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Riforma Balduzzi: il rimprovero colposo alla luce dell’articolo 3 della Legge n. 189 del 2012

Riforma Balduzzi: il rimprovero colposo alla luce dell’articolo 3 della Legge n. 189 del 2012
Riforma Balduzzi: il rimprovero colposo alla luce dell’articolo 3 della Legge n. 189 del 2012

1. Il ruolo delle regole cautelari nel rimprovero colposo

In via preliminare, occorre precisare che le forti incertezze legate all’individuazione delle regole cautelari nell’ambito della colpa generica rappresentano la cifra di fondo del diritto penale della medicina: diligenza, prudenza e perizia costituiscono infatti dei parametri aleatori, ai quali si può attribuire un contenuto sulla base di valutazioni ex post improntate ad una discrezionalità che potenzialmente non conosce neppure i limiti delle conoscenze maturate in un momento successivo alla condotta.

Il reato colposo integrerebbe così un comportamento offensivo, contrastante con un dato parametro che si addebita al soggetto di non aver saputo osservare. In questo caso, proprio la regola cautelare integrerebbe la tipicità del precetto colposo: la natura normativa della colpa si incentra, infatti, nella contrarietà della condotta a norme di comportamento, di natura modale, dirette a prevenire ed evitare determinati eventi.

La giurisprudenza, sottolinea poi come la natura normativa della colpa risulti maggiormente evidente nelle fattispecie causalmente orientate nelle quali il legislatore valorizza l’evento senza descrivere la condotta, lasciando che quest’ultima sia definita, pertanto, dalle regole cautelari che è chiamata a rispettare. È necessario dunque chiederci se le linee guida ed i protocolli possano o meno integrare regole cautelari identificabili con quel complesso di discipline che, con la legge c.d. “Balduzzi”, sono poste a fondamento della “nuova” responsabilità medica.

Ebbene, la cogenza delle linee guida e dei protocolli, nonché il loro assurgere a regole fondanti il rimprovero colposo, così come previsto dalla novella del 2012, presupporrebbe che esse costituiscano delle vere e proprie regole cautelari.

Tuttavia, non ci si nasconde che gran parte della dottrina nega che le linee guida e i protocolli possano assurgere a fonti di regole cautelari codificate, così come previsto dall’articolo 43 del codice penale, avendo gli stessi un valore meramente indicativo e non prescrittivo.

E ciò in forza del fatto che “è la natura della regola cautelare empirico scientifica, collegata alla verità delle conoscenze disponibili in un dato momento storico, che risulta refrattaria al paradigma della colpa specifica [...]. Il sapere scientifico, infatti, è soggetto per sua natura a continue evoluzioni. La pretesa di cristallizzarlo in una regola positiva equivale a datare la scienza e a bloccare l’efficacia preventiva della cautela, precludendone ulteriori sviluppi”.

A ben vedere, quando il legislatore fa riferimento alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica sottende il fatto che non tutte le linee guida e le buone pratiche sono uguali e che non tutte possono essere considerate egualmente rilevanti.

E, volendo privilegiare una soluzione ermeneutica che assicuri uno spazio applicativo alla legge c.d. “Balduzzi”, è necessario in primo luogo, individuare quali criteri le linee guida ed i protocolli debbano soddisfare per poter assurgere a parametro di valutazione della “nuova” colpa medica.

2. Linee guida e protocolli come nuovo parametro di colpa

Occorre, pertanto, procedere ad una classificazione tale da poter comprendere a quali condizioni e in quali ambiti sia possibile applicare il contenuto precettivo dell’articolo 3, Legge 189 del 2012. È opportuno rammentare come un appiattimento della colpa protocollare sulle linee guida potrebbe tradursi in un rimprovero che, esaurendosi sul giudizio formale di difformità del comportamento dalle prescrizioni, trasformerebbe il delitto colposo del medico in un reato di pericolo astratto o presunto.

In primo luogo, assume rilevanza centrale la ratio costitutiva delle norme in esame: le sole linee guida che rappresentano il precipitato modale di acquisizioni causali di matrice squisitamente scientifica e di finalità esclusivamente curativa possono aspirare ad avere una qualche rilevanza giuridica.

In buona sostanza, dette prescrizioni devono necessariamente essere frutto di una logica improntata al solo miglioramento delle cure, dell’assistenza e della salute del paziente. Viceversa e per vero nella maggior parte delle ipotesi, le linee guida ed i protocolli non sono (o non sono esclusivamente) animati da questa ratio, bensì da esigenze di razionalizzazione di spesa, che impongono una migliore allocazione delle risorse economiche della struttura sanitaria anche a discapito, talvolta, della salute del paziente.

