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Tutela dell’embrione e ricerca scientifica: la consulta invoca l’intervento del legislatore

Tutela dell’embrione e ricerca scientifica: la consulta invoca l’intervento del legislatore
Tutela dell’embrione e ricerca scientifica: la consulta invoca l’intervento del legislatore

Con la sentenza n. 84 del 13 aprile 2016, la Consulta ha affrontato la delicata questione del «bilanciamento costituzionalmente ragionevole tra tutela dell’embrione e interesse alla ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute (individuale e collettiva)», focalizzando l’attenzione, in particolare, sugli embrioni c.d. “soprannumerari”, ossia embrioni prodotti nell’ambito delle tecniche di PMA e crioconservati, perché non più in grado di essere impiantati.

 

Sommario:

1. Il caso

2. Le questioni di legittimità costituzionale

3. Il caso Parrillo c. Italia

4. una «scelta tragica»: ricerca scientifica vs. rispetto della vita “in nuce

5. la sentenza della Consulta

 

1. Il caso

La pronuncia in commento origina da un’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Firenze sollevata nell’ambito di un procedimento di urgenza ex articolo 700 c.p.c. con cui la ricorrente, sottopostasi a diversi cicli di procreazione medicalmente assistita (PMA), chiedeva, unitamente al proprio coniuge, di intimare al centro medico al quale si era rivolta di riconsegnarle gli embrioni prodotti (dieci in tutto), avendo intenzione di destinare i nove embrioni risultati non impiantabili (quattro perché non biopsabili e cinque perché affetti da esostosi) ad attività mediche diagnostiche e di ricerca scientifica connesse alla propria (trasmessa) patologia genetica, ed intendendo, comunque, revocare il consenso, già prestato, al trasferimento in utero anche del decimo embrione residuo, trattandosi di «materiale di media qualità».

 

2. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Più in particolare, sono stati sottoposti a scrutinio di costituzionalità:

a) l’articolo 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), relativamente al «divieto assoluto», ivi previsto, «di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale sull’embrione che non risulti finalizzata alla tutela dello stesso», per sospetto contrasto con gli articoli 2, 3 (sotto il profilo della ragionevolezza), 9, 13, 31, 32 e 33, primo comma, della Costituzione. Ad avviso del rimettente, infatti, il divieto censurato - nella sua assolutezza - si risolveva «nella completa negazione delle esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica, proprio in quei settori quali la terapia genica e l’impiego delle cellule staminali embrionali, che la comunità medico-scientifica ritiene fra i più promettenti per la cura di numerose e gravi patologie».

b) l’articolo 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge stessa, quanto al «divieto assoluto di revoca del consenso alla PMA dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo», in riferimento agli articoli 2, 13, 31, 32, 33, primo comma, della Costituzione, posto che a cagione del divieto suddetto il paziente «verrebbe espropriato della possibilità di revocare l’assenso al medico di eseguire atti sicuramente invasivi della propria integrità psico-fisica».

Orbene, invertendo l’ordine dei quesiti, il Giudice delle leggi ha esaminato preliminarmente la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge n. 40 del 2004 dichiarandola inammissibile «per il carattere meramente ipotetico, e non attuale, della sua rilevanza».

Ed invero, nel giudizio della Consulta, dirimente rilievo ha assunto la circostanza – riferita dallo stesso Tribunale fiorentino – in forza della quale la ricorrente, dopo avere dichiarato in un primo momento di non volersi sottoporre all’impianto in utero dell’unico embrione (tra i dieci prodotti) sicuramente non affetto da patologie, aveva poi comunque accettato di portare a termine – e ciò ha fatto, sia pur con esito non positivo – il trattamento di PMA.

Venendo, poi, alla denuncia di illegittimità costituzionale del successivo articolo 13 della legge n. 40 del 2004, la Corte ha individuato il nucleo centrale della disamina nel «conflitto, gravido di implicazioni etiche oltreché giuridiche, tra il diritto della scienza (e i vantaggi della ricerca ad esso collegati) e il diritto dell’embrione, per il profilo della tutela (debole o forte) ad esso dovuta in ragione e in misura del (più o meno ampio) grado di soggettività e di dignità antropologica che gli venga riconosciuto», sottolineando come quello in questione si risolva in un conflitto «in ordine alla cui soluzione i giuristi, gli scienziati e la stessa società civile sono profondamente divisi; ed anche le legislazioni, i comitati etici e le commissioni speciali dei molti Paesi che hanno affrontato il problema, approfondendone le implicazioni, sono ben lungi dell’essere pervenuti a risultati su cui converga un generale consenso».

