione del sindacato esterno e dunque struttura di rappresentanza degli iscritti al sindacato stesso. E`il modello che si sarebbe potuto affermare nel nostro paese se le SAS, rappresentanze sindacali in senso stretto e con poteri contrattuali, si fossero diffuse nel panorama aziendale italiano affiancandosi alle CI, organismi elettivi e di rappresentanza generale privi di potere negoziale.

Questo sistema di rappresentanza è molto diffuso in Europa (Olanda, Spagna, Germania, Francia) ma non ha mai trovato pieno diritto di cittadinanza in Italia anche a causa dei sindacati italiani che hanno sempre osteggiato questo modello in ragione di una presunta lesione ‹‹della autorevolezza sindacale e della sindacalizzazione potenziale›› [cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, op. cit., p. 82]  che esso avrebbe portato con sé.

Diversamente il sistema a canale unico prevede una struttura a carattere sindacale/associativo presente sia all’esterno che all’interno dei luoghi di lavoro e che cumula in sé funzioni e poteri negoziali e partecipativi:  è questo il sistema di rappresentanza adottato in Italia e che fa leva sulle RSA/RSU.

È evidente che la scelta in favore dell’uno o dell’altro sistema di rappresentanza si ripercuote immediatamente sulla questione del rapporto tra contrattazione e partecipazione all’interno dell’azienda. Forse oggi ragioni d’opportunità consiglierebbero di interfacciarsi col datore di lavoro attraverso un sistema, per così dire, a “rappresentanze differenziate”, alcune con competenze generali e negoziali ed altre con competenze più specifiche.

Difatti le funzioni delle rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro si sono nel tempo dilatate travalicando i confini della tradizionale contrattazione collettiva e assumendo via via nuove funzioni  di tipo consultivo, informativo e partecipativo relative a diversi aspetti della vita di un’impresa. Ciò nonostante in Italia continua ad essere utilizzato il sistema a canale unico, seppure con peculiari caratteristiche: potrebbe definirsi un sistema “misto”, una sintesi dei due modelli, trattandosi di rappresentanze elettive ma ben collegate con le associazioni sindacali esterne [cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, op. cit. , pp. 82- 83] .

Tuttavia nell’introduzione nel nostro ordinamento della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza si potrebbero vedere, e forse auspicare, i prodromi dell’istituzionalizzazione del sistema del canale doppio di rappresentanza.

Ad ogni modo, lungi dall’essere giunta a conclusione, l’evoluzione storica delle rappresentanze sindacali dei lavoratori si spera si arricchirà di radicali elementi di novità. Ciò sia alla luce del ‹‹mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali›› [Corte cost., 23 luglio 2013, n. 231], sia in considerazione dell’assoluta incapacità del sindacato di assicurare, ad oggi,  una tutela alle nuove generazioni di lavoratori, impiegate sempre più spesso tramite il ricorso a contratti di lavoro atipici e in una logica di utilizzo flessibile della forza lavoro che mal si concilia col sistema della rappresentanza attualmente adottato nel nostro paese.

Abstract: Dalle commissioni interne al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: genesi, evoluzione  ed analisi delle forme di organizzazione dei lavoratori a fini di autotutela, all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro, fra sistema a canale unico e sistema a canale doppio di rappresentanza.

 

Sommario 1. L’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: evoluzione storica 2. La dimensione collettiva della sicurezza del lavoro nello Statuto dei Lavoratori 3. Il rappresentante dei lavorativi per la sicurezza 4. Sistemi di rappresentanza

1. L’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro: evoluzione storica

Le organizzazioni dei lavoratori a fini di autotutela dei propri interessi possono essere sia interne che esterne ai luoghi di lavoro. Nel nostro paese, all’inizio del secolo scorso, erano presenti due tipi di organizzazioni dei lavoratori, molto differenti tra loro: da una parte i sindacati con struttura associativa ad adesione volontaria operanti all’esterno del luogo di lavoro, dall’altra strutture elettive di rappresentanza di tutti i lavoratori presenti nell’azienda, denominate “commissioni interne” (CI) e operanti all’interno dei luoghi di lavoro. Tali commissioni conobbero la loro prima regolazione nel 1906 tramite un accordo sindacale tra la Federazione italiana operai metallurgici (FIOM) e la fabbrica di automobili Italia; da allora in poi la loro disciplina rimase sempre di origine contrattuale. Le CI erano elette nell’unità produttiva tramite un sistema proporzionale, con voto di preferenza, e sulla base di liste presentate da qualunque gruppo di lavoratori.

