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Pur mai non sentesi felice appieno chi su quel seno non liba amore

Pur mai non sentesi felice appieno chi su quel seno non liba amore
Pur mai non sentesi felice appieno chi su quel seno non liba amore

Bologna, 6 febbraio 2017

   

 

Vorrei essere serio e occuparmi della prevedibile cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, delle inquietanti dichiarazioni di Davigo, della nullità del contratto sottoscritto dai candidati cinquestelle, della nuova legge marketing sul bullismo, ma essere fatuo ha alcuni improcrastinabili doveri, a cui mi sottometto docilmente.

Al Comunale di Bologna è andato in scena a gennaio Il ratto dal serraglio di Mozart, o, meglio, quello che ne è rimasto, per la regia di Martin Kušej, entusiasticamente supportata dal Sovrintendente Sani, e la direzione del direttore Nikolaj Znaider, in grave e non emendabile concorso di colpa, così come il cast di cantanti.

Die Entführung aus dem Serail è un Singspiel (lo stesso genere del più noto Der Zauberflöte, per intenderci), alterna cioè copiosi recitativi a numeri cantati (meravigliosi, in questo caso), su libretto di Gotlieb Stephanie. Andò in scena per la prima volta nel luglio 1782 quando Mozart era nel pieno dell’intreccio di amore, sesso, teatro, interessi, fiorini, contumelie, proposte, rimproveri e contratti che l’avrebbe portato al matrimonio con Constanze, sul quale Buscaroli ha scritto memorabili pagine (La morte di Mozart, Rizzoli, 1996, pp.54 e seguenti).

Proprio perché i recitativi – i pezzi parlati – si prestano ad essere agevolmente sostituiti, con disinvolta noncuranza sono stati riscritti da Albert Ostermaier – definito drammaturgo dal programma di sala e dalle informazioni sul sito – e così l’ammiccante e giocosa commedia amorosa a lieto fine, forse fatua e moderatamente licenziosa, è diventata, nell’abile regia manipolatoria, un polpettone geopolitico indigeribile, tra petrolio, deserto, tende, biechi colonizzatori, isis, psicanalisi, migranti e violenza.

Non so nulla di musica, non so leggere uno spartito, sono stonato come una campana (certificato, non lo dico per dire). Non sono un critico musicale e non mi addentro in un campo ignoto. Non sono fanatico di prassi esecutive e filologia musicale. Vado a teatro e all’opera, capisco poco e partecipo, più o meno intensamente.

Sono al corrente che per essere fruita l’opera teatrale e lirica richiede una messa in scena, una rappresentazione, e che perciò l’autore ha firmato una cambiale in bianco con i posteri, prestandosi ad essere vittima sacrificale sull’altare dell’ego di questo o quel regista. So che recite e concerti sono considerati da attori, registi, compositori, professori d’orchestra e personale teatrale quali comode occasioni per sermoni politici e per rivendicazioni sindacali.

Tuttavia quest’ennesimo stupro assurge a perfetto emblema della rinnovata missione educativa, vagamente ricattatoria, in ossequio al violento mainstream politicamente corretto in auge, come esprime bene il Sovrintendente Sani nel pezzo pubblicato da Il Resto del Carlino “Io credo che un tradimento si sarebbe perpetrato se avessimo mantenuto inalterato il libretto scritto all’epoca. La lirica è materia viva, ha il compito di affrontare i temi della quotidianità, di farci riflettere, di provocare reazioni contrastanti, anche, proprio come avviene con il Ratto ancora prima che vada in scena. Compito di un teatro è quello di leggere la contemporaneità e avvicinare alla lirica un pubblico giovane. Altrimenti chiudiamo e spostiamo tutto nelle teche di un museo”.

Secondo questo delirio di onnipotenza, lo spettatore non ha alcun diritto (vogliamo parlare di sinallagma contrattuale?), bensì il dovere di tacere e abbeverarsi a fonti salvifiche che pretendono di leggere la realtà e di filtrarla a beneficio del popolo bue.

In merito al Ratto, sarebbe inutile chiedere un esercizio di umiltà, un veloce ripasso di storia e di letteratura, all’esito del quale con stupore questi soloni potrebbero forse anche riuscire a collocare più propriamente Il Ratto in un’epoca che – da poco e potremmo dire per poco – aveva esorcizzato la paura del turco (allora, non oggi, Vienna, Buda, Zenta, Petervaradino, Belgrado dicevano ancora qualcosa al pubblico).

Attendo che a qualche geniale regista militante della causa lgbtq (ecc.) venga in mente la brillante idea di mettere in scena un Rigoletto con il Duca di Mantova che non brama di suggere cinicamente felicità su seni ben torniti (orribilmente sessista!) ma placidamente su villosi pettorali, e, per finire, violenti a piacimento il libretto di Piave.

Non resta allora che sperare in un Cyrano che spavaldamente interrompa il moderno Montfleury (allora attore, oggi regista) al grido “Coquin, ne t’ai-je pas interdit pour un mois” e, non pago, lo sfidi a duello. Un tempo si moriva per affronti molto meno gravi di quello perpetrato a Mozart dal duo Kušej-Sani.

Altrimenti ci rassegneremo a ricorrere al Giudice di Pace per il rimborso del biglietto e per il procurato disagio da rappresentazione rovinata. L’indole mi impedisce di credere che questa sia l’unica strada percorribile.

