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Contratti atipici e collegamento negoziale: aspetti peculiari del contratto di factoring

Ogni qualvolta si parli di contratti atipici, è operato l’implicito richiamo a quel principio di autonomia negoziale, racchiuso nell’articolo 1322 del Codice Civile.

Atteso il riconoscimento offerto dal legislatore nelle mani di chi si affida all’autonomia privata, alla libertà di scelta, all’auto-determinazione negoziale, attesa la vasta gamma di norme che pongono, tuttavia, limitazioni a detta facoltà, ascritta in capo al contraente, che non oltrepassi giammai il confine tracciato dal buon costume, dall’ordine pubblico e dall’imperatività del diritto, è il secondo comma dell’articolo 1322 del Codice Civile la norma cardine in materia di atipicità, quest’ultima intesa, in astratto, come logico corollario al principio di autonomia negoziale, e in concreto, come attitudine del soggetto a predisporre negozi che esulino dallo schema prefissato, in quanto non appartenenti ad alcuna categoria contrattuale, già riconosciuta dal legislatore.

Alla base di una siffatta libertà altro vi sono che ragioni di opportunità sociale che trovano riscontro normativo in quegli inderogabili principi ex articoli 3 e 41 del dettato costituzionale.

Ogni operazione che legittimi la parte a porre in essere contratti innominati garantisce alla medesima un più efficiente soddisfacimento di interessi personali, con un consequenziale minor aggravio sull’apparato statale, nella gestione di qualsivoglia azione di tipo personale.

Si assiste, dunque, al proliferare di un’ampia varietà di contratti atipici, diffusi anche grazie alla prassi comune. Trattasi, per la maggioranza dei casi, di contratti di cosiddetta derivazione “social-giurisprudenziale” che potrebbero, epperò, trovare piena tipicità legale laddove intervenissero, medio tempore, meccanismi di regolazione degli stessi da parte del legislatore.

Così è stato, ad esempio, per il contratto di somministrazione, reso legalmente tipico dal codice del 1942; ed ancora, per i contratti di multiproprietà, tipizzati dalla Legge n. 427/98, per i contratti turistici, normativizzati con il pedissequo Decreto Legislativo n.111/95 e per il contratto di cessione del credito d’impresa.

Operata detta necessaria premessa in tema di autonomia negoziale e correlata atipicità, oramai diffusasi in disparati settori del nostro vivere civico, è il caso ora di ravvisare e descrivere, nel dettaglio, i limiti legalmente imposti in materia.

A tal uopo, è’ nuovamente il secondo comma dell’articolo 1322 a fornirci la risposta, rappresentandoci in quella locuzione “ purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, quell’unica ma rilevante restrizione in materia di atipicità contrattuale.

Definirne i confini non è operazione agevole da compiere.

La dottrina maggioritaria rinviene in quella seconda parte del comma due dell’articolo 1322 del Codice Civile la non contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume e alle norme imperative, con evidente, pertanto, esclusione di quell’altra tesi dottrinaria che voleva il contratto atipico tale purché socialmente utile e non purché socialmente non dannoso e pericoloso.

Abbracciando quella fetta maggioritaria dei teorici del diritto che ha propeso per la prima delle due soluzioni, è stata però sollevata, inesorabilmente, un’obiezione di non poco conto in riferimento al 1322 e al suo 2° comma, additato di essere una evidente duplicazione dell’articolo 1343 del Codice Civile.

Ma così non è, in un’ottica di commistione volontaria e coscienziosa tra discipline contrattuali tipiche e atipiche e tra connesse e contestuali tutele e limitazioni.

È ora il caso di rammentare come ad un’atipicità in senso stretto, scaturente dalla assoluta impossibilità di ricondurre un dato contratto a un determinato tipo, si accompagni poi quell’atipicità frutto della libera scelta del soggetto di combinare due tipi differenti, facendoli confluire in uno unico o di collegare due contratti distinti e separati.

Il sottile limen tra queste due manifestazioni dell’atipicità contrattuale è rinvenibile, secondo i tecnici del diritto, nell’elemento causale.