Soppresse durante il periodo fascista e subito ripristinate dopo la caduta del regime, le CI erano investite del potere negoziale necessario per la stipulazione dei contratti collettivi aziendali  ma, dopo la Liberazione, subirono un forte ridimensionamento  con l’ accordo interconfederale del 7/8/1947 che ne ridisegnò la disciplina, attribuendo ad esse  meri poteri di controllo sulla corretta applicazione di disposizioni collettive e di composizione di controversie aziendali.

La necessità sempre più crescente da parte del sindacato  di ottenere una presenza diretta e non mediata nel luogo di lavoro, assieme agli evidenti problemi di coordinamento che lo stesso sindacato aveva nel rapportarsi con strutture organizzative così distinte da sé, furono le ragioni di tale depotenziamento, cui va aggiunto il fatto che, essendo le CI  elette a collegio universale unico (corrispondente con l’intera unità produttiva), la loro composizione non rispecchiava l’organizzazione aziendale del lavoro e, conseguentemente, i diversi interessi dei lavoratori [G.Giugni, Diritto sindacale, Cacucci editore, Bari, 2007, p. 79].

Queste le ragioni che portarono ad una progressiva sostituzione delle CI con nuove forme di rappresentanza dei lavoratori che si affermarono compiutamente solo dopo la stagione delle lotte sindacali del biennio 1968-69.

Nonostante gli esiti infruttuosi dovuti alla  scarsa diffusione (limitata a poche imprese industriali), merita di essere menzionato anche un altro tentativo di superamento del sistema basato sulla convivenza sindacato – CI, promosso dalla Cisl: la costituzione nei luoghi di lavoro delle “sezioni sindacali aziendali” (SAS). Si trattava di strutture associative, rappresentative non di tutti i lavoratori occupati in azienda ma solo di quelli iscritti ai sindacati, con poteri e funzioni negoziali; dunque ‹‹vere articolazioni sindacali in azienda›› [F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro 1. Il diritto sindacale, Utet giuridica, s.l., 2013, p. 81], incapaci però di rispondere alla forte domanda di partecipazione prepotentemente emersa alla fine degli anni ‘60.

I “delegati” e i “Consigli di fabbrica” (o “Consigli dei delegati”) furono le nuove strutture organizzative dei lavoratori che si sostituirono alle precedenti affermandosi all’interno dei luoghi di lavoro. I primi delegati comparvero nel 1969 in alcune grandi fabbriche del nord dell’Italia: si trattava di forme di rappresentanza costituite non solo spontaneamente dai lavoratori, ma spesso in aperta contrapposizione con le organizzazioni confederali. Il delegato veniva eletto direttamente da tutti i lavoratori appartenenti a un gruppo omogeneo, individuato come tale sulla base dell’attività svolta dagli stessi lavoratori all’interno del processo produttivo (ad es. lavoratori dello stesso ufficio o reparto) e si faceva dunque portatore di interessi altrettanto omogenei dei lavoratori; generalmente il delegato non doveva essere iscritto a nessun sindacato per potersi candidare e l’elezione era tendenzialmente scevra dall’intervento sindacale. Il Consiglio di fabbrica era invece costituito dall’insieme dei delegati di una certa unità produttiva mentre, nelle imprese più grandi, veniva nominato un esecutivo a causa dell’elevato numero dei componenti.

Alle tre maggiori confederazioni sindacali - Cgil, Cisl e Uil - va però riconosciuta l’intelligenza e la capacità di aver recuperato al proprio interno queste organizzazioni, superando così l’iniziale spontaneismo che le aveva contraddistinte; difatti con il patto federativo del 1972 i Consigli di fabbrica furono riconosciuti come ‹‹ istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro ››,  andando nuovamente ad innovare la struttura dell’organizzazione dei lavoratori e della loro rappresentanza. I Consigli divennero la cellula base del sindacato operando all’interno dei luoghi di lavoro, con una struttura indubbiamente più articolata rispetto alle CI, con un rapporto più stretto e funzionale tra rappresentante e rappresentato e forti di uno stretto legame politico-organizzativo con il sindacato di riferimento. Vennero generalmente identificati con le RSA ( rappresentanze sindacali aziendali) ex art. 19 St. lav., con la conseguente titolarità dei diritti e dei poteri previsti dal titolo III dello stesso Statuto.

