Art. 10
Permanenza all’aperto
1. Ai soggetti che non prestano lavoro all’aperto è consentito di permanere all’aria aperta per un tempo non inferiore alle quattro ore al giorno. (1)
2. Per giustificati motivi la permanenza all’aperto può essere ridotta fino a due ore al giorno con provvedimento del direttore dell’istituto.
3. Il provvedimento è comunicato al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e al magistrato di sorveglianza. (2)
4. Gli spazi destinati alla permanenza all’aperto devono offrire possibilità di protezione dagli agenti atmosferici. (2)
5. La permanenza all’aria aperta è effettuata in gruppi a meno che non ricorrano i casi indicati nell’art. 33 e nei numeri 4) e 5) dell’art. 39 ed è dedicata, se possibile, ad esercizi fisici.
(1) Comma così sostituito dall’art. 11, comma 1, lett. c), D.Lgs. 123/2018 che ha sostituito l’originario primo comma con gli attuali commi primo, secondo e terzo.
(2) Comma inserito dall’art. 11, comma 1, lett. c), D.Lgs. 123/2018 che ha sostituito l’originario primo comma con gli attuali commi primo, secondo e terzo.
Rassegna di giurisprudenza
La sovrapposizione tra permanenza all’aria aperta e tempo dedicato alla socialità (come proposta nella circolare DAP del 2017) costituisce una operazione non corretta, perchè accomuna senza ragione due differenti ipotesi, la cui unica connotazione comune (lo stare al di fuori della camera detentiva) mostra gli aspetti della irrilevanza ai fini che qui interessano; - la permanenza all’aria aperta risponde a primarie esigenze igienico-sanitarie e la limitazione della durata ad una sola ora può avvenire non già in via generale - tramite una circolare- ma solo in rapporto ad esigenze eccezionali da motivarsi in concreto, nei confronti del singolo detenuto (come previsto dall’art. 16 comma 3 Reg.) ; - l’interpretazione sistematica delle disposizioni di legge va sempre operata in riferimento a canoni di ragionevolezza e di rispetto dei contenuti delle norme costituzionali, il che porta a ritenere possibili limitazioni ’ulteriori’ dei diritti riconosciuti dalla legge ai soggetti in esecuzione della pena solo lì dove funzionali, in concreto, ad esigenze di ordine e sicurezza interne agli istituti, risolvendosi - in caso contrario - in un incremento di afflittività non rispondente ai contenuti dell’art. 27 comma 3 Cost. Va pertanto ribadito che il contenuto della circolare ministeriale - in tale parte - introduce una illegittima modalità di restrizione, in via generale (sia pure per un insieme di soggetti raggiunti dal decreto di sottoposizione al regime differenziato) di un diritto soggettivo alla fruizione di due ore di permanenza all’aperto giornaliere, la cui limitazione richiede, per converso, l’adozione di un provvedimento motivato che dia conto di particolari ragioni relative al singolo detenuto. Peraltro va anche rilevato che con modifica legislativa (D. Lgs. 123/2018) del testo dell’art. 10, il limite legale minimo di permanenza all’aperto è stato elevato a quattro ore, con possibile restrizione - in caso di giustificati motivi - ad un tempo non inferiore alle due ore e tale nuovo assetto normativo rafforza ulteriormente le conclusioni cui si è pervenuta la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 24827/2019).
La semplice lettura dell’art. 16 Reg. (che si occupa sia della permanenza all’aperto che delle attività in comune) e dell’art. 12 (in materia di attività in comune) evidenzia la netta distinzione fra le ore d’aria e quelle di socialità sotto il profilo dell’ambito spaziale e delle modalità delta fruizione proprio in ragione della diversità funzionale delle due figure. Indicazioni nello stesso senso si traggono dall’art. 36 Reg. Una sistematica lettura che mostra come l’unica condizione in comune fra la permanenza all’aria e la socialità sia rappresentata dallo star fuori dalla cella, ossia da qualcosa cui non è associabile alcunché di rilevante ai fini di cui trattasi. E deve essere ancora sottolineato che la permanenza all’aperto adempie in modo evidente a primarie finalità di contenimento degli effetti della privazione della libertà, secondo specifiche esigenze di natura sanitaria e psicologica, sì da ammettersi, come rilevato, solo eccezionali limitazioni previa specifica decisione. Il comma 2-quater dell’art. 41-bis alla lett. f), proprio perché rinvia per i limiti ai casi di cui all’art. 10, smentisce la possibilità in termini generali di comprimere la permanenza sotto le due ore, ferme restando le cautele da assicurare quanto alle condizioni di comunicazione. La «socialità» invece costituisce fruizione che attiene a ben altre esigenze, trattandosi del tempo da trascorrere in compagnia all’infuori dell’attività di lavoro e di studio, di modo che in tal caso rilevano non già le condizioni igienico - sanitarie, bensì i profili della tendenziale funzione rieducativa della pena, da tenere presente anche al cospetto di detenuti sottoposti al regime di cui trattasi. Una fungibilità fra le due fruizioni - quella sostenuta nel ricorso (evocando solo motivi di tutela diversamente assicurabili secondo altre specifiche modalità consentite) - che rimane pertanto smentita dalla razionale e coerente lettura di tutte le disposizioni sopra citate che vengono nella specie ad assumere rilevanza (Sez. 1, 48860/2018).