E invero, da un lato, i contratti misti, pur presentando elementi di tipi contrattuali diversi costituiscono, in realtà, sotto il profilo strettamente causale, un unico contratto, dall’altro, in caso di collegamento negoziale, essendo i contratti sostanzialmente distinti, autonoma e separata sarà anche la loro rispettiva causa.

Per un completo quadro in materia, si sottolinea la presenza anche di quella isolata parte della dottrina che disattende l’operata distinzione, propendendo, anche dinanzi ai contratti collegati, per l’unicità causale.

In presenza di questi ultimi, è evidente come la stretta correlazione implichi che un contratto è influenzato dall’altro, in termini di ravvicinata dipendenza anche sul piano, a volte, del trattamento giuridico ad essi riconducibile.

A tal fine, soccorrono diverse tipologie di collegamento. Da qui l’esistenza di quello sostanziale o di quello definito come formale-documentale; di quello necessario, in cui il collegamento è in re ipsa e prescinde dalla volontà in tal senso espressa dalle parti e di quello volontario, in cui, diversamente, è la volontà inter partes, espressa esplicitamente o tacitamente, a far da collante tra i contratti, in termini di interdipendenza reciproca.

Dette sotto-categorie del più ampio contratto collegato, assurgono al ruolo di linee guida, nella districata attività di qualificazione.

È definita tale quella imprescindibile operazione logica per mezzo della quale viene compiuta la sussunzione o meno di un dato contratto in un dato tipo e l’identificazione della pedissequa disciplina ad esso facente capo, operazione quest’ultima dinanzi la quale alcuni interpreti del diritto ancora dibattono.

Tra le fila di questi ultimi, vi sono quelli che, in tema di factoring, discutono se esso debba esser ascritto alla categoria dei contratti misti, a quella dei collegati, o più semplicemente se di esso si debba parlare in termini di atipicità solo in senso stretto.

È innanzitutto definito tale quel negozio in cui un imprenditore (cedente) si assume su di sé l’obbligo di cedere ad un altro imprenditore (factor) la titolarità dei crediti derivati o derivanti dall’esercizio della sua impresa.

In capo al factor, come controprestazione della cessione dei crediti su di lui ricadente, sorgono una serie di obblighi. Gestisce i crediti cedutigli, li contabilizza, per poi provvedere alle operazioni di riscossione e svolge, altresì, attività di consulenza.

Accade, poi, non di rado che il factor, laddove il cedente gliene faccia espressa richiesta, effettui versamenti di somme in anticipo rispetto alla scadenza dei crediti ceduti.

Scopo principe di un simile schema negoziale è quello di far fronte alle innumerevoli esigenze di quelle imprese che nell’effettuare vendite a pagamento differito, rischiano poi di dover subire procedimenti d’insolvenza, a causa della immane massa di crediti da gestire.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la disciplina dettata in materia di cessione dei crediti d’impresa dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52 né assorbe né sopprime l’atipicità ascritta al factoring, anche in ragione del dato prettamente letterale, insito nella legge stessa, che predilige l’espressione “ cessione dei crediti d’impresa” a quella di factoring.

La trattazione di quest’ultimo negozio, non è pertanto da ritenersi esaurita ad opera del citato intervento legislativo; rimangono linee d’ombra considerevoli, sintomatiche della connaturata atipicità di un siffatto schema.

È la stessa giurisprudenza, come già sopra fatto presente, ad aver optato per detta conclusione esegetica, suggerendo, ai fini della qualificazione del factoring, di far richiamo a quel primordiale intento delle parti, dal quale facilmente desumere il risultato concreto perseguito.

Orbene, pur manifestandosi univocità di vedute sul tema della atipicità propria del factoring, tuttavia, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si hanno opinioni divergenti sulla sua natura (assicurazione, scambio, mandato, finanziamento etc.), stante anche la varietà di servizi offerti dal factor e di obblighi, di volta in volta, nascenti su di lui e sul cedente.

Tra tutte le plausibili configurazioni dello stesso, è forse quella di cessione del credito ex articolo 1260 del Codice Civile la qualificazione agevolmente ed ictu oculi rintracciabile, ma ciò non toglie, però, che un siffatto modello negoziale possa essere passibile ugualmente di meccanismi interpretativi differenti.

È partendo da questa premessa che, in capo al factor, si è in grado di scorgere operazioni varie e un assetto di interessi di volta in volta differenziato.