Difatti il primo intervento legislativo in materia di rappresentanza fu proprio lo Statuto dei lavoratori del 1970; prima di allora le varie strutture rappresentative sopra descritte si  formarono in assenza di una regolamentazione legislativa. Tuttavia lo Statuto introduce una disciplina normativa ‹‹di sostegno della presenza e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, non di regolamentazione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro›› [G.Giugni, op cit., p. 81].

Lo stesso art.19 St.lav., infatti, si limita ad individuare i soggetti titolari dei diritti sindacali previsti dagli artt. 20 e ss. dello stesso Statuto, dimostrando così la particolare attenzione dedicata dal legislatore al contesto in cui si inserisce tale nuova disciplina: nel 1970 il panorama delle rappresentanze dei lavoratori in azienda era piuttosto composito e vedeva convivere al suo interno le vecchie CI, alcune sezioni sindacali aziendali e i nuovi Consigli di fabbrica con i relativi delegati. Si potrebbe dire che oltre alla portata sistemica di tale impostazione legislativa, anche ragioni di opportunità consigliavano di non optare per l’una o per l’altra struttura di rappresentanza onde evitare di fare una scelta di campo che poteva non soddisfare gli interessi reali sottesi alla questione della rappresentanza sindacale, allora – evidentemente - ancora apertissima. Così, ai fini del riconoscimento ad una RSA  dei diritti sindacali previsti dallo Statuto, l’art. 19 prevede esclusivamente la sua costituzione  ad iniziativa dei lavoratori e nell’ambito di associazioni sindacali che rispettino determinati requisiti individuati dalla stessa disposizione normativa.

 Negli anni ’80 la nuova struttura organizzativa sindacale entra in crisi: sono gli anni della rottura del patto federativo del 1984, della fine dell’unità sindacale e della perdita di rappresentatività del sindacato confederale, il quale reagirà orientandosi verso una riforma della rappresentanza che vedrà la luce con il Protocollo del luglio 1993 e con l’entrata in scena delle RSU ( rappresentanze sindacali unitarie ).

2. La dimensione collettiva della sicurezza del lavoro nello Statuto dei Lavoratori

Anche la dimensione collettiva della salute e della sicurezza dei lavoratori nasce in Italia con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) che, all’art. 9, riconosce a non meglio identificate “rappresentanze” dei lavoratori una serie di prerogative proprio in materia di tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori sul luogo di lavoro.

La norma può essere divisa in due parti: la prima che prevede il diritto delle rappresentanze di verificare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali (a tale parte si è sempre riconosciuta immediata efficacia precettiva);  la seconda che riconosce ai rappresentanti il diritto di ‹‹promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee›› a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori (a questa parte si è invece attribuito un valore puramente programmatico, mai specificato dalla contrattazione collettiva).

C’è da dire che, con l’entrata in vigore della l. 629/1994 e - da ultimo - del T.U.  n. 81/2008, la materia è stata ampiamente e dettagliatamente disciplinata, tanto che l’opinione prevalente ritiene ormai implicitamente abrogata la norma statutaria.

Il principale problema interpretativo posto dall’art. 9 riguarda la natura e i criteri di identificazione delle rappresentanze: l’opinione prevalente si è orientata verso un’interpretazione ampia, ritenendo legittimati insieme alle rappresentanze sindacali di cui all’art. 19 del medesimo Statuto anche altri organismi rappresentativi seppur esterni all’azienda. Tuttavia la contrattazione collettiva, sposando la prassi aziendale, ha nel tempo dimostrato una sostanziale identificazione delle rappresentanze ex art.9 con le RSA ex art.19 St. lav. [ cfr. F. Basenghi, L. Golzio, A. Zini, op. cit., pp. 106-107] .

In ogni caso con l’emanazione della l. 300/70, la sicurezza dei lavoratori scopre un nuovo orizzonte: il lavoratore, tramite l’azione delle rappresentanze, forti anche della tutela garantita dall’art. 28 St. lav. ( procedimento di repressione della condotta antisindacale), può ottenere una tutela relativa alle proprie condizioni di lavoro che supera la mera dimensione risarcitoria.

