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Codice dei Crimini internazionali e prevenzione alla corruzione: uno sguardo d’insieme sullo skyline internazionale

Codice dei Crimini internazionali
Codice dei Crimini internazionali

Codice dei Crimini internazionali e prevenzione alla corruzione: uno sguardo d’insieme sullo skyline internazionale

Recente la pubblicazione della relazione conclusiva dei lavori della Commissione Ministeriale del “Codice dei Crimini internazionali”, istituita dal Ministero della Giustizia il 23 marzo 2022 e presieduta dal Prof. Francesco Palazzo (Emerito di diritto penale dell’Università degli Studi di Firenze) e del Prof. Fausto Pocar (Emerito di diritto internazionale dell’Università degli Studi di Milano).

Si tratta, come si vedrà, di un impegno assunto dal Governo attuale che risponde primariamente alla necessità di assicurare l’adempimento degli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la ratifica, autorizzata con la legge 12 luglio 1999 n. 232, dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale (Cpi), concluso a Roma il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.

Tra le novità contenute nel progetto istitutivo di un Codice dei crimini internazionali anche l’istituzione della responsabilità da reato dell’ente in tutti quei casi in cui la commissioni di tali crimini (genocidio, di guerra, contro l’umanità, di aggressione) sia stata “supportata” dalla c.d. business complicity di imprese sostenitrici.

Ulteriore dimostrazione dell’attenzione che il Legislatore, dal 2001 in avanti, ha dedicato al tema degli illeciti dell’ente (ampliando di anno in anno il catalogo dei reati presupposto) e al più generale tema della criminalità d’impresa, sempre più perniciosa, e a come questa assuma tratti sempre meno localizzati e localizzabili (si pensi all’introduzione tra i reati presupposto della corruzione internazionale e dei reati transnazionali).
 

Introduzione

L’istituzione della Commissione Ministeriale per l’introduzione di un Codice dei Crimini internazionali si è posto come adempimento non più prorogabile (trascorsi ormai vent’anni esatti dall’entrata in vigore della legge di ratifica del trattato istitutivo della Cpi), soprattutto atteso l’odierno scenario di politica internazionale.

Come affermato peraltro dalla Ministra Cartabia il Ministero aveva già in animo di mettere mano a questo capitolo importante della nostra legislazione penale contro i crimini internazionali di guerra. Le occasioni della storia, come quella in Ucraina, hanno accelerato la nostra determinazione e anche impresso un ritmo sostenuto”.

Step, quello dell’introduzione di una disciplina legale interna in materia di diritto penale internazionale che si fonda, prima di tutto, sull’adempimento agli obblighi internazionali assunti con la ratifica dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale.  

Obbligo che, come attestato nella Relazione conclusiva della Commissione ministeriale, si ricava indirettamente dal principio di complementarietà di cui al combinato disposto degli artt. 1 e 17 dello Statuto ai sensi del quale la Corte non ha infatti giurisdizione quando un crimine internazionale è o è stato oggetto di un procedimento penale davanti alle autorità giudiziarie dello Stato che può esercitare la giurisdizione rispetto a tale crimine, salvo che la mancanza di un procedimento penale nazionale dipenda dall’assenza di volontà o dalla effettiva incapacità dello Stato di investigare e di procedere penalmente. Questo, sino ad ora, il caso italiano, cioè quello di uno Stato che non avesse introdotto i crimini previsti dallo Statuto nella propria legislazione penale nazionale.

Al contrario, la positivizzazione di una normativa interna in materia consentirebbe all’Italia il riconoscimento di una giurisdizione diretta, e non più sussidiaria della Cpi, su crimini di diritto internazionale.
 

Considerazioni generali: linee di fondo e principi ispiratori della Riforma

Anzitutto, merita evidenziare la centralità che la Commissione ha voluto riservare ad una materia così delicata mediante la scelta dell’utilizzo dello strumento codicistico e non, come fatto in altri Paesi culturalmente simili al nostro, mediante un semplice innesto delle singole fattispecie all’interno del codice penale sostanziale.