Dunque, possiamo affermare che solamente le linee guida ed i protocolli che perseguono in via esclusiva finalità di cura possono assurgere a parametro di valutazione della “nuova” colpa.

Ma se riflettiamo più attentamente proprio sulle condizioni nelle quali è chiamato ad operare il sanitario, ci accorgiamo di non poter escludere a priori l’operatività della riforma c.d. “Balduzzi” ogni qual volta il sanitario abbia applicato linee guida o protocolli che rispondano anche ad esigenze di carattere economico. A questa conclusione dobbiamo giungere da un lato, valorizzando i contenuti di quelli che sono spesso protocolli misti, o per meglio dire che soddisfano esigenze di cura e di bilancio, e dall’altro, inquadrando l’operato del sanitario in un contesto quanto più realistico possibile.

Per questo motivo, verosimilmente, il giudice sarà chiamato, caso per caso, a valutare la ratio delle linee guida e dei protocolli osservati per individuare, almeno sotto questo profilo, l’ambito di operatività della riforma in questione, in un contesto che tenga in debito conto le condizioni nelle quali il medico si trova oggi ad operare.

Un secondo e diverso parametro classificatorio di linee guida e protocolli attiene al momento genetico degli stessi. La dottrina, in proposito, distingue fra linee guida di livello internazionale e linee guida di livello nazionale o locale.

Si ritiene che solo le prime possano avere un qualche rilievo giuridico, in quanto espressione di una comunità scientifica specialistica che condivide a livello sovranazionale le proprie acquisizioni e ne valida in tal modo il fondamento e la portata applicativa, come ad esempio le consensus conferences, quale strumento di condivisione e riconoscimento delle evidenze scientifiche acquisite e destinate a divenire patrimonio internazionale. In questo caso, enti, istituzioni e società scientifiche, lungi dal possedere una delega ufficiale da parte degli Stati, dei quali comunque sono espressione, si presentano in questi consessi che conferiscono rango scientifico alle acquisizioni maturate.

Alle stesse conclusioni non si può, evidentemente, giungere con riferimento alle linee guida di portata nazionale e neppure ai protocolli ed alle prassi applicative maturate ed applicate nelle singole unità ospedaliere o addirittura nei reparti.

Queste prescrizioni non possono essere ritenute rilevanti per una pluralità di motivi fra i quali emerge, in prima battuta, la settorialità delle acquisizioni, spesso frutto di valutazioni interne alla comunità scientifica o all’ente di riferimento. Esse, pertanto, non possono vantare quella validazione che conferisce loro generalità ed astrattezza applicativa.

In relazione, quindi, al criterio di attualità delle linee guida e dei protocolli, occorre precisare che questo si presenta tanto fondamentale quanto foriero di particolari problematiche applicative. Il problema della responsabilità del medico, infatti, nel caso di mancata disapplicazione delle linee guida e dei protocolli, nell’ipotesi in cui la condotta di questi abbia cagionato un evento lesivo o mortale impone di chiederci se ed a quali condizioni costituisca gross negligence la mancata contezza dell’obsolescenza della prescrizione applicativa.

Il problema può essere risolto sul versante della misura soggettiva della colpa ed in particolare alla luce del criterio della esigibilità della conoscenza della modifica intervenuta, quando questa, pur costituendo patrimonio della comunità scientifica di riferimento, non sia stata, tuttavia, recepita nelle linee guida nazionali o nei protocolli aziendali.

Da ciò discende che, solo laddove vi fosse la prova che la modifica ha realmente inciso sulle linee guida nazionali e che di essa si è dato ampiamente conto nei consessi scientifici e nelle riviste specialistiche, il medico avrebbe il preciso obbligo di conoscere i nuovi parametri operativi. Cosicché, in tutte le altre ipotesi, il medico dovrebbe considerarsi esonerato da qualsivoglia profilo di responsabilità.

Inoltre, le linee guida ed i protocolli debbono indicare con esattezza i comportamenti e gli strumenti idonei ad impedire il nocumento per la salute e la vita del paziente. L’ordinamento, scegliendo di consentire questo tipo di attività perché utili o necessarie al consesso umano, ne subordina l’esercizio al rispetto di regole che consentano di fronteggiare, limitare e talvolta azzerare il rischio.

La connotazione modale di simili prescrizioni si pone dunque quale caratteristica indefettibile al fine di individuare i requisiti tecnico - operativi al rispetto dei quali è subordinata la liceità dell’attività pericolosa.

In tal modo viene assicurato quell’equilibrio imprescindibile tra la libertà all’esercizio di attività rischiose e la tutela dei terzi e parimenti viene consentito di affermare che la tipicità colposa non possa nutrirsi di regole comportamentali che non abbiano ad oggetto una modalità d’azione.