Il provvedimento genetico, emesso dal magistrato di sorveglianza, sul reclamo proposto dal detenuto, riguardava la disapplicazione del regolamento interno di istituto, nella parte in cui prevedeva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza fuori dalla cella e la rinuncia forzata all’uso delle sale di socializzazione nel caso di fruizione di due ore di permanenza all’aperto. Da tale disapplicazione discendeva che il reclamante aveva il diritto di beneficiare di un massimo di due ore all’aria aperta, nel quale non potevano essere compresi i periodi di socialità trascorsi nei locali interni della stessa struttura penitenziaria. Tale provvedimento trae il suo fondamento da una lettura ineccepibile del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, e 41-bis, comma 2-quater, lett. f), per effetto del quale la permanenza all’aperto del detenuto sottoposto al regime detentivo speciale non può essere superiore a due ore al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, nelle quali non possono essere comprese le frazioni orarie trascorse nelle sale di socialità dell’istituto penitenziario. Si osserva, in proposito, che, nel dettare tale disciplina, il legislatore italiano intende riferirsi alla permanenza del detenuto all’aperto e non già al suo stazionamento fuori dalla cella dove è ristretto ma all’interno dell’istituto penitenziario. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di condizioni di detenzione la “permanenza all’aperto”, prevista dall’art. 10, non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg., all’aria aperta» (Sez. 1, 44609/2018). D’altra parte, il silenzio dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), in ordine alle limitazioni all’attività di socialità svolta fuori dalla cella ma all’interno della struttura penitenziaria non può che interpretarsi nel senso dell’espansione, sul punto, della disciplina ordinaria, le cui regole sono finalizzate a garantire l’umanità della pena, ad assicurare la funzione rieducativa del trattamento sanzionatorio e a impedire la compressione del diritto alla salute del detenuto, non giustificata da effettive e comprovate ragioni di sicurezza. Né può essere interpretato nella direzione invocata dalla disposizione in esame il secondo periodo dello stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), che non fa alcun riferimento alle attività di socialità in questione, limitandosi ad affermare: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Occorre, al contempo, evidenziare che la ricomprensione dell’ora di socialità all’interno delle due ore di permanenza all’aperto non appare armonica con le finalità, tra loro eterogenee, alle quali rispondono gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti, atteso che nel primo caso si perseguono obiettivi culturali e relazionali non riscontrabili nel caso della permanenza all’aperto, che risponde alla diversa esigenza di garantire il diritto alla salute psico-fisica del detenuto. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha già affermato che gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti non possono essere assimilati sul piano delle esigenze di politica criminale che vi sono sottese, anche alla luce «del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10 che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico» (Sez. 1, 44609/2018). In altri termini, la previsione dell’art. art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), non giustifica un’equiparazione tra la permanenza del detenuto all’interno della struttura carceraria per finalità di socialità e la sua permanenza all’aperto, in ragione del fatto che, come evidenziato dal provvedimento impugnato, tale equiparazione «comprime il diritto alla salute e al benessere psicofisico senza ragione [...]», non comportando alcun incremento alla sicurezza o alla prevenzione dei rapporti intramurari tra soggetti sottoposti al regime detentivo speciale. A tali considerazioni occorre aggiungere che la soluzione ermeneutica seguita nel caso in esame dal Tribunale di sorveglianza appare conforme al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui l’estensione e «la portata dei diritti dei detenuti può [...] subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere [...]», con la conseguenza che «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.» (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Ne discende che la compressione di un diritto, quale quello alla salute del detenuto, può essere giustificato soltanto in quanto corrisponda a una maggiore tutela accordata a un interesse sovraordinato, quale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ricorrenza di tali sovraordinate esigenze di tutela veniva correttamente esclusa dal Tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, posto che l’ammissione all’aria aperta del detenuto sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali avrebbe potuto comunicare liberamente. Queste conclusioni, naturalmente, non comportano che, che in caso di comprovate esigenze di ordine e sicurezza pubblica, non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta. Tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento motivato della direzione dell’istituto penitenziario, che dia adeguatamente conto dei “motivi eccezionali” richiesti dall’art. 10, comma 1, i quali non potranno essere desunti presuntivamente nei confronti del singolo detenuto, sulla base del solo decreto ministeriale di applicazione regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 15572/2019).