Questo perché, al di là della strutturale diversità dei beni giuridici tutelati (a carattere universale) nonché per non “appesantire” eccessivamente il codice penale e per garantire una maggiore e più agevole “visibilità” delle nuove fattispecie, come si legge nella Relazione, “la collocazione extra codicistica dei “crimini internazionali” è anche giustificata non solo dalle loro caratteristiche peculiari di struttura e di contenuto offensivo ma anche dal fatto che queste ultime hanno richiesto taluni adattamenti delle norme generali sia in materia di efficacia della legge penale nello spazio e di giurisdizione, sia in materia di presupposti e condizioni della responsabilità penale”. Ciò tuttavia, i redattori del Progetto, hanno cercato quanto più possibile di introdurre il minor numero di norme derogatorie alla disciplina di “Parte Generale” di cui al codice penale sostanziale, fermo restando che, per quanto nulla disciplinato, rimarrebbero comunque applicabili le disposizioni e i principi ordinari in virtù del rinvio operato dall’art. 16 c.p., oltre a tutte quelle – naturalmente – in materia di ordinamento penitenziario e codice di rito riferibili ai “delitti”.

Tale ultima sottolineatura terminologica è imposta dalla circostanza per cui con riferimento alla terminologia utilizzata nel decreto ministeriale istitutivo, la Commissione ha ritenuto di utilizzare, anche nel testo delle disposizioni, l’espressione “crimini” e non “delitti”. Seppur la prima espressione sia sconosciuta al nostro ordinamento (e sia invece tipica di quello sovranazionale), e comunque atecnica, si è preferito denominare questi speciali reati, probabilmente proprio in ragione della loro natura particolare, come “crimini”, sicché - si sottolinea - tornare ad una loro denominazione in termini di “delitti”, sia pure tecnicamente più corretta, avrebbe potuto essere avvertita come dissonante.

L’introduzione interna di fattispecie già previste e disciplinate dallo Statuto di Roma doveva, naturalmente, attestarsi su un livello “minimo” al di sotto del quale non scendere, pena il rischio – ai sensi della clausola di complementarietà – di veder privata la giurisdizione italiana dal perseguimento di crimini internazionali in favore di quella della Corte penale internazionale.

Da qui, dunque, fermo questo limite “in negativo” imposto dalla fonte internazionale, nulla era precluso in termini di maggior tutela dei c.d. “beni internazionali”, senza, tuttavia,  che questa maggior tutela implicasse però la violazione delle garanzie fondamentali in materia di presunzione di non colpevolezza dell’ordinamento interno.

Su questa scia di tutele si pone la scelta della Commissione di non riprodurre per le fattispecie in materia di crimini internazionali il regime di “carcere duro” di cui all’art. 41 bis o.p.. Scelta che, a parere della Commissione, risulterebbe giustificata da due ordini di ragioni. In primis, a seguito  dei persistenti dubbi di costituzionalità, che hanno trovato adeguata eco nella sentenza della Corte costituzionale (97/2020) con cui sono stati delineati i limiti del legittimo ambito operativo della norma nella persistente pericolosità del detenuto derivante dal mantenimento dei collegamenti con le organizzazioni criminali di originaria appartenenza. In secondo luogo, perché sono proprio le caratteristiche fenomenologiche dei crimini internazionali a suggerire che quei requisiti di costituzionalità siano di regola assenti nella realtà criminologica di questi crimini.
 

La giurisdizione e la competenza

Questioni piuttosto delicate, atteso il concorso potenziale di più giurisdizioni nazionali sui medesimi fatti oltre a quella residuale della Corte Penale internazionale, quelle in materia di legge applicabile ai crimini internazionali e alla competenza interna (per materia) a giudicare tali crimini.

Si tratta, come immaginabile, di un aspetto decisivo per l’affermazione o meno della giurisdizione italiana ai fini del perseguimento di tali crimini internazionali. I redattori del progetto di Riforma hanno mantenuto fermi, compatibilmente con l’attitudine “internazionale” dei crimini in esame, i principi sostanziali e codicistici in materia di applicabilità della legge penale italiana nello spazio (universalità, principio di difesa, di personalità attiva e passiva). In questo senso, piena applicabilità al criterio ubiquitario di cui all’art. 6 c.p. che statuisce il principio di territorialità (“universale”, a detta di una parte della dottrina) della legge penale italiana, secondo il quale sono sottoposti alla legge italiana tutti i reati commessi (anche solo una parte e anche quando l’evento o parte della condotta si sia realizzata interamente all’estero), sia da cittadini sia da stranieri, nel territorio statale, come definito dall’art. 4 comma 2 c.p.