È possibile, dunque, sostenere l’indefettibilità del carattere modale delle linee guida e dei protocolli in ambito medico, che debbono dettare con precisione ed in positivo l’azione doverosa, anche alla luce degli intenti che hanno animato la riforma c.d. “Balduzzi”, chiamata a contrastare la pericolosa diffusione della medicina difensiva incentrata proprio sui comportamenti ultraprudenziali del medico. Un meccanismo di valorizzazione omnicomprensiva di protocolli, a prescindere dalla loro classificazione in senso cautelare o meno, realizzerebbe una responsabilità per un versari in re illicita.

Ebbene, linee guida e protocolli consentono così di superare le instabili fondamenta della colpa generica basate sui concetti di negligenza, imprudenza ed imperizia solo dove integrino regole di condotta professionale a contenuto modale, direttamente incidenti sulla gestione e prevenzione del rischio, maturate, affermate e validate nell’ambito della comunità scientifica internazionale, formulate per un esclusivo o prevalente scopo di cura del paziente ed attualizzate sulla base dei continui progressi della scienza medica.

In nessun altro caso linee guida, protocolli e best practices potranno assumere un qualche rilievo ai sensi dell’articolo 3, I comma, della legge c.d. “Balduzzi”. Di fronte al silenzio della legge, la quale parla solo di linee guida e buone pratiche, senza operare quella necessaria e fondamentale distinzione fra la ratio, le fonti e le caratteristiche delle stesse, l’interprete è chiamato ad una operazione ermeneutica complessa e capillare, volta ad individuare i presupposti di legittimità entro i quali la novella può operare. A ben vedere, neppure la locuzione “accreditate dalla comunità scientifica” ci offre un criterio univoco idoneo a comprendere la ratio applicativa della norma.

Difatti ci si chiede quale comunità scientifica debba validare le linee guida ed protocolli. Il legislatore non ce lo dice ma l’interprete, non potendo accontentarsi di un riconoscimento nazionale o locale, dovrebbe esigere una validazione di rango internazionale.

3. L’esegesi della nuova norma

La formulazione dell’articolo 3, Legge 189 del 2012, non effettuando alcuna distinzione, finisce per lasciare nuovamente soli il medico ed il giudice dinanzi alla valutazione della liceità del proprio e dell’altrui comportamento.

Giudice e medico si troveranno a dover comprendere l’origine e la ratio della regola da applicare, comprenderne il profilo contenutistico e la validità applicativa anche alla luce dei continui progressi della scienza. Detta valutazione consentirà di capire in quali casi sarà necessario attenersi alle linee guida e ai protocolli e quelli nei quali le caratteristiche degli stessi, unitamente alle peculiarità della vicenda concreta, impongono di discostarsene.

Ebbene, occorre sottolineare come la riforma, tradendo le aspettative, parrebbe acuire le distanze fra un sapere ex ante ed un sapere ex post, formulabile alla luce di una complessità di valutazioni che spesso non sono possibili per il medico; ma soprattutto, come l’introduzione di questa novella normativa richieda invece un “super agente modello” che sappia da subito comprendere tutte le caratteristiche delle regole che è chiamato ad applicare e che sia in grado di discernere i casi nei quali tali regole abbiano una qualche rilevanza.

A ben vedere, sembrerebbe che il tentativo di normativizzazione e tipizzazione del rimprovero colposo sia andato in fumo nel momento in cui il legislatore, subordinandone l’applicabilità al rispetto del criterio della miglior scienza ed esperienza del momento che deve connotare linee guida e protocolli, di fatto dimostri di non tener conto della complessità della materia e continui a far ricadere il peso delle incertezze sull’operatore sanitario, il quale potrà salvarsi dal rimprovero solo dove dimostri, in sede di valutazione della sua colpevolezza, che non si poteva esigere da lui la conoscenza di taluni presupposti connotanti le regole applicate.

A ben vedere, tuttavia, altra potrebbe anche essere la lettura della novella.

L’assenza di distinzioni circa i requisiti di validità della regola cautelare potrebbe consentire un’interpretazione in base alla quale il medico andrebbe comunque esente da colpa grave anche laddove applicasse protocolli e linee guida di carattere prettamente locale, non validate dalla comunità scientifica ed improntate sulla logica del risparmio di spesa. Questa conclusione, non condivisibile a parere di chi scrive, sembrerebbe essere presupposta, seppur forse implicitamente, da chi saluta la novella come uno strumento deflattivo del contenzioso giudiziario e come mezzo di miracoloso contrasto alla medicina difensiva.