Ciò posto, la Consulta, all’esito di un dettagliato excursus dei propri precedenti pronunciamenti, ha chiarito che, in virtù dell’essenza dell’embrione quale «entità che ha in sé il principio della vita» (bios), la tutela della sua «dignità» – elevata al rango di valore di rilievo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’articolo 2 della Costituzione - lungi dall’essere «suscettibile di affievolimento (ove e) per il solo fatto che si tratti di embrioni affetti da malformazione genetica» - è ritenuta, al più, soggetta ad un naturale giudizio «bilanciamento, specie al fine della tutela delle esigenze della procreazione ed a quella della salute della donna»[1].

 

3. Il caso Parrillo c. Italia

A sostegno e supporto degli orientamenti summenzionati, la Corte costituzionale ha richiamato i principi emersi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza della Grande Camera del 27 agosto 2015 (Parrillo c. Italia).

La vicenda riguardava una cittadina italiana, Adelina Parrillo, la quale, sottopostasi insieme al proprio compagno ad un trattamento di procreazione medicalmente assistita nel 2002, decideva poi di non procedere all’impianto degli embrioni prodotti e crioconservati a causa della morte del compagno nell’attentato di Nasiriya in Iraq il 12 novembre 2003. Manifestata l’intenzione di donare i propri embrioni alla ricerca scientifica, la donna si vedeva opposto il fermo rifiuto della struttura sanitaria presso la quale gli embrioni erano conservati, a cagione del fatto che l’articolo 13 della legge 40/2004, frattanto entrata in vigore, prevedeva il divieto di qualsiasi attività di ricerca sugli embrioni.

Orbene, in quell’occasione la Corte europea, lasciando deliberatamente in disparte la «delicata e controversa questione del momento in cui inizia la vita umana»,  ha dichiarato non ricevibile il ricorso della parte per il profilo della denunciata violazione dell’articolo 1 del Protocollo addizionale (che tutela il diritto della persona al rispetto dei suoi beni) sulla base della impossibilità di considerare gli embrioni alla stregua di “beni” («human embryos can not be reduced to “possessions” within the meaning of that provvision»).

Ancora – ha osservato la Consulta nella sentenza in commento - il Giudice di Strasburgo ha escluso (con un unico voto dissenziente) la prospettata violazione dell’articolo 8 della CEDU, sul rilievo decisivo che il diritto, invocato dalla ricorrente, di donare gli embrioni (da lei prodotti) alla ricerca scientifica non trovava copertura in quella disposizione, in quanto non riguardante un aspetto particolarmente importante dell’esistenza e della identità della ricorrente medesima («it does not concern a particularly important aspect of the applicant’s existence and identity»).

Ma ad offrire una sponda possente all’iter argomentativo della Consulta nella decisione in esame è stata, in species, la “rilevazione” da parte della Corte europea della “complessità” della questione della donazione degli embrioni non destinati a impianto («destinata a sollevare delicate questioni morali ed etiche») nonché dell’inesistenza di un vasto consenso europeo in materia: elementi, questi, che nel giudizio del giudice europeo postulavano imprescindibilmente la sussistenza in capo agli Stati membri di un ampio margine di discrezionalità nella disciplina della materia de qua, non violata, nel caso di specie, dal Governo Italiano.

 

4. Una «scelta tragica»: ricerca scientifica vs. rispetto della vita “in nuce

Proseguendo lungo i binari così tracciati, in sostanziale conferma dell’essenza “controvertibile” della materia (così «ampiamente divisiva sul piano etico e scientifico» da non trovare «soluzioni significativamente uniformi neppure nella legislazione europea») la Consulta ha richiamato i due contrapposti orientamenti in campo:

da un lato, vi è chi, reclamando la necessità di un adeguato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco, ritiene che «a fronte dell’inevitabile estinzione cui vanno incontro gli embrioni non impiantabili (esistenze “in nuce” destinate all’ibernazione indefinita, prive di una reale possibilità di venire al mondo), il bilanciamento dovrebbe più ragionevolmente operarsi a favore della destinazione di tali embrioni agli scopi di una ricerca scientifica suscettibile di salvare la vita di milioni di esseri umani» e che «tale destinazione manifesti, nella situazione sopra descritta, un rispetto per la vita umana ben superiore al mero “lasciar perire”, dando un senso socialmente utile alla futura e inevitabile distruzione dell’ embrione… in una prospettiva umanitaria e solidaristica, riconducibile all’area di operatività del precetto dell’articolo 2 della Costituzione»;

