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Le presunzioni tributarie nel processo penale

Le presunzioni tributarie nel processo penale
Le presunzioni tributarie nel processo penale

Abstract

Con recente sentenza, il Tribunale di Lodi[1] torna a respingere il tentativo dell’Amministrazione Finanziaria di versare nel processo penale le risultanze di accertamenti fiscali induttivi, basati esclusivamente sulle presunzioni tributarie. Nel contempo, il Tribunale stigmatizza anche l’acquiescenza spesso mostrata dalle Procure verso quelle risultanze, ove limitata all’acritico recepimento dell’esito dell’accertamento finanziario.

 

Le fonti normative

Le presunzioni tributarie sono previste dall’articolo 32 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600 per quanto riguarda le Imposte Dirette, e dall’articolo 51 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1973 n. 633 per quanto riguarda l’Imposta sul Valore Aggiunto, secondo il medesimo principio dell’inversione dell’onere della prova, quest’ultimo gravante sul contribuente.

In sintesi, queste norme prevedono che i dati e gli elementi attinenti a rapporti e operazioni di natura finanziaria, assicurativa e simili, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile, ovvero non ne dimostri l’estraneità; alle stesse condizioni, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, sono posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, i prelevamenti nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni.

Il più comune campo di applicazione delle presunzioni è, con tutta evidenza, quello dei conti bancari: indipendentemente dalla loro intestazione, le operazioni comunque effettuate da uno stesso soggetto vengono recuperate a reddito ai fini delle II.DD., ovvero a massa imponibile ai fini IVA, se non è il soggetto medesimo a provarne l’estraneità. E ciò non solo per le operazioni di natura attiva (es., versamenti in conto corrente), ma anche per le operazioni passive, quali prelievi o addebiti in genere, poiché per queste si presume la finalità di sostenere un costo in nero, non documentato dal contribuente proprio allo scopo di celare il relativo ritorno reddituale.

Sennonché, la pratica quotidiana insegna che l’eccessivo affidamento troppo spesso riposto negli accertamenti fiscali induttivi, ove fondati non sull’effettiva analisi delle operazioni di impresa, bensì sulla fallace efficacia presuntiva attribuita a rilevazioni in qualche modo ricondotte al contribuente, può condurre a un’esasperazione dello stesso meccanismo di inversione dell’onere della prova, laddove obbliga il contribuente a una probatio diabolica. Si pensi ai casi in cui al contribuente imprenditore vengano ricondotte operazioni bancarie estranee all’attività di impresa, estendendosi a rapporti in qualunque modo collegati: ad esempio, i conti bancari di familiari, la cui reale titolarità non interessa al verificatore fiscale, il quale si attiene alle presunzioni anzidette.

 

[1] Trib. Lodi, Sez. Pen., est. Lisciandra, sentenza 2 dicembre 2016 n. 940.

La rilevanza penale delle presunzioni tributarie

Invero, il diritto tributario non dimentica le garanzie del contribuente; ma, nell’esigenza di semplificare il complesso lavoro del verificatore fiscale – non di rado ostacolato dalle zone d’ombra di scritture contabili imprecise, se non addirittura da dolosi artifici di contribuenti disonesti – punta ad agevolare il verificatore lasciando che sia il contribuente a spiegare la natura delle operazioni non immediatamente decifrabili. Da qui, il ricorso a meccanismi presuntivi che ribaltano sul contribuente l’onere della prova in punto alla correttezza di operazioni che ha pur sempre posto in essere.

Il momento più delicato si ha tuttavia allorché, dalla base imponibile così recuperata, si addiviene alla determinazione di imposta presuntivamente evasa in misura superiore alle soglie di punibilità penale via via previste, per le singole fattispecie, dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, pertanto tramutando l’accertamento fiscale in notitia criminis.

In quest’ultima evenienza, i principi di diritto tributario, se male applicati, rischiano di scontrarsi con le guarentigie previste in favore del contribuente/indagato, il quale non è tenuto a offrire collaborazione al verificatore/inquirente, ben potendo pretendere che sia quest’ultimo a raccogliere le prove della di lui colpevolezza. Il che è tanto più vero ove si consideri che, secondo il combinato disposto degli articoli 63 e 191 del codice di procedura penale, la verifica tributaria non è utilizzabile nel processo penale se assunta senza il rispetto delle garanzie difensive che tutelano il contribuente nel momento in cui rilascia dichiarazioni indizianti di valenza penale.

In altre parole, ove emergano indizi di reità durante la verifica tributaria, occorre procedere secondo le modalità della legge penale richiamate dall’articolo 220 delle Disposizioni di attuazione del c.p.p. giacché, diversamente, la parte del documento redatto successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile nel nascente processo penale[2].