Si pensi, ad esempio, alla anticipata liquidazione dei crediti, ancora non giunti a scadenza, con cui l’imprenditore cedente viene garantito delle somme a lui dovute dai creditori ceduti.

Quest’ultima costituirebbe, a ragion del vero, una chiara forma di finanziamento.

C’è chi, poi, difformemente da quanto appena detto, rinviene in questa attività di liquidazione anticipata, effettuata da parte del factor, il fondamento proprio dell’istituto del mandato e quegli imprescindibili obblighi di gestione ad esso correlati.

Ma la variegata opera di qualificazione dello schema suddetto non termina di certo qui laddove è, poi, possibile che la cessione dei crediti avvenga pro solvendo o pro soluto.

E difatti, se è la prima di cui si parla, il factor acquisterà i crediti con diritto di rivalsa sul cedente, nel caso di mancato pagamento del debitore, circostanza questa che non si verificherà allorquando, invece, si parli di cessione pro soluto, in cui l’acquisizione dei crediti, da parte del factor, avviene in via definitiva, senza possibilità alcuna di esperire azioni di rivalsa o di restituzione delle somme anticipate al cliente.

A seconda che si configuri l’una o l’altra, il factoring assume vesti differenti, di finanziamento nel secondo dei casi, di anticipazione nel primo.

Dinanzi ad un districato quadro, come quello finora delineato, grazie al quale si assiste alla insorgenza di figure nuove di factoring-dalla denominazione di derivazione peraltro anglosassone- e caratterizzato dalla possibile e multiforme presenza di diversi schemi contrattuali e di altrettanti regolamenti d’interessi, la soluzione rappresentata dalla dottrina, in termini di qualificazione giuridica da compiersi, è stata quella di propendere per l’opzione del collegamento negoziale, inteso sic et simpliciter come compresenza di singole cessioni, ognuna delle quali mantiene il proprio assetto causale, con l’effetto di escluderne l’unitarietà strutturale.

Quest’ultima, però, disattendendo oltremodo ogni prospettato indirizzo dottrinario, è stata fatta propria da quelle recenti pronunce giurisprudenziali che militano in favore della stessa, in ragione di quegli obblighi, spesso sistematicamente tralasciati dall’interprete, e facenti capo al factor.

Si è, invero, già detto in precedenza, che questi si presta nei confronti del cedente allo svolgimento di attività di consulenza, ricerca e gestione della potenziale solvibilità dei debitori, di informazione, comunicazione, assistenza, riscossione, contabilizzazione, il tutto dietro il pagamento di una commissione.

A fronte dell’erogazione di siffatti servizi amministrativi, contabili e assicurativi, il cedente è, dal canto suo, obbligato a collaborare nell’invio di qualsivoglia documentazione informativa e nella tutela della riservatezza.

È il prospettarsi di queste reciproche obbligazioni ad esser sintomatica, per la giurisprudenza, del carattere di unitarietà del factoring e, pertanto, escludendo che si tratti di fattispecie di collegamento negoziale, ci si domanda se è di contratti misti o di quelli atipici in senso stretto che si debba parlare.

Ricordando quella classificazione dei contratti fondata su cause univoche o su cause distinte e autonome, considerato che, ad oggi, gli intenti negoziali delle parti che giungono alla stipulazione di un contratto di factoring possono assumere più di una connotazione, è chiaro allora come non può che escludersi altresì l’opzione del contratto misto, identificato dalla presenza di una causa prevalente sulle altre.

In conclusione, posto che né si tratti di contratti collegati, né di contratti misti, posto che il contratto di factoring si presti ad una sfaccettata opera di qualificazione, a volte rientrando nello schema di un dato tipo contrattuale, a volte in un altro, a volte soggiacendo ad una data disciplina, a volte ad un’altra, l’unico rimedio rimesso nelle mani dell’interprete, al fine di fugare eventuali dubbi-frutto dell’assenza di una formale tipizzazione normativa in materia che ad oggi neanche dottrina e giurisprudenza sono riuscite a dirimere, è quello di affidarsi alla causa del negozio, unico elemento questo in grado di celare il vero intento delle parti contraenti e, come tale, di far ritenere applicabile un regolamento normativo piuttosto che un altro.