sul fronte opposto vi è chi, ripudiando una concezione dell’embrione umano quale mero “prodotto” o materiale biologico, sostiene che il suo utilizzo come “oggetto” di ricerca, implicandone la inevitabile distruzione, si pone in radicale contrasto con la sua essenza di soggetto (ancorché solo in un continuum) dotato di autonoma dignità, e che sarebbe, comunque, giuridicamente inaccettabile «la pretesa dei genitori di considerarsi “proprietari” degli embrioni che abbiano generato come se questi fossero mero “materiale biologico” e non loro figli, e che si dona (a fini di ricerca scientifica) “qualcosa”, ma non si dona “qualcuno”, sia pure allo stato embrionale». Per di più, «il rispetto dovuto alla vita (ancorché solo “in nuce”) non dovrebbe consentire di equiparare l’“uccidere” al “lasciar morire”».

Come agevolmente intuibile, il contrasto si appunta intorno alla essenza stessa dell’embrione umano, sussumibile alternativamente nella summa divisio fra persona-res.

 

5. La sentenza della Consulta

Orbene, sulla scorta del delineato impianto motivazionale, i Giudici costituzionali si sono espressamente astenuti dall’effettuare un bilanciamento tra la dignità della vita dell’embrione e la libertà della ricerca scientifica, giungendo, in conclusione, a dichiarare inammissibile anche secondo il quesito di costituzionalità sollevato.

Ed invero, ad avviso della Consulta, quella sottoposta al suo scrutinio è una scelta intrisa «di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, da sottrarsi, per ciò stesso, al sindacato della Corte». Una «scelta tragica» – mutuando una icastica definizione avanzata in dottrina - tra il rispetto del principio della vita (che si racchiude nell’embrione ove pur affetto da patologia) e le esigenze della ricerca scientifica, la cui gravosa responsabilità non può che ricadere sul solo legislatore «interprete della volontà della collettività… chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale».

Né - ha affermato laconicamente il giudice delle leggi - una soluzione di segno inverso potrebbe innestarsi nel tessuto normativo a mezzo di un proprio intervento additivo, stante il carattere “non a rime obbligate” dello stesso.

Il differente bilanciamento dei valori in conflitto non potrebbe, infatti, non attraversare (e misurarsi con) una serie di molteplici opzioni intermedie che resterebbero, anch’esse, inevitabilmente riservate al legislatore.

«Unicamente al legislatore, infatti, compete la valutazione di opportunità (sulla base anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine, tra l’altro, alla utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca suscettibili di giustificare il “sacrificio” dell’embrione; alla eventualità, ed alla determinazione della durata, di un previo periodo di crioconservazione; alla opportunità o meno (dopo tali periodi) di un successivo interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la “commercializzazione“ degli embrioni residui».

Trincerandosi dietro la intangibile discrezionalità del legislatore, la Consulta ha deciso “di non decidere”. In questo quadro, la questione del trattamento degli embrioni criocongelati resta, quindi, un’urgenza a cui far fronte.

 

[1] In tal senso, sent. n. 151/2009 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui vietava la produzione di embrioni in numero superiore a tre e ne imponeva, comunque, la destinazione ad un unico e contemporaneo impianto, derogando, pertanto, al divieto di crioconservazione sancito in via generale nel precedente comma 1 della stessa disposizione, in ragione della necessità del ricorso alla tecnica di congelamento, nei centri di PMA, con riguardo, appunto, agli embrioni prodotti ma non impiantati.

Cfr., altresì, sent. n. 96/2015 la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai medesimi criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) – ha con ciò reso possibile la diagnosi preimpianto, al fine di evitare il trasferimento, in utero della donna, degli embrioni affetti da siffatte patologie genetiche.

Cfr, infine, sentenza n. 229 del 2015, con cui il giudice delle leggi, intervenendo in ambito penale – oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004 (sul reato di selezione degli embrioni), in (esclusiva) correlazione al contenuto della precedente sentenza n. 96 del 2015 – ha, invece, escluso la fondatezza della questione (contestualmente in quel giudizio sollevata) di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, della stessa legge, che vieta penalmente sanzionandola, la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove affetti da malattia genetica. E ciò, sulla importante premessa che l’embrione, «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico» per cui «il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova […] giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista». 