3. Il rappresentante dei lavorativi per la sicurezza

Una rilevante innovazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, anche in relazione alla dimensione collettiva della stessa, è rappresentata dalla direttiva - quadro n. 89/391. Quest’ultima impone agli Stati membri l’adozione di strategie fortemente partecipative nella gestione della sicurezza aziendale, tant’è che nell’art. 11 della stessa (indicativamente rubricato ‹‹Consultazione e partecipazione dei lavoratori››) si richiede agli Stati membri di obbligare i datori di lavoro al confronto con i lavoratori e/o i loro rappresentanti, i quali devono essere messi in condizione di poter adeguatamente partecipare (principio di equilibrata partecipazione), di essere preventivamente informati e consultati e di formulare proposte e soluzioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

Con l’emanazione del D.Lgs. n. 626/1994 il legislatore adempie, anche se con ritardo, all’attuazione della direttiva quadro (e di altre direttive c.d. “figlie”) importando così la filosofia europea in materia di salute e sicurezza sul lavoro ed i relativi principi di collaborazione tra datore e prestatore di lavoro e di coinvolgimento di quest’ultimo. Nasce in quest’ottica  la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), le cui funzioni e caratteristiche vengono definite dal D.Lgs 626/1994 nell’ottica di una competente collaborazione col datore di lavoro.

Il D.Lgs. 81/2008 (c.d. TU della sicurezza sul lavoro) conferma la previgente impostazione basata su un modello partecipato di gestione della sicurezza sul lavoro  che vede come interlocutori privilegiati i rappresentanti dei lavoratori, il cui ruolo consultivo e partecipativo si estrinseca ampiamente nelle attribuzioni che gli vengono riconosciute, fra le quali si segnalano: l’accesso ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni; la possibilità di fare proposte in relazione all’attività di prevenzione; la promozione, elaborazione ed attuazione di misure di prevenzione; la ricezione di informazioni relative alla sicurezza in azienda; il ricorso alle autorità competenti qualora si ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.

Per poter svolgere con competenza e perizia il proprio ruolo il RLS deve disporre del tempo necessario allo svolgimento dell'incarico senza perdita di retribuzione, nonché dei mezzi e degli spazi necessari per l'esercizio delle proprie funzioni e facoltà. Inoltre ha diritto ad una formazione particolare in materia di salute e sicurezza concernente i rischi specifici esistenti negli ambiti in cui esercita la propria rappresentanza, tale da assicurargli adeguate competenze sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi. Non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali.

Ma il TU  pone in particolare l’accento sul profilo della necessarietà delle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.

A tal proposito il D.Lgs. 81/2008 (art. 47) stabilisce che in tutte le aziende, o unità produttive, è eletto o designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, distinguendo fra:

  1. aziende o unità produttive che occupano fino a 15 lavoratori, dove il RLS è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno oppure è individuato per più aziende nell'ambito territoriale o del comparto produttivo;
  2. aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori, dove il RLS è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda (RSA o RSU) e, in assenza di tali rappresentanze, è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno.

Peraltro il legislatore individua un numero minimo di rappresentanti, e specificamente: almeno un rappresentante nelle aziende o unità produttive sino a 200 lavoratori, tre in quelle da 201 a 1000 lavoratori e sei in quelle oltre i 1000 lavoratori.

Qualora non si proceda all’ elezioni del R.L.S. in azienda (che costituisce l’unità base), le funzioni devono essere esercitate dal rappresentante territoriale (R.L.S.T.) o di sito produttivo (R.L.S.P.), salvo diverse intese tra le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

Se il R.L.S.P. è una figura prevista soltanto per specifici contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri (porti, impianti siderurgici…), diverso discorso vale per il R.L.S.T.: tale figura, dal carattere evidentemente suppletivo, trova applicazione in tutti i casi in cui non sia stato eletto o designato un R.L.S. esercitandone le competenze, col chiaro obiettivo di evitare vuoti di rappresentanza.