Invece, lo stesso accertamento manterrà efficacia ai fini tributari[3], stante il principio di autonomia del procedimento penale rispetto alle procedure tributarie, sancito in linea di principio dall’articolo 20 del D.Lgs. n. 74/2000, in armonia con le disposizioni generali dettate dagli articoli 2 e 654 c.p.p., rispettivamente, sulla autonomia del giudice penale nel decidere incidenter tantum le questioni civili o amministrative, e autonomia del giudice civile o amministrativo nell’accertamento dei fatti posti a base di sentenze penali anche irrevocabili, quando sia differente il regime probatorio.

Sempre a tal proposito, giova ricordare che gli atti di accertamento fiscale, tanto compiuti da funzionari dell’Agenzia delle Entrate quanto compiuti da organi esterni quali la Guardia di Finanza, rientrano nella categoria dei documenti extraprocessuali ricognitivi di natura amministrativa. Per cui, nel momento in cui vengono posti a base della notitia criminis, essi restano soggetti (prima) alle indagini di competenza del Pubblico Ministero e (poi), al libero convincimento del Giudice, il quale, ove li acquisisse a norma dell’articolo 234 c.p.p., può ricavarne elementi di giudizio; entrambi non potranno quindi “adagiarsi” sulle risultanze di un atto amministrativo che poggi unicamente su presunzioni valide esclusivamente nell’ambito tributario, ma dovranno prenderne le mosse per ricercare riscontri oggettivi, tali da affermare la colpevolezza del contribuente oltre ogni ragionevole dubbio.

 

[2] CASS., Sez. III Pen., 18 novembre 2008 n. 6881. Principio già acquisito ex CASS., Sez. III Pen., 12 ottobre 1999 n. 13593; CASS., Sez. III Pen., 10 aprile 1997 n. 4432; CASS., Sez. III Pen., 21 gennaio 1997 n. 1969.

[3] Conforme CASS., Sez. Trib. Civ., 22 settembre 2010 n. 22986.

Trattasi di un tema ampiamente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza. Già in tempi meno recenti, autorevole dottrina[4] e giurisprudenza di merito[5] avevano escluso che le presunzioni tributarie possano rilevare nel processo penale, dove dominano i principi della presunzione di non colpevolezza, della ricerca della verità reale senza inversione dell’onere probatorio, della libertà delle prove e del libero convincimento del giudice. “Come è noto”, è stato osservato[6], “il nostro sistema tributario pullula di presunzioni legali: assolute, iuris tantum e semplici. Tali presunzioni, pur legittime e giustificabili nella sedes materiae di provenienza, non possono trovare acritico e indiscriminato diritto di cittadinanza nell’ordinamento penale”, giusta i principi testé affermati, ma devono trovare un riscontro oggettivo nelle prove acquisite; o, al limite, anche in altre presunzioni, purché queste siano gravi, precise e concordanti[7].

Sempre secondo la Scuola di base, “poco importa”, osserva un Autore[8], “anzi non conta nulla, che la procedura amministrativa preveda sue regole che, in ipotesi, garantiscano ugualmente il contraddittorio ovvero riconoscano al contribuente diritti analoghi a quelli che spettano all’indiziato nel processo penale: in tema di difesa penale è infatti esclusa ogni lettura equipollente delle garanzie previste ad altri fini”.

Con qualche disappunto dobbiamo tuttavia rimarcare come l’antico insegnamento sembri essere valso a poco, visto che ancor oggi la giurisprudenza si trova a dover intervenire ribadendo il proprio costante indirizzo: “Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie”, osserva la Suprema Corte con recente arresto[9], “pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa”.

Anche indipendentemente da tutto quanto sopra esposto in punto alla dirimente inefficacia delle presunzioni tributarie in generale, lo stesso principio è altresì valido ove si pretenda, con evidente eccesso di scrupolo[10], di recuperare a ricavo d’impresa tutti indistintamente gli accrediti registrati su conti correnti; e ancor più valido e pregnante è il principio ove la presunzione è estesa persino alle operazioni di prelievo da conti bancari[11].

Nell’uniforme orientamento giurisprudenziale, pertanto, le presunzioni tributarie non sono sufficienti ad affermare la responsabilità penale del contribuente. L’articolo 533, comma 1, c.p.p., prescrive che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”: il che significa che, in sede penale, la condanna deve seguire ad un effettivo accertamento delle circostanze costitutive del reato ascritto al contribuente.