Con la sentenza n. 84 del 13 aprile 2016, la Consulta ha affrontato la delicata questione del «bilanciamento costituzionalmente ragionevole tra tutela dell’embrione e interesse alla ricerca scientifica finalizzata alla tutela della salute (individuale e collettiva)», focalizzando l’attenzione, in particolare, sugli embrioni c.d. “soprannumerari”, ossia embrioni prodotti nell’ambito delle tecniche di PMA e crioconservati, perché non più in grado di essere impiantati.

 

Sommario:

1. Il caso

2. Le questioni di legittimità costituzionale

3. Il caso Parrillo c. Italia

4. una «scelta tragica»: ricerca scientifica vs. rispetto della vita “in nuce

5. la sentenza della Consulta

 

1. Il caso

La pronuncia in commento origina da un’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Firenze sollevata nell’ambito di un procedimento di urgenza ex articolo 700 c.p.c. con cui la ricorrente, sottopostasi a diversi cicli di procreazione medicalmente assistita (PMA), chiedeva, unitamente al proprio coniuge, di intimare al centro medico al quale si era rivolta di riconsegnarle gli embrioni prodotti (dieci in tutto), avendo intenzione di destinare i nove embrioni risultati non impiantabili (quattro perché non biopsabili e cinque perché affetti da esostosi) ad attività mediche diagnostiche e di ricerca scientifica connesse alla propria (trasmessa) patologia genetica, ed intendendo, comunque, revocare il consenso, già prestato, al trasferimento in utero anche del decimo embrione residuo, trattandosi di «materiale di media qualità».

 

2. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Più in particolare, sono stati sottoposti a scrutinio di costituzionalità:

a) l’articolo 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), relativamente al «divieto assoluto», ivi previsto, «di qualsiasi ricerca clinica o sperimentale sull’embrione che non risulti finalizzata alla tutela dello stesso», per sospetto contrasto con gli articoli 2, 3 (sotto il profilo della ragionevolezza), 9, 13, 31, 32 e 33, primo comma, della Costituzione. Ad avviso del rimettente, infatti, il divieto censurato - nella sua assolutezza - si risolveva «nella completa negazione delle esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica, proprio in quei settori quali la terapia genica e l’impiego delle cellule staminali embrionali, che la comunità medico-scientifica ritiene fra i più promettenti per la cura di numerose e gravi patologie».

b) l’articolo 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge stessa, quanto al «divieto assoluto di revoca del consenso alla PMA dopo l’avvenuta fecondazione dell’ovulo», in riferimento agli articoli 2, 13, 31, 32, 33, primo comma, della Costituzione, posto che a cagione del divieto suddetto il paziente «verrebbe espropriato della possibilità di revocare l’assenso al medico di eseguire atti sicuramente invasivi della propria integrità psico-fisica».

Orbene, invertendo l’ordine dei quesiti, il Giudice delle leggi ha esaminato preliminarmente la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge n. 40 del 2004 dichiarandola inammissibile «per il carattere meramente ipotetico, e non attuale, della sua rilevanza».

Ed invero, nel giudizio della Consulta, dirimente rilievo ha assunto la circostanza – riferita dallo stesso Tribunale fiorentino – in forza della quale la ricorrente, dopo avere dichiarato in un primo momento di non volersi sottoporre all’impianto in utero dell’unico embrione (tra i dieci prodotti) sicuramente non affetto da patologie, aveva poi comunque accettato di portare a termine – e ciò ha fatto, sia pur con esito non positivo – il trattamento di PMA.

Venendo, poi, alla denuncia di illegittimità costituzionale del successivo articolo 13 della legge n. 40 del 2004, la Corte ha individuato il nucleo centrale della disamina nel «conflitto, gravido di implicazioni etiche oltreché giuridiche, tra il diritto della scienza (e i vantaggi della ricerca ad esso collegati) e il diritto dell’embrione, per il profilo della tutela (debole o forte) ad esso dovuta in ragione e in misura del (più o meno ampio) grado di soggettività e di dignità antropologica che gli venga riconosciuto», sottolineando come quello in questione si risolva in un conflitto «in ordine alla cui soluzione i giuristi, gli scienziati e la stessa società civile sono profondamente divisi; ed anche le legislazioni, i comitati etici e le commissioni speciali dei molti Paesi che hanno affrontato il problema, approfondendone le implicazioni, sono ben lungi dell’essere pervenuti a risultati su cui converga un generale consenso».