4. Sistemi di rappresentanza

Sulle finalità e sul ruolo dei R.L.S. sembra fuorviante proporre una secca dicotomia tra dimensione pubblicistico-obbligatoria e dimensione privatistico-volontaristica [Cfr. Pascucci, Costanzi, Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nell’ordinamento italiano, in Approfondimenti, Osservatorio Olympus – Università degli studi di Urbino Carlo Bo-, 2010]. È evidente che il profilo “necessario” ed “obbligatorio” del R.L.S. che emerge dalla normativa induce a sposare la tesi della dimensione esclusivamente pubblicistica (soprattutto con riferimento alla figura del R.L.S.T.), ma, ad una lettura più attenta, emerge con chiarezza la coesistenza di entrambi i profili: il primo, quello pubblicistico-obbligatorio, è sicuramente rinvenibile nei “ rapporti esterni ” che il R.L.S. ha nei confronti del datore di lavoro e degli altri attori del sistema prevenzionistico aziendale, oltreché con gli organi di vigilanza e i soggetti istituzionali; il secondo profilo, quello privatistico-volontaristico, emerge invece relativamente ai “ rapporti interni ” che il R.L.S. intrattiene con i lavoratori che rappresenta e con gli altri soggetti con i quali si relaziona per lo svolgimento della propria attività (organizzazioni sindacali, organismi paritetici, altri R.L.S. nel caso di R.L.S.P.); d’altronde le stesse modalità della sua elezione o designazione sono individuate dalla contrattazione collettiva.

Alla luce di quanto sin qui detto in materia di rappresentanza è utile ricordare che i sistemi di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono di due diversi tipi: quello a canale doppio e quello a canale unico.

Il sistema a canale doppio prevede la coesistenza all’interno della stessa azienda (o unità produttiva) di due distinti organismi con natura e funzioni differenti: da un lato, un organismo eletto da tutti i lavoratori occupati in azienda indipendentemente dall’appartenenza ad un sindacato e con poteri di partecipazione, consultazione e informazione; dall’altro, un organismo associativo a base volontaria e con poteri negoziali, espressione del sindacato esterno e dunque struttura di rappresentanza degli iscritti al sindacato stesso. E`il modello che si sarebbe potuto affermare nel nostro paese se le SAS, rappresentanze sindacali in senso stretto e con poteri contrattuali, si fossero diffuse nel panorama aziendale italiano affiancandosi alle CI, organismi elettivi e di rappresentanza generale privi di potere negoziale.

Questo sistema di rappresentanza è molto diffuso in Europa (Olanda, Spagna, Germania, Francia) ma non ha mai trovato pieno diritto di cittadinanza in Italia anche a causa dei sindacati italiani che hanno sempre osteggiato questo modello in ragione di una presunta lesione ‹‹della autorevolezza sindacale e della sindacalizzazione potenziale›› [cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, op. cit., p. 82]  che esso avrebbe portato con sé.

Diversamente il sistema a canale unico prevede una struttura a carattere sindacale/associativo presente sia all’esterno che all’interno dei luoghi di lavoro e che cumula in sé funzioni e poteri negoziali e partecipativi:  è questo il sistema di rappresentanza adottato in Italia e che fa leva sulle RSA/RSU.

È evidente che la scelta in favore dell’uno o dell’altro sistema di rappresentanza si ripercuote immediatamente sulla questione del rapporto tra contrattazione e partecipazione all’interno dell’azienda. Forse oggi ragioni d’opportunità consiglierebbero di interfacciarsi col datore di lavoro attraverso un sistema, per così dire, a “rappresentanze differenziate”, alcune con competenze generali e negoziali ed altre con competenze più specifiche.

Difatti le funzioni delle rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro si sono nel tempo dilatate travalicando i confini della tradizionale contrattazione collettiva e assumendo via via nuove funzioni  di tipo consultivo, informativo e partecipativo relative a diversi aspetti della vita di un’impresa. Ciò nonostante in Italia continua ad essere utilizzato il sistema a canale unico, seppure con peculiari caratteristiche: potrebbe definirsi un sistema “misto”, una sintesi dei due modelli, trattandosi di rappresentanze elettive ma ben collegate con le associazioni sindacali esterne [cfr. F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, op. cit. , pp. 82- 83] .

Tuttavia nell’introduzione nel nostro ordinamento della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza si potrebbero vedere, e forse auspicare, i prodromi dell’istituzionalizzazione del sistema del canale doppio di rappresentanza.

Ad ogni modo, lungi dall’essere giunta a conclusione, l’evoluzione storica delle rappresentanze sindacali dei lavoratori si spera si arricchirà di radicali elementi di novità. Ciò sia alla luce del ‹‹mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali›› [Corte cost., 23 luglio 2013, n. 231], sia in considerazione dell’assoluta incapacità del sindacato di assicurare, ad oggi,  una tutela alle nuove generazioni di lavoratori, impiegate sempre più spesso tramite il ricorso a contratti di lavoro atipici e in una logica di utilizzo flessibile della forza lavoro che mal si concilia col sistema della rappresentanza attualmente adottato nel nostro paese.