Come osserva la Relazione conclusiva, più delicata si presenta la scelta della legge applicabile quando il crimine sia commesso all’estero, in quanto gli artt. 7-10 c.p. differenziano i termini di applicabilità della legge penale italiana in funzione dell’interesse decrescente dello Stato a punire determinati reati. Si muove dal paradigma di una punibilità incondizionata per arrivare a una punibilità che si attiva in presenza di condizioni tanto più numerose quanto minore è l’interesse dello Stato ad applicare la propria legge penale, vuoi per la minore gravità del reato, vuoi per la maggiore tenuità del collegamento con il reato, vuoi anche per risolvere sul nascere eventuali conflitti di giurisdizione.

In particolare, attraverso la clausola residuale di cui all’art. 7, c. 5 c.p. la giurisdizione italiana sarebbe garantita incondizionatamente nelle ipotesi in cui una convenzione internazionale (nel caso di specie lo Statuto di Roma) “stabilisca l’applicabilità della legge penale italiana” (come previsto in forza del principio di complementarietà ut supra). Dunque, in presenza di una disciplina interna in materia di crimini internazionali (ciò che avverrebbe con l’introduzione di un Codice dei Crimini internazionali) spetterebbe, in forza della clausola in esame, l’obbligo per lo  Stato contraente (Italia) di perseguire incondizionatamente tali fatti.

Altrettanto significativa la discussione in merito alla competenza attribuita nel giudicare tali crimini. In altre parole, la Commissione si è confrontata per definire a quale organo giudicante e requirente devolvere la competenza per materia. Sulla scorta di tali premesse, è stata riconosciuta la competenza della Corte di Assise, e non del Tribunale, a conoscere dei crimini internazionali previsti dal Codice in ragione delle peculiarità che le sono proprie e in ragione di una maggiore capacità di accogliere i carichi processuali. Essa presenta una collegialità più vasta e ritrova al suo interno una componente popolare che meglio rispecchia la rappresentatività democratica. La sua scelta è inoltre sistematicamente coerente per aver tradizionalmente competenza sui fatti dal disvalore più grave, e cioè sui reati “di sangue”. Con particolare riferimento ai crimini internazionali commessi all’estero per i quali si riconosce la giurisdizione italiana la competenza è stata attribuita, anche per il valore simbolico che esprime, alla Corte di Assise di Roma. In materia di uffici requirenti, invece, si opterebbe una strada a metà tra l’eccessivo decentramento presso ciascuna Procura della Repubblica e l’accentramento solo su quella presso il Tribunale di Roma: si è, infatti, scelto il modello, già proprio delle indagini (c.d. collegate) per i delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p., della competenza delle procure distrettuali (quella di Roma rimarrà, in via esclusiva, per i fatti commessi interamente all’estero).  

Infine, ferma la giurisdizione italiana, maggiori difficoltà di addivenire a soluzioni condivise in materia di giurisdizione per i soli crimini di guerra, se affidabili, cioè, alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario ovvero anche in tutto o in parte a quella militare quando si tratta di crimini commessi in Italia o all’estero da appartenenti alle Forze armate italiane. In assenza di una condivisione di intenti, tre sono state le proposte portate all’attenzione della Ministra.
 

Responsabilità dell’ente per crimini internazionali, corruzione internazionale e reati transnazionali

Come anticipato in fase iniziale, l’attenzione del legislatore penale dagli anni 2000 in avanti si è incentrata su due fronti, uno complementare all’altro, anche in ossequio all’appartenenza all’Unione Europea, all’impulso della sua legislazione, nonché alla giurisprudenza sovranazionale della Corte Edu, ed infine a seguito della ratifica di molteplici trattati internazionali in materia lato sensu penalistica, tra cui le Convenzioni in materia di lotta alla corruzione internazionale e reati transnazionali.

Da un lato, quindi, introduzione di fattispecie all’interno dell’ordinamento penale (localizzate internamente al codice ovvero - come nel caso della proposta di un autonomo Codice dei crimini internazionali, creandone uno a sé) a carattere sempre più “internazionale”, dall’altro, progressiva estensione di tali fattispecie individuali anche in capo alle persone giuridiche nei casi in cui si siano avvantaggiate o abbiano anche solo finalizzato il proprio operato al raggiungimento di un vantaggio. Costituiscono lucido esempio di quanto detto la proposta della Relazione conclusiva qui in esame di introdurre la responsabilità dell’ente ex D. Lgs. 231 ai delitti presupposto in materia di crimini internazionali, così come l’ormai passata introduzione dei delitti di corruzione internazionale e dei reati transnazionali anch’esse fattispecie presupposto della responsabilità dell’ente.