Queste conclusioni, tuttavia, aprono uno scenario fosco, nel quale si andrebbe a rompere quell’alleanza medico-paziente che costituisce il fondamento etico ed il presupposto legittimante dell’intervento medico. Ridurre il paziente a mero destinatario di un trattamento potenzialmente idoneo a lederne l’integrità fisiopsichica, del quale tuttavia il legislatore postula a priori la liceità, sembra violare anche in questo caso ed in maniera speculare i più importanti principi costituzionali ed internazionali in tema di libertà e diritto alle cure.

4. Il rimprovero colposo alla luce della riforma “Balduzzi”

Ed allora, nonostante l’intervento del legislatore, sembrano riproporsi gli interrogativi che animavano dottrina e giurisprudenza prima della riforma, relativi alla domanda se il rimprovero per colpa in capo al sanitario debba fondarsi su un giudizio ex ante che si limiti a valutare la conformità o meno dell’intervento al protocollo ritenuto a priori valido e vigente, oppure si richieda un controllo ulteriore e diverso.

Sembra doversi concludere per la seconda opzione sulla base di un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, come già detto, linee guida e protocolli possono assumere rilevanza solo ed esclusivamente in presenza di taluni precisi presupposti. Ne discenderebbe che, solo alla luce del positivo riscontro di questi elementi, potrebbe operare l’equivalenza tra il rispetto delle linee guida e l’esclusione di qualsivoglia profilo di colpa lieve in capo al sanitario.

In secondo luogo, è necessario individuare i presupposti di liceità dello scostamento dell’operato del sanitario dalle prescrizioni operative, il quale, alla luce della novella, rimane comunque possibile, ritenendosi che l’ingiustificato e dannoso ossequio alle linee guida o protocolli, laddove integri una manifestazione di gross negligence, debba necessariamente essere sanzionato.

Deve dunque permanere salda la convinzione di uno spazio di liceità del comportamento del medico che si discosti dalla regola protocollare, poiché la difformità può risultare in concreto idonea a contenere il rischio per il paziente. Del pari, potrà accadere che proprio per la specifica natura di talune linee guida e protocolli, non possa applicarsi quell’equivalenza tra le stesse ed i precetti idonei a scongiurare il rimprovero colposo, residuando spazi di negligenza all’interno del trattamento in concreto del paziente.

Nei casi in cui protocolli e linee guida costituiscano regole chiaramente dettate da una comunità scientifica non sovranazionale e siano dettate soprattutto per la salvaguardia di esigenze di spesa, esse possono e debbono certamente essere tenute in considerazione dal medico, pur non essendo sufficienti ad escluderne la responsabilità, posto che questi dovranno essere disapplicati laddove la loro portata ovvero le finalità perseguite contrastino con i fini di cura del paziente.

Si può dunque affermare come non sia irragionevole escludere a priori che una condotta diagnostico - terapeutica o una metodologia di intervento chirurgico, sebbene difformi da quelli indicati dalle linee guida o dai protocolli, possano essere inidonei a concretizzare un certo tipo di rischio.

Certo, stante la novella legislativa, non tanto il medico che si assuma la responsabilità di disapplicare il protocollo nelle situazioni necessitate di emergenza, quanto quello che scientemente decida di rinunciare al (solo apparente) salvacondotto della colpa lieve da applicazione delle linee guida e best practice, compirebbe una scelta non poco rischiosa. La soluzione sembra tuttavia senz’altro possibile e lecita ove la scelta terapeutica sia ancora una volta frutto della rinnovata alleanza fra medico peritus e paziente reso edotto dei rischi, quando cioè il medico acquisisca un consenso informato che lo facoltizzi ad agire nel bene esclusivo del paziente.

Ebbene, parrebbe possibile ipotizzare che la formulazione della novella attribuisca alle linee guida ed ai protocolli rispondenti a tassative caratteristiche una valenza di precetti dai quali discostarsi, non appena le circostanze del caso concreto ne decretino l’abbandono, consentendo all’operatore di selezionare la condotta sulla base delle circostanze concrete presenti nel momento attuativo.

Ma la matrice generica della responsabilità colposa, sembra offrire la chiave di volta per risolvere le contraddizioni di un ordinamento che, di fatto, continua ad imporre l’osservanza e parimenti l’inosservanza delle linee guida e dei protocolli. Difatti, la sconsiderata applicazione delle linee guida e dei protocolli, può lasciare spazio, come già detto, ad una responsabilità per gross negligence, poiché, il medico che si adegui alle linee guida, sebbene le contingenze del caso segnalino la necessità di una scelta clinica alternativa, sarà chiamato a rispondere a titolo di colpa grave.