Ciò posto, la Consulta, all’esito di un dettagliato excursus dei propri precedenti pronunciamenti, ha chiarito che, in virtù dell’essenza dell’embrione quale «entità che ha in sé il principio della vita» (bios), la tutela della sua «dignità» – elevata al rango di valore di rilievo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’articolo 2 della Costituzione - lungi dall’essere «suscettibile di affievolimento (ove e) per il solo fatto che si tratti di embrioni affetti da malformazione genetica» - è ritenuta, al più, soggetta ad un naturale giudizio «bilanciamento, specie al fine della tutela delle esigenze della procreazione ed a quella della salute della donna»[1].

 

3. Il caso Parrillo c. Italia

A sostegno e supporto degli orientamenti summenzionati, la Corte costituzionale ha richiamato i principi emersi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza della Grande Camera del 27 agosto 2015 (Parrillo c. Italia).

La vicenda riguardava una cittadina italiana, Adelina Parrillo, la quale, sottopostasi insieme al proprio compagno ad un trattamento di procreazione medicalmente assistita nel 2002, decideva poi di non procedere all’impianto degli embrioni prodotti e crioconservati a causa della morte del compagno nell’attentato di Nasiriya in Iraq il 12 novembre 2003. Manifestata l’intenzione di donare i propri embrioni alla ricerca scientifica, la donna si vedeva opposto il fermo rifiuto della struttura sanitaria presso la quale gli embrioni erano conservati, a cagione del fatto che l’articolo 13 della legge 40/2004, frattanto entrata in vigore, prevedeva il divieto di qualsiasi attività di ricerca sugli embrioni.

Orbene, in quell’occasione la Corte europea, lasciando deliberatamente in disparte la «delicata e controversa questione del momento in cui inizia la vita umana»,  ha dichiarato non ricevibile il ricorso della parte per il profilo della denunciata violazione dell’articolo 1 del Protocollo addizionale (che tutela il diritto della persona al rispetto dei suoi beni) sulla base della impossibilità di considerare gli embrioni alla stregua di “beni” («human embryos can not be reduced to “possessions” within the meaning of that provvision»).

Ancora – ha osservato la Consulta nella sentenza in commento - il Giudice di Strasburgo ha escluso (con un unico voto dissenziente) la prospettata violazione dell’articolo 8 della CEDU, sul rilievo decisivo che il diritto, invocato dalla ricorrente, di donare gli embrioni (da lei prodotti) alla ricerca scientifica non trovava copertura in quella disposizione, in quanto non riguardante un aspetto particolarmente importante dell’esistenza e della identità della ricorrente medesima («it does not concern a particularly important aspect of the applicant’s existence and identity»).

Ma ad offrire una sponda possente all’iter argomentativo della Consulta nella decisione in esame è stata, in species, la “rilevazione” da parte della Corte europea della “complessità” della questione della donazione degli embrioni non destinati a impianto («destinata a sollevare delicate questioni morali ed etiche») nonché dell’inesistenza di un vasto consenso europeo in materia: elementi, questi, che nel giudizio del giudice europeo postulavano imprescindibilmente la sussistenza in capo agli Stati membri di un ampio margine di discrezionalità nella disciplina della materia de qua, non violata, nel caso di specie, dal Governo Italiano.

 

4. Una «scelta tragica»: ricerca scientifica vs. rispetto della vita “in nuce

Proseguendo lungo i binari così tracciati, in sostanziale conferma dell’essenza “controvertibile” della materia (così «ampiamente divisiva sul piano etico e scientifico» da non trovare «soluzioni significativamente uniformi neppure nella legislazione europea») la Consulta ha richiamato i due contrapposti orientamenti in campo:

da un lato, vi è chi, reclamando la necessità di un adeguato contemperamento dei contrapposti interessi in gioco, ritiene che «a fronte dell’inevitabile estinzione cui vanno incontro gli embrioni non impiantabili (esistenze “in nuce” destinate all’ibernazione indefinita, prive di una reale possibilità di venire al mondo), il bilanciamento dovrebbe più ragionevolmente operarsi a favore della destinazione di tali embrioni agli scopi di una ricerca scientifica suscettibile di salvare la vita di milioni di esseri umani» e che «tale destinazione manifesti, nella situazione sopra descritta, un rispetto per la vita umana ben superiore al mero “lasciar perire”, dando un senso socialmente utile alla futura e inevitabile distruzione dell’ embrione… in una prospettiva umanitaria e solidaristica, riconducibile all’area di operatività del precetto dell’articolo 2 della Costituzione»;