Nell’ottica di assicurare una perseguibilità piena e multilivello dei crimini internazionali, andando ovviamente oltre quanto statuito dallo Statuto di Roma, la Commissione ha previsto l’instaurazione degli stessi anche come delitti presupposto della responsabilità dell’ente. Come si legge nel testo della Relazione conclusiva, la Commissione ha preso in considerazione gli argomenti, ampiamente rappresentati in dottrina e oggi recepiti in alcune decisioni giurisprudenziali straniere, che sottolineano il ruolo degli attori economici nella commissione dei crimini internazionali (la c.d. “business complicity”). In particolare, la necessità di intervenire anche su tale materia si rende indispensabile secondo la Commissione sulla scorta della necessità di dettagliare le forme di responsabilità dell’ente, tenuto anche conto che i crimini internazionali assumono rilevanza per effetto della sussistenza di un elemento di contesto che ne segnala il carattere tendenzialmente sistematico e comunque non episodico.

Nella Relazione si legge, all’interno dell’articolato che andrebbe a formare la sezione dedicata alla responsabilità dell’ente, di un comma 4 in cui si farebbe espresso riferimento all’ipotesi della c.d. impresa illecita sul modello degli artt. 24 ter e 25 quater del d.lgs. n. 231/2001, focalizzandosi sulla stabile destinazione dell’ente o di una sua unità organizzativa alla commissione dei crimini internazionali, cui conseguirebbe coerentemente l’applicazione della sanzione dell’interdizione definitiva dell’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16, comma 3 del suddetto decreto. Una novità, invece, quella di cui al comma 5, che vedrebbe l’introduzione di una speciale causa di non punibilità dell’ente nei casi in cui, nonostante l’esistenza di quella carenza organizzativa che ha consentito la consumazione e/o agevolazione della commissione del reato presupposto, sussista un provvedimento dell’autorità che autorizzi l’attività espletata: “L’ente non risponde quando la condotta sia stata realizzata nel rispetto di provvedimenti dell’autorità”. Volendo esprimere un primo commento su tale dirompente proposta, non si può non osservare il potenziale contrasto con il principio sancito dall’art. 8 del Decreto 231 che considera autonoma la responsabilità dell’ente rispetto alla condotta individuale dell’autore del reato presupposto.

Sebbene si ponga al di fuori del perimetro delle fattispecie contemplate dallo Statuto di Roma come crimine internazionale, l’introduzione del reato di corruzione internazionale, l’estensione di questo come fattispecie presupposto della responsabilità dell’ente e l’importanza dell’adozione di adeguati protocolli di prevenzione si insinuano perfettamente nelle linee di fondo sopra menzionate con riferimento ai crimini internazionali. Dunque, prevenzione del rischio reato da parte delle imprese non solo e non più localizzato nei singoli conchiusi mercati nazionali ma anche estesa all’operatività in quelli internazionali.

Il fenomeno della corruzione internazionale è sempre più presente nel mondo globalizzato dell’economia. E’ importante reagirvi per due principali ragioni: la prima è che la corruzione altera il meccanismo degli incentivi della concorrenza sui mercati mondiali, e la formazione di un’adeguata e comune tutela giuridica è necessario per garantire la parità della concorrenza fra le imprese sui mercati mondiali; è inoltre necessario aiutare i Paesi in via di sviluppo nella loro crescita economica e sociale, perché la corruzione costituisce prima di tutto una forte distorsione dell’allocazione delle risorse, distogliendo soprattutto quelle che potrebbero essere destinate allo sviluppo. Già nella Convenzione dell’OCSE del 17 dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali si intende reprimere la corruzione internazionale imponendo agli Stati aderenti di considerare reato per le persone fisiche e giuridiche il fatto di corrompere funzionari stranieri per ottenere indebiti vantaggi nel commercio internazionale. Le norme in esecuzione della Convenzione in Italia sono pienamente efficaci dal 4 luglio 2001.