Ogni qualvolta si parli di contratti atipici, è operato l’implicito richiamo a quel principio di autonomia negoziale, racchiuso nell’articolo 1322 del Codice Civile.

Atteso il riconoscimento offerto dal legislatore nelle mani di chi si affida all’autonomia privata, alla libertà di scelta, all’auto-determinazione negoziale, attesa la vasta gamma di norme che pongono, tuttavia, limitazioni a detta facoltà, ascritta in capo al contraente, che non oltrepassi giammai il confine tracciato dal buon costume, dall’ordine pubblico e dall’imperatività del diritto, è il secondo comma dell’articolo 1322 del Codice Civile la norma cardine in materia di atipicità, quest’ultima intesa, in astratto, come logico corollario al principio di autonomia negoziale, e in concreto, come attitudine del soggetto a predisporre negozi che esulino dallo schema prefissato, in quanto non appartenenti ad alcuna categoria contrattuale, già riconosciuta dal legislatore.

Alla base di una siffatta libertà altro vi sono che ragioni di opportunità sociale che trovano riscontro normativo in quegli inderogabili principi ex articoli 3 e 41 del dettato costituzionale.

Ogni operazione che legittimi la parte a porre in essere contratti innominati garantisce alla medesima un più efficiente soddisfacimento di interessi personali, con un consequenziale minor aggravio sull’apparato statale, nella gestione di qualsivoglia azione di tipo personale.

Si assiste, dunque, al proliferare di un’ampia varietà di contratti atipici, diffusi anche grazie alla prassi comune. Trattasi, per la maggioranza dei casi, di contratti di cosiddetta derivazione “social-giurisprudenziale” che potrebbero, epperò, trovare piena tipicità legale laddove intervenissero, medio tempore, meccanismi di regolazione degli stessi da parte del legislatore.

Così è stato, ad esempio, per il contratto di somministrazione, reso legalmente tipico dal codice del 1942; ed ancora, per i contratti di multiproprietà, tipizzati dalla Legge n. 427/98, per i contratti turistici, normativizzati con il pedissequo Decreto Legislativo n.111/95 e per il contratto di cessione del credito d’impresa.

Operata detta necessaria premessa in tema di autonomia negoziale e correlata atipicità, oramai diffusasi in disparati settori del nostro vivere civico, è il caso ora di ravvisare e descrivere, nel dettaglio, i limiti legalmente imposti in materia.

A tal uopo, è’ nuovamente il secondo comma dell’articolo 1322 a fornirci la risposta, rappresentandoci in quella locuzione “ purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, quell’unica ma rilevante restrizione in materia di atipicità contrattuale.

Definirne i confini non è operazione agevole da compiere.

La dottrina maggioritaria rinviene in quella seconda parte del comma due dell’articolo 1322 del Codice Civile la non contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume e alle norme imperative, con evidente, pertanto, esclusione di quell’altra tesi dottrinaria che voleva il contratto atipico tale purché socialmente utile e non purché socialmente non dannoso e pericoloso.

Abbracciando quella fetta maggioritaria dei teorici del diritto che ha propeso per la prima delle due soluzioni, è stata però sollevata, inesorabilmente, un’obiezione di non poco conto in riferimento al 1322 e al suo 2° comma, additato di essere una evidente duplicazione dell’articolo 1343 del Codice Civile.

Ma così non è, in un’ottica di commistione volontaria e coscienziosa tra discipline contrattuali tipiche e atipiche e tra connesse e contestuali tutele e limitazioni.

È ora il caso di rammentare come ad un’atipicità in senso stretto, scaturente dalla assoluta impossibilità di ricondurre un dato contratto a un determinato tipo, si accompagni poi quell’atipicità frutto della libera scelta del soggetto di combinare due tipi differenti, facendoli confluire in uno unico o di collegare due contratti distinti e separati.

Il sottile limen tra queste due manifestazioni dell’atipicità contrattuale è rinvenibile, secondo i tecnici del diritto, nell’elemento causale.

E invero, da un lato, i contratti misti, pur presentando elementi di tipi contrattuali diversi costituiscono, in realtà, sotto il profilo strettamente causale, un unico contratto, dall’altro, in caso di collegamento negoziale, essendo i contratti sostanzialmente distinti, autonoma e separata sarà anche la loro rispettiva causa.