sul fronte opposto vi è chi, ripudiando una concezione dell’embrione umano quale mero “prodotto” o materiale biologico, sostiene che il suo utilizzo come “oggetto” di ricerca, implicandone la inevitabile distruzione, si pone in radicale contrasto con la sua essenza di soggetto (ancorché solo in un continuum) dotato di autonoma dignità, e che sarebbe, comunque, giuridicamente inaccettabile «la pretesa dei genitori di considerarsi “proprietari” degli embrioni che abbiano generato come se questi fossero mero “materiale biologico” e non loro figli, e che si dona (a fini di ricerca scientifica) “qualcosa”, ma non si dona “qualcuno”, sia pure allo stato embrionale». Per di più, «il rispetto dovuto alla vita (ancorché solo “in nuce”) non dovrebbe consentire di equiparare l’“uccidere” al “lasciar morire”».

Come agevolmente intuibile, il contrasto si appunta intorno alla essenza stessa dell’embrione umano, sussumibile alternativamente nella summa divisio fra persona-res.

 

5. La sentenza della Consulta

Orbene, sulla scorta del delineato impianto motivazionale, i Giudici costituzionali si sono espressamente astenuti dall’effettuare un bilanciamento tra la dignità della vita dell’embrione e la libertà della ricerca scientifica, giungendo, in conclusione, a dichiarare inammissibile anche secondo il quesito di costituzionalità sollevato.

Ed invero, ad avviso della Consulta, quella sottoposta al suo scrutinio è una scelta intrisa «di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, da sottrarsi, per ciò stesso, al sindacato della Corte». Una «scelta tragica» – mutuando una icastica definizione avanzata in dottrina - tra il rispetto del principio della vita (che si racchiude nell’embrione ove pur affetto da patologia) e le esigenze della ricerca scientifica, la cui gravosa responsabilità non può che ricadere sul solo legislatore «interprete della volontà della collettività… chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale».

Né - ha affermato laconicamente il giudice delle leggi - una soluzione di segno inverso potrebbe innestarsi nel tessuto normativo a mezzo di un proprio intervento additivo, stante il carattere “non a rime obbligate” dello stesso.

Il differente bilanciamento dei valori in conflitto non potrebbe, infatti, non attraversare (e misurarsi con) una serie di molteplici opzioni intermedie che resterebbero, anch’esse, inevitabilmente riservate al legislatore.

«Unicamente al legislatore, infatti, compete la valutazione di opportunità (sulla base anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine, tra l’altro, alla utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca suscettibili di giustificare il “sacrificio” dell’embrione; alla eventualità, ed alla determinazione della durata, di un previo periodo di crioconservazione; alla opportunità o meno (dopo tali periodi) di un successivo interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata volontà di abbandono dell’embrione e di sua destinazione alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la “commercializzazione“ degli embrioni residui».

Trincerandosi dietro la intangibile discrezionalità del legislatore, la Consulta ha deciso “di non decidere”. In questo quadro, la questione del trattamento degli embrioni criocongelati resta, quindi, un’urgenza a cui far fronte.

 

[1] In tal senso, sent. n. 151/2009 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui vietava la produzione di embrioni in numero superiore a tre e ne imponeva, comunque, la destinazione ad un unico e contemporaneo impianto, derogando, pertanto, al divieto di crioconservazione sancito in via generale nel precedente comma 1 della stessa disposizione, in ragione della necessità del ricorso alla tecnica di congelamento, nei centri di PMA, con riguardo, appunto, agli embrioni prodotti ma non impiantati.

Cfr., altresì, sent. n. 96/2015 la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA alle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai medesimi criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) – ha con ciò reso possibile la diagnosi preimpianto, al fine di evitare il trasferimento, in utero della donna, degli embrioni affetti da siffatte patologie genetiche.

Cfr, infine, sentenza n. 229 del 2015, con cui il giudice delle leggi, intervenendo in ambito penale – oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004 (sul reato di selezione degli embrioni), in (esclusiva) correlazione al contenuto della precedente sentenza n. 96 del 2015 – ha, invece, escluso la fondatezza della questione (contestualmente in quel giudizio sollevata) di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1 e 6, della stessa legge, che vieta penalmente sanzionandola, la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove affetti da malattia genetica. E ciò, sulla importante premessa che l’embrione, «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico» per cui «il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova […] giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».