 

[4] CASULA, Inutilizzabilità nel processo penale tributario degli accertamenti bancari eseguiti in sede di verifica fiscale, in Il fisco 1998 n. 12, pag. 3781; GIARDA, Le presunzioni nell'accertamento del reato tributario, in Le presunzioni in materia tributaria, Atti del Convegno Nazionale di Rimini del 22-23 febbraio 1985, Ed. Maggioli, Rimini, 1987, pag. 145; CORSO, Libertà di prova anche nel processo penale tributario, in Corr. Trib. 1986, pag. 1521; BARTOLINI, Accertamento induttivo: indizi e prove nel processo penale tributario, in Corr. Trib. 1986, pag. 2237; CORSO, Accertamento induttivo: una presunzione tributaria non trasferibile nel processo penale, in Corr. Trib. 1986, pag. 592; CAPOLUPO, I riflessi penali dell'accertamento sintetico induttivo, in Il fisco 1987, pag. 6488; GRANELLI, Rilevanza penale delle regole tributarie di determinazione del reddito, in Il fisco 1988, pag. 6057; FORTUNA, Presunzioni fiscali e procedimento penale, in Rass. Trib. 1988, II, pag. 879.

[5] Trib. Piacenza, 12 ottobre 2001 n. 937; Trib. Terni, 23 settembre 1988, in Corr. Trib. 1988 n. 48, pag. 3467; Comm. Trib. I grado di Venezia, 7 maggio 1988, in Rass. Trib. 1988, II, pag. 873; Trib. Salerno, 2 marzo 1988, in Il fisco 1988, pag. 7571; Trib. Venezia, 23 dicembre 1987, in Rass. Trib. 1988, II, pag. 873; Trib. pesaro, 3 agosto 1987, in Corr. Trib. 1988, pag. 761; Trib. Torino, Sez. IV, 25 maggio 1987, in Il fisco 1987, pag. 4837; Procura della Repubblica di Modica, 22 novembre 1986, in Corr. Trib. 1987 n. 15, pag. 996; Trib. Latina, 13 marzo 1986, in Rass. Trib. 1986, II, pag. 634; Trib. Pesaro, 3 ottobre 1985, in Corr. Trib. 1986, n. 6, pag. 377.

[6] BERNAZZANI, Le presunzioni tributarie nel processo penale: efficacia probatoria e rispetto delle “regole del gioco”, in Corr. Trib. 1989 n. 14, pag. 876. Conformi: TRAVERSI, Presunzioni tributarie e prove penali, in I reati in materia fiscale, a cura di Corso e Stortoni, Ed. UTET, Torino, 1990, pag. 775; IORIO A., I nuovi reati tributari, Ed. Wolters Kluver, Milano, 2015, pag. 34; IORIO A., Le presunzioni sono semplici indizi, in Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015, pag. 37.

[7] In giurisprudenza: CASS., Sez. III Pen., 25 gennaio 1991 n. 1564; CASS., Sez. III Pen., 23 giugno 1994 n. 7292; CASS., Sez. III Pen., 7 maggio 1998 n. 8536 in Il fisco 1998 n. 45, pag. 14781.

[8] CASULA, op. cit.

[9] CASS., Sez. III Pen., est. Scarcella, 2 marzo – 18 aprile 2016 n. 15899. Identico principio in CASS., Sez. III Pen., est. Gazzara, 4 dicembre 2014 – 17 febbraio 2015 n. 6823; CASS., Sez. III Pen., est. Orilia, 8 aprile – 9 settembre 2014 n. 37302; CASS., Sez. IV Pen., est. Iannello, 31 gennaio – 18 febbraio 2014 n. 7615; CASS., Sez. III Pen., est. Lombardi, 23 gennaio – 13 febbraio 2013 n. 7078; CASS., Sez. III Pen., est. Fiale, 26 febbraio – 28 maggio 2008 n. 21213.

[10] CASS., Sez. III Pen., n. 37302/14 cit.

[11] TOMASSINI, I prelevamenti non sono reddito, in Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2016, pag. 37; CASS., Sez. III Pen., 23 giugno – 16 luglio 2015 n. 30890; CASS., Sez. III Pen., 1 febbraio 1996 n. 2246. Ancora richiamando la più risalente giurisprudenza di merito che aveva anticipato il principio di inutilizzabilità in sede penale della presunzione di ricavi relativamente ai prelevamenti da conti bancari: Trib. Ravenna, G.I.P. est. Lacentra, 14 luglio 1995 n. 172, in Il fisco 1996 n. 13, pag. 3440; Trib. Saluzzo, G.I.P. est. Pasi, 27 maggio 1994, in Il fisco 1995 n. 46, pag. 10997.