La maggiore novità della esecuzione della Convenzione OCSE in Italia è costituita proprio dall’obbligo di perseguire direttamente anche le persone giuridiche responsabili della corruzione. L’impresa, come ormai noto nell’architrave della responsabilità da reato dell’ente, può evitare di essere sanzionata qualora l’organo dirigente abbia adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, e sia stato affidato ad un organismo autonomo dell’ente il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e questo vi abbia provveduto efficacemente. In aggiunta, la legislazione italiana prevede anche la predisposizione di appropriati codici di comportamento quale guida dei modelli di organizzazione aziendale: quest’ultima via, di soft law, si ritiene essere uno strumento decisivo per la prevenzione della corruzione, proprio attraverso il coinvolgimento della società civile e delle associazioni di categoria. La prevenzione della corruzione, infatti, si ottiene, prima ancora che con la predisposizione di “corazze giuridiche”, con la condivisione e la diffusione di comportamenti e prassi di buona condotta, prima fra tutte la trasparenza.

Come osservato durante i lavori organizzati per la IV Conferenza Ministeriale anticorruzione OCSE, tenutasi a Parigi nel marzo 2016, un approccio meramente sanzionatorio al fenomeno corruttivo è risultato nel tempo limitato e sostanzialmente insufficiente a combattere efficacemente la corruzione. Ad esso va accoppiato un approccio preventivo alla corruzione, ovvero la messa in opera di meccanismi e misure che rendano più difficile corrompere ed essere corrotti.

Ed è proprio questa la logica della nuova legge 190 del 2012 e del d. lgs. 90 del 2014 che l’ha emendata, i quali assoggettano alla normativa anticorruzione vigente le società controllate dallo Stato, gli enti di diritto privato controllati dalle amministrazioni centrali ed i soggetti di diritto privato sottoposti al controllo di regioni, province autonome e enti locali. La ratio della legge consiste nell’estendere le misure di prevenzione della corruzione e di trasparenza, e i relativi strumenti di programmazione, a tutti quei soggetti controllati dalle amministrazioni pubbliche che - a vario titolo - si avvalgono di risorse pubbliche, svolgono funzioni pubbliche o attività di pubblico interesse.

L’ambito di applicazione della legge n. 190 del 2012 e quello del d.lgs. n. 231 del 2001 non sono, tuttavia, perfettamente coincidenti: sussistono differenze significative, in particolare sulla tipologia dei reati da prevenire (il D. Lgs. n.231 ha riguardo ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società, mentre la legge 190/2012 è volta a prevenire anche reati commessi in danno della società) e sui fatti di corruzione (il D. Lgs. 231 attiene alle fattispecie tipiche di concussione ed alla corruzione tra privati, mentre la legge n. 190 del 2012 fa riferimento, invece, ad un concetto più ampio di corruzione, in cui rilevano anche le situazioni di “cattiva amministrazione”).

Il problema dell’applicabilità delle misure di prevenzione della corruzione e della trasparenza alle società controllate, a quelle partecipate e agli altri enti di diritto privato in controllo pubblico nonché agli enti pubblici economici, ha indotto l’A.N.A.C. e il Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) ad avviare una riflessione comune, con l’istituzione di indicazioni condivise sull’applicazione della normativa anticorruzione e della nuova disciplina in materia di trasparenza, attraverso le “Linee-guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici”.

Dal punto di vista oggettivo - prosegue la Relazione tenutasi in occasione della Conferenza citata - le società di diritto pubblico partecipate in maggioranza e controllate devono adottare tutta una serie di comportamenti e misure preventive, tra cui: 1) dotarsi di misure di prevenzione della corruzione tese a mitigare i rischi di insorgenza di fenomeni corruttivi e di cattiva amministrazione (individuare e gestire i rischi di corruzione, effettuando un’analisi del contesto e della realtà organizzativa per individuare in quali aree o settori di attività e secondo quali modalità si potrebbero astrattamente verificare fatti corruttivi) e riportare una «mappa» delle aree a rischio; 2) dotarsi di un sistema di controlli delle misure adottate e introdurre nuovi principi e strutture di controllo quando l’ente risulti sprovvisto di un sistema atto a prevenire i rischi di corruzione (nominare un responsabile per la prevenzione della corruzione, elaborare un Piano Triennale per la prevenzione della corruzione per l’ente, programmare le attività di aggiornamento e formazione del personale, verificare l’efficace attuazione del Piano, proporre l’aggiornamento o la modifica del Piano quando sono accertate significative violazioni delle prescrizioni o quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività dell’Amministrazione); 3) prevedere un Codice di comportamento dei dipendenti e adottare un “Programma triennale per la trasparenza e l’integrità” in cui sono individuate le misure organizzative volte ad assicurare la regolarità e la tempestività dei flussi delle informazioni da pubblicare, prevedendo anche uno specifico sistema delle responsabilità; 4) istituire un sistema che incoraggi il dipendente a denunciare gli illeciti di cui viene a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro, avendo cura di garantire la riservatezza dell’identità del segnalante dalla ricezione e in ogni contatto successivo alla segnalazione. 5) promuovere la rotazione nelle mansioni.