Nel caso in cui lo spazio minimo sia inferiore alla quota-limite di 3 mq, il trattamento degradante è compensabile con: a) la brevità della permanenza in tale condizione; b) l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella; c) l’adeguata offerta di attività esterne alla cella; d) le buone condizioni complessive dell’istituto; e) l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento in rapporto a condizioni igieniche e servizi forniti (Corte EDU, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20.10.2016).
In tema di rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, ai fini dell’accertamento della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, se lo spazio delle celle è inferiore ai tre metri quadrati esiste una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU superabile - in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 20 ottobre 2016, Mursic v. Croazia - solo attraverso la valutazione dell’esistenza di adeguati fattori compensativi che si individuano nella durata della restrizione carceraria, nei margini della libertà di circolazione concessa fuori dalla cella, nell’offerta di attività esterne alla cella e nel decoro complessivo delle condizioni di detenzione. Viceversa, qualora lo spazio individuale minimo assicurato al detenuto, una volta scomputati gli arredi fissi, sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati, vanno presi in considerazione gli ulteriori aspetti che determinano la complessiva offerta del trattamento detentivo, come la mancanza di aria o di luce, i difetti della condizione igienica, la carenza di assistenza sanitaria o l’assenza di offerte ricreative o culturali. Nell’ipotesi, quindi, di spazio minimo individuale tra i tre e i quattro metri quadrati, ciò che rileva, ai fini del trattamento inumano o degradante, è un’offerta trattamentale complessiva gravemente carente (Sez. 1, 910/2020).
La giurisprudenza della Corte EDU ha enunciato una serie di principi, di seguito riassunti, i quali, come detto, definiscono l’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 35-ter, costituendo il presupposto in base al quale il giudice nazionale deve stabilire se un determinato regime penitenziario integri, o non, un trattamento “inumano e degradante” (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza Mursic c. Croazia, 20/10/2016): a) il giudizio sulla compatibilità delle condizioni detentive con l’art. 3 CEDU “non può essere ridotto ad un calcolo del numero di metri quadrati assegnati al detenuto”, dovendo tenersi conto delle complessive condizioni trattamentali mediante una valutazione unitaria; b) nel contesto di tale valutazione unitaria delle generali condizioni di detenzione, riveste, comunque, carattere preminente il fattore “spazio”, il quale, pertanto, determina, nel caso in cui il detenuto in una camera collettiva abbia a disposizione meno di tre metri quadrati calpestabili, una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU; c) tale presunzione qualificata è superabile e confutabile in presenza di fattori specifici che possano adeguatamente compensare la mancanza di spazio personale, quali, fra l’altro, un’adeguata attività trattamentale da svolgersi fuori dalla camera e le generali condizioni igieniche delle strutture penitenziarie; d) uno spazio in camera superiore ai tre metri quadrati, di per sé solo - specie se comunque inferiore a 4 metri quadrati - non depone, in ogni caso, per l’adeguatezza delle condizioni di detenzione, sussistendo pur sempre la violazione dell’art. 3 CEDU se a uno spazio limitato in camera si aggiungano condizioni detentive deteriori (quali, tra l’altro, la carenza di opportunità trattamentali, l’assenza di corretta aerazione dei locali, la mancanza di intimità nel bagno, precarie situazioni sanitarie o igieniche). Alla stregua dei parametri sopra enunciati, il giudice nazionale è, dunque, chiamato a verificare: a) se sussiste la presunzione qualificata derivante da un insufficiente spazio a disposizione del detenuto (calcolato al netto dei sanitari e degli arredi fissi); b) se tale presunzione sia o no controbilanciata (e, quindi, superata) da altri fattori concernenti le complessive condizioni detentive del ricorrente. Qualora, poi, lo spazio a disposizione del singolo detenuto sia superiore al limite dei tre metri quadrati e inferiore a quello dei 4 metri quadrati, sarà necessario indagare, sulla base delle specifiche