Bologna, 6 febbraio 2017

   

 

Vorrei essere serio e occuparmi della prevedibile cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, delle inquietanti dichiarazioni di Davigo, della nullità del contratto sottoscritto dai candidati cinquestelle, della nuova legge marketing sul bullismo, ma essere fatuo ha alcuni improcrastinabili doveri, a cui mi sottometto docilmente.

Al Comunale di Bologna è andato in scena a gennaio Il ratto dal serraglio di Mozart, o, meglio, quello che ne è rimasto, per la regia di Martin Kušej, entusiasticamente supportata dal Sovrintendente Sani, e la direzione del direttore Nikolaj Znaider, in grave e non emendabile concorso di colpa, così come il cast di cantanti.

Die Entführung aus dem Serail è un Singspiel (lo stesso genere del più noto Der Zauberflöte, per intenderci), alterna cioè copiosi recitativi a numeri cantati (meravigliosi, in questo caso), su libretto di Gotlieb Stephanie. Andò in scena per la prima volta nel luglio 1782 quando Mozart era nel pieno dell’intreccio di amore, sesso, teatro, interessi, fiorini, contumelie, proposte, rimproveri e contratti che l’avrebbe portato al matrimonio con Constanze, sul quale Buscaroli ha scritto memorabili pagine (La morte di Mozart, Rizzoli, 1996, pp.54 e seguenti).

Proprio perché i recitativi – i pezzi parlati – si prestano ad essere agevolmente sostituiti, con disinvolta noncuranza sono stati riscritti da Albert Ostermaier – definito drammaturgo dal programma di sala e dalle informazioni sul sito – e così l’ammiccante e giocosa commedia amorosa a lieto fine, forse fatua e moderatamente licenziosa, è diventata, nell’abile regia manipolatoria, un polpettone geopolitico indigeribile, tra petrolio, deserto, tende, biechi colonizzatori, isis, psicanalisi, migranti e violenza.

Non so nulla di musica, non so leggere uno spartito, sono stonato come una campana (certificato, non lo dico per dire). Non sono un critico musicale e non mi addentro in un campo ignoto. Non sono fanatico di prassi esecutive e filologia musicale. Vado a teatro e all’opera, capisco poco e partecipo, più o meno intensamente.

Sono al corrente che per essere fruita l’opera teatrale e lirica richiede una messa in scena, una rappresentazione, e che perciò l’autore ha firmato una cambiale in bianco con i posteri, prestandosi ad essere vittima sacrificale sull’altare dell’ego di questo o quel regista. So che recite e concerti sono considerati da attori, registi, compositori, professori d’orchestra e personale teatrale quali comode occasioni per sermoni politici e per rivendicazioni sindacali.

Tuttavia quest’ennesimo stupro assurge a perfetto emblema della rinnovata missione educativa, vagamente ricattatoria, in ossequio al violento mainstream politicamente corretto in auge, come esprime bene il Sovrintendente Sani nel pezzo pubblicato da Il Resto del Carlino “Io credo che un tradimento si sarebbe perpetrato se avessimo mantenuto inalterato il libretto scritto all’epoca. La lirica è materia viva, ha il compito di affrontare i temi della quotidianità, di farci riflettere, di provocare reazioni contrastanti, anche, proprio come avviene con il Ratto ancora prima che vada in scena. Compito di un teatro è quello di leggere la contemporaneità e avvicinare alla lirica un pubblico giovane. Altrimenti chiudiamo e spostiamo tutto nelle teche di un museo”.

Secondo questo delirio di onnipotenza, lo spettatore non ha alcun diritto (vogliamo parlare di sinallagma contrattuale?), bensì il dovere di tacere e abbeverarsi a fonti salvifiche che pretendono di leggere la realtà e di filtrarla a beneficio del popolo bue.

In merito al Ratto, sarebbe inutile chiedere un esercizio di umiltà, un veloce ripasso di storia e di letteratura, all’esito del quale con stupore questi soloni potrebbero forse anche riuscire a collocare più propriamente Il Ratto in un’epoca che – da poco e potremmo dire per poco – aveva esorcizzato la paura del turco (allora, non oggi, Vienna, Buda, Zenta, Petervaradino, Belgrado dicevano ancora qualcosa al pubblico).

Attendo che a qualche geniale regista militante della causa lgbtq (ecc.) venga in mente la brillante idea di mettere in scena un Rigoletto con il Duca di Mantova che non brama di suggere cinicamente felicità su seni ben torniti (orribilmente sessista!) ma placidamente su villosi pettorali, e, per finire, violenti a piacimento il libretto di Piave.

Non resta allora che sperare in un Cyrano che spavaldamente interrompa il moderno Montfleury (allora attore, oggi regista) al grido “Coquin, ne t’ai-je pas interdit pour un mois” e, non pago, lo sfidi a duello. Un tempo si moriva per affronti molto meno gravi di quello perpetrato a Mozart dal duo Kušej-Sani.

Altrimenti ci rassegneremo a ricorrere al Giudice di Pace per il rimborso del biglietto e per il procurato disagio da rappresentazione rovinata. L’indole mi impedisce di credere che questa sia l’unica strada percorribile.