Ulteriore manifestazione dell’intervento nazionale su sollecitazione internazionale va da individuarsi nella materia del crimine organizzato internazionale e dei reati transnazionali, atteso che la corruzione internazionale è spesso collegata a fenomeni di criminalità organizzata, avvalendosi dei canali del riciclaggio di fondi neri.

Brevemente. La legge 16 marzo 2006, n. 146 ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione e ai Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 (c.d. “Palermo Convention” o “TOC Convention”, i.e. “Transnational Organized Crime Convention”).

Appurato che la strategia più efficace e incisiva per combattere il crimine organizzato transnazionale - che può essere sinteticamente definito come quello che vìola la legislazione penale di diverse giurisdizioni nazionali - è quella della internazionalizzazione della repressione (F. FALATO, Appunti di cooperazione giudiziaria penale, Napoli, 2012, p. 9.), si è deciso mediante la Convenzione citata - così come si è detto sopra in materia di Statuto di Roma e di proposta della Commissione Ministeriale istituita dalla ministra Cartabia - di introdurre una disciplina “minima” in materia lasciando agli Stati contraenti la normativa di dettaglio. Questo, come intuibile, per evitare, da un lato, la creazione di molteplici e differenti legislazioni sul tema, dall’altro, “la creazione di paradisi giuridici-penali” (A. ASTROLOGO, La giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite in materia di transnazionalità. I (possibili) riflessi in materia di responsabilità degli enti, in Resp. amm. soc. enti, 2, 2015, p. 121).

Due le disposizioni che rilevano maggiormente: l’art. 3 l. cit. che definisce, non senza problemi, le caratteristiche che un reato deve avere per potersi qualificare come transnazionale e l’art. 10 l. cit. che estende la responsabilità dell’ente ad alcuni reati, espressamente individuati, se dotati del carattere di transnazionalità ai sensi della norma sopra richiamata.

Merita, in chiusura, sottolineare come il  reato transnazionale non integri un’autonoma fattispecie delittuosa ma, attraverso la contemporanea sussistenza dei requisiti di cui all’art. 3 cit., costituisce semplicemente una modalità di espressione e di espansione dell’efficacia territoriale di un delitto di per sé già perfetto in tutti i suoi elementi (Cass. pen., SS.UU., 31 gennaio 2013, n. 18374, secondo cui “Il reato transnazionale è, dunque, nozione definitoria che si ricava dall’insieme degli elementi costitutivi di un comune delitto e di quelli specifici, positivamente previsti”).
 

Conclusioni

I lavori presentati e proposti dalla Commissione ministeriale istituita dalla Ministra Cartabia, composta da giuristi e accademici di altissimo profilo, necessitano ora del passaggio Parlamentare, anche eventualmente con le modifiche che la dialettica in sede di Commissioni parlamentari manifesterà.

Indubbio che, anche a causa del particolare e delicatissimo momento storico della guerra ucraina nonché dall’appartenenza dell’Italia allo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, l’introduzione di un Codice dei crimini internazionali darebbe piena e compiuta attuazione al Trattato internazionale ratificato nel lontano 1991 attribuendo al Paese la giurisdizione piena su tali crimini.

Tale novella legislativa, peraltro, si porrebbe come ulteriore dimostrazione della costante opera del legislatore nazionale di adattare la propria legislazione penale alle istanze provenienti dalla Comunità europea ed internazionale, tenendo alti gli standard di tutela: su tutte, in quanto fenomeni tristemente diffusi in Italia, la disciplina in materia di prevenzione e repressione della corruzione internazionale e del crimine organizzato transnazionale.