allegazioni del detenuto, sulla presenza di condizioni generali di detenzione che, comunque, depongano per una violazione del divieto di trattamenti “inumani e degradanti”. La Corte alsaziana, tuttavia, con la decisione resa nel caso Mursic C. Croazia non ha affrontato, in modo espresso, il tema delle concrete modalità di computo dello spazio minimo individuale, limitandosi a osservare che “la superficie totale della cellula non deve comprendere quella dei sanitari (...). Al contrario, il calcolo della superficie disponibile nella camera di detenzione deve includere lo spazio occupato dai mobili. L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella camera, secondo quanto già affermato nelle precedenti pronunce Ananyev e altri c. Russia del 10/01/2012 e Belyayev c. Russia del 17/10/2013. In particolare, la prima di queste sentenze, al punto 148, aveva stabilito - che la superficie complessiva della camera deve essere tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente tra gli elementi di arredamento (si veda, nella giurisprudenza successiva, anche Grande Camera, 16/12/2016, Klaufia ed altri c. Italia). Coerentemente con questa impostazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel novero degli elementi che non devono essere inclusi nel computo dello spazio minimo vitale vi siano, oltre ai servizi igienici, gli armadi e gli altri arredi tendenzialmente fissi in maniera stabile alle pareti o al suolo, atteso che il mobilio inamovibile non consente, per definizione, la possibilità, per i detenuti, di muoversi normalmente nella camera. E tra gli oggetti esclusi dal computo sono stati inclusi anche i letti che presentino la struttura “a castello”, da ritenersi certamente ostativi al libero movimento e alla piena fruizione dello spazio della camera di detenzione da parte del detenuto, avendo essi un peso tale da non poter essere spostati e avendo una conformazione tale da non consentire, di norma, il mantenimento della struttura eretta, restringendo a loro volta, come gli armadi, l’area ove muoversi (Sez. 1, 41211/2017). Viceversa, si è ritenuto che debbano essere inclusi nel computo tutti gli articoli amovibili, come gli sgabelli o i tavoli, e tutti quegli oggetti che di fatto non impediscano l’utilizzo dello spazio per il movimento, come nel caso degli stessi letti “non a castello” (Sez. 1, 40523/2017). E si è condivisibilmente ribadito che una volta eventualmente riscontrata, alla stregua dei criteri sopra menzionati, l’inadeguatezza dello spazio minimo, essa possa ritenersi in concreto compensata dall’esistenza di situazioni specifiche, quali la limitata durata della restrizione carceraria, la possibilità di ampi spazi di circolazione fuori dalla camera, l’offerta di attività da svolgere in ampi spazi fuori dalle celle, il decoro complessivo delle condizioni di detenzione, anche in rapporto alle condizioni igieniche e ai servizi forniti (Sez. 1, 3291/2020).
Esiste una forte presunzione di trattamento disumano a fronte della disponibilità di uno spazio minimo inferiore ai 3 mq., valutabile alla luce dei cosiddetti criteri compensativi (tra cui, la brevità della permanenza, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’adeguata offerta di attività esterne, le buone condizioni complessive dell’istituto e l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento). Quanto alle modalità di computo dello spazio minimo, il detenuto deve avere la possibilità di muoversi all’interno della cella, con la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici, ma anche quello occupato da mobili arredi e da strutture tendenzialmente fisse nonché da quegli arredi, che seppur teoricamente amovibili, siano in realtà di peso consistente e di ingombro evidente, quale può essere, ad esempio, un letto a castello (Sez. 1, 51496/2019).
A fronte di una detenzione sostanzialmente e interamente aperta, in cui il soggetto ristretto non è tenuto a sottostare ad una permanenza continua in cella durante le ore del giorno ed ha ampia e libera facoltà di uscire dalla stanza e di muoversi partecipando ad attività sociali e comuni, non ha significato decisivo l’esame sulla superficie disponibile in cella. Ciò perché la stanza di restrizione non è impiegata come ambiente in cui espletare le attività quotidiane, ma esclusivamente come luogo di riposo e per dormire, svolgendo il detenuto ogni attività all’esterno di essa (Sez. 1, 41652/2019).