Per un completo quadro in materia, si sottolinea la presenza anche di quella isolata parte della dottrina che disattende l’operata distinzione, propendendo, anche dinanzi ai contratti collegati, per l’unicità causale.

In presenza di questi ultimi, è evidente come la stretta correlazione implichi che un contratto è influenzato dall’altro, in termini di ravvicinata dipendenza anche sul piano, a volte, del trattamento giuridico ad essi riconducibile.

A tal fine, soccorrono diverse tipologie di collegamento. Da qui l’esistenza di quello sostanziale o di quello definito come formale-documentale; di quello necessario, in cui il collegamento è in re ipsa e prescinde dalla volontà in tal senso espressa dalle parti e di quello volontario, in cui, diversamente, è la volontà inter partes, espressa esplicitamente o tacitamente, a far da collante tra i contratti, in termini di interdipendenza reciproca.

Dette sotto-categorie del più ampio contratto collegato, assurgono al ruolo di linee guida, nella districata attività di qualificazione.

È definita tale quella imprescindibile operazione logica per mezzo della quale viene compiuta la sussunzione o meno di un dato contratto in un dato tipo e l’identificazione della pedissequa disciplina ad esso facente capo, operazione quest’ultima dinanzi la quale alcuni interpreti del diritto ancora dibattono.

Tra le fila di questi ultimi, vi sono quelli che, in tema di factoring, discutono se esso debba esser ascritto alla categoria dei contratti misti, a quella dei collegati, o più semplicemente se di esso si debba parlare in termini di atipicità solo in senso stretto.

È innanzitutto definito tale quel negozio in cui un imprenditore (cedente) si assume su di sé l’obbligo di cedere ad un altro imprenditore (factor) la titolarità dei crediti derivati o derivanti dall’esercizio della sua impresa.

In capo al factor, come controprestazione della cessione dei crediti su di lui ricadente, sorgono una serie di obblighi. Gestisce i crediti cedutigli, li contabilizza, per poi provvedere alle operazioni di riscossione e svolge, altresì, attività di consulenza.

Accade, poi, non di rado che il factor, laddove il cedente gliene faccia espressa richiesta, effettui versamenti di somme in anticipo rispetto alla scadenza dei crediti ceduti.

Scopo principe di un simile schema negoziale è quello di far fronte alle innumerevoli esigenze di quelle imprese che nell’effettuare vendite a pagamento differito, rischiano poi di dover subire procedimenti d’insolvenza, a causa della immane massa di crediti da gestire.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la disciplina dettata in materia di cessione dei crediti d’impresa dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52 né assorbe né sopprime l’atipicità ascritta al factoring, anche in ragione del dato prettamente letterale, insito nella legge stessa, che predilige l’espressione “ cessione dei crediti d’impresa” a quella di factoring.

La trattazione di quest’ultimo negozio, non è pertanto da ritenersi esaurita ad opera del citato intervento legislativo; rimangono linee d’ombra considerevoli, sintomatiche della connaturata atipicità di un siffatto schema.

È la stessa giurisprudenza, come già sopra fatto presente, ad aver optato per detta conclusione esegetica, suggerendo, ai fini della qualificazione del factoring, di far richiamo a quel primordiale intento delle parti, dal quale facilmente desumere il risultato concreto perseguito.

Orbene, pur manifestandosi univocità di vedute sul tema della atipicità propria del factoring, tuttavia, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si hanno opinioni divergenti sulla sua natura (assicurazione, scambio, mandato, finanziamento etc.), stante anche la varietà di servizi offerti dal factor e di obblighi, di volta in volta, nascenti su di lui e sul cedente.

Tra tutte le plausibili configurazioni dello stesso, è forse quella di cessione del credito ex articolo 1260 del Codice Civile la qualificazione agevolmente ed ictu oculi rintracciabile, ma ciò non toglie, però, che un siffatto modello negoziale possa essere passibile ugualmente di meccanismi interpretativi differenti.

È partendo da questa premessa che, in capo al factor, si è in grado di scorgere operazioni varie e un assetto di interessi di volta in volta differenziato.

Si pensi, ad esempio, alla anticipata liquidazione dei crediti, ancora non giunti a scadenza, con cui l’imprenditore cedente viene garantito delle somme a lui dovute dai creditori ceduti.

Quest’ultima costituirebbe, a ragion del vero, una chiara forma di finanziamento.

C’è chi, poi, difformemente da quanto appena detto, rinviene in questa attività di liquidazione anticipata, effettuata da parte del factor, il fondamento proprio dell’istituto del mandato e quegli imprescindibili obblighi di gestione ad esso correlati.

Ma la variegata opera di qualificazione dello schema suddetto non termina di certo qui laddove è, poi, possibile che la cessione dei crediti avvenga pro solvendo o pro soluto.

E difatti, se è la prima di cui si parla, il factor acquisterà i crediti con diritto di rivalsa sul cedente, nel caso di mancato pagamento del debitore, circostanza questa che non si verificherà allorquando, invece, si parli di cessione pro soluto, in cui l’acquisizione dei crediti, da parte del factor, avviene in via definitiva, senza possibilità alcuna di esperire azioni di rivalsa o di restituzione delle somme anticipate al cliente.

A seconda che si configuri l’una o l’altra, il factoring assume vesti differenti, di finanziamento nel secondo dei casi, di anticipazione nel primo.

Dinanzi ad un districato quadro, come quello finora delineato, grazie al quale si assiste alla insorgenza di figure nuove di factoring-dalla denominazione di derivazione peraltro anglosassone- e caratterizzato dalla possibile e multiforme presenza di diversi schemi contrattuali e di altrettanti regolamenti d’interessi, la soluzione rappresentata dalla dottrina, in termini di qualificazione giuridica da compiersi, è stata quella di propendere per l’opzione del collegamento negoziale, inteso sic et simpliciter come compresenza di singole cessioni, ognuna delle quali mantiene il proprio assetto causale, con l’effetto di escluderne l’unitarietà strutturale.

Quest’ultima, però, disattendendo oltremodo ogni prospettato indirizzo dottrinario, è stata fatta propria da quelle recenti pronunce giurisprudenziali che militano in favore della stessa, in ragione di quegli obblighi, spesso sistematicamente tralasciati dall’interprete, e facenti capo al factor.

Si è, invero, già detto in precedenza, che questi si presta nei confronti del cedente allo svolgimento di attività di consulenza, ricerca e gestione della potenziale solvibilità dei debitori, di informazione, comunicazione, assistenza, riscossione, contabilizzazione, il tutto dietro il pagamento di una commissione.

A fronte dell’erogazione di siffatti servizi amministrativi, contabili e assicurativi, il cedente è, dal canto suo, obbligato a collaborare nell’invio di qualsivoglia documentazione informativa e nella tutela della riservatezza.

È il prospettarsi di queste reciproche obbligazioni ad esser sintomatica, per la giurisprudenza, del carattere di unitarietà del factoring e, pertanto, escludendo che si tratti di fattispecie di collegamento negoziale, ci si domanda se è di contratti misti o di quelli atipici in senso stretto che si debba parlare.

Ricordando quella classificazione dei contratti fondata su cause univoche o su cause distinte e autonome, considerato che, ad oggi, gli intenti negoziali delle parti che giungono alla stipulazione di un contratto di factoring possono assumere più di una connotazione, è chiaro allora come non può che escludersi altresì l’opzione del contratto misto, identificato dalla presenza di una causa prevalente sulle altre.

In conclusione, posto che né si tratti di contratti collegati, né di contratti misti, posto che il contratto di factoring si presti ad una sfaccettata opera di qualificazione, a volte rientrando nello schema di un dato tipo contrattuale, a volte in un altro, a volte soggiacendo ad una data disciplina, a volte ad un’altra, l’unico rimedio rimesso nelle mani dell’interprete, al fine di fugare eventuali dubbi-frutto dell’assenza di una formale tipizzazione normativa in materia che ad oggi neanche dottrina e giurisprudenza sono riuscite a dirimere, è quello di affidarsi alla causa del negozio, unico elemento questo in grado di celare il vero intento delle parti contraenti e, come tale, di far ritenere applicabile un regolamento normativo piuttosto che un altro.