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Contratto di apertura del credito: nullità degli interessi bancari addebitati e automatica applicazione del tasso di interesse legale

1. Cenni sull’istituto dell’apertura di credito bancario

È prassi che le banche utilizzino il classico rapporto di conto corrente bancario anche per finalità di “appoggio” ad altri contratti bancari, quale il contratto di apertura di credito.

La caratteristica peculiare dell’apertura di credito consiste nella disponibilità di una somma di danaro in favore del cliente che, a sua volta, ha un potere d’utilizzazione economica della predetta somma, da restituire alla banca entro un termine prefissato o alla conclusione del rapporto.

Nel caso in cui il contratto di apertura di credito acceda ad un rapporto in conto corrente il cliente ha il potere, oltre che di effettuare più prelevamenti, di reintegrare la disponibilità (provvista) mediante successivi versamenti.

Secondo il legislatore l’apertura di credito è “il contratto con la quale la banca si obbliga a tenere a disposizione  dell’altra parte una somma di denaro per un determinato periodo di tempo o a tempo indeterminato” (articolo 1842 del Codice Civile).

L’affidamento si perfeziona per effetto del solo consenso delle parti in ordine alla messa a disposizione del denaro. Oggetto del contratto è quindi il godimento di tale disponibilità.

La somma accreditata fino a quando non è utilizzata rimane di proprietà della banca, ma l’accredito dà diritto al cliente di utilizzare il credito concessogli nei tempi e con le modalità pattuite.

Con l’affidamento il cliente ottiene nei confronti della banca un diritto potestativo: “Questi è infatti libero di utilizzare o meno, in tutto o in parte, il credito concessogli, se e quando lo riterrà opportuno. Ed in ciò consiste il vantaggio pratico dell’apertura di credito rispetto al mutuo” (Campobasso).

La somma di denaro verrà utilizzata  tramite il conto corrente, a seconda delle esigenze del richiedente.

Gli utilizzi e i rientri avvengono tramite le operazioni di addebito e di accredito sul conto corrente, attribuendo al finanziamento bancario un’entità variabile ed una certa elasticità. L’ammontare del credito a disposizione si ripristina, infatti, in seguito ad ogni accredito e si rende nuovamente disponibile per ulteriori utilizzi e costituisce, solitamente, una riserva di liquidità costituita dalla differenza positiva tra il fido ottenuto e lo scoperto effettivamente utilizzato.

L’utilizzo della formula contrattuale de qua appare volta ad assicurare un equilibrato sincronismo fra i tempi ed i volumi delle entrate e delle uscite monetarie che interessano lo svolgimento della gestione dell’azienda affidata. La quale può utilizzare a sua discrezione il credito concesso, anche in più soluzioni e ripristinare l’originaria disponibilità con versamenti successivi ed utilizzare nuovamente il credito così reintegrato (articolo 1843 del Codice Civile).

Proprio la flessibilità di utilizzo ha permesso una larga diffusione del contratto in esame, gradito anche dalla clientela privata, ovvero non esercente attività imprenditoriale (lavoratori autonomi e dipendenti, pensionati, etc.), che può contare su una riserva di liquidità in caso di spese impreviste e/o di difficoltà economiche, talvolta croniche per effetto della prolungata crisi economica.

La validità del contratto impone l’uso della forma scritta, e l’inosservanza di tale forma implica nullità del contratto.

In proposito si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, Sentenza 9 luglio 2005, n.14470, puntualizzando che l’articolo 3, comma 3, della cosiddetta “legge sulla trasparenza bancaria” recante n. 154 del 1992, e l’articolo 117, comma 2 del Decreto Legislativo n. 385/1993 (noto come Testo Unico bancario), pur prevedendo la forma scritta a pena di nullità per il contratto di apertura di credito, al contempo attribuiscono al Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (“CICR”) il potere di prevedere che particolari contratti, per motivate ragioni tecniche, possano essere stipulati in forma diversa da quella scritta.

Di solito la banca, a tutela del credito erogato, esige delle garanzie, come previsto dall’articolo 1844 del Codice Civile:

“1. Se per l’apertura di credito è data una garanzia reale o personale, questa non si estingue prima della fine del rapporto per il solo fatto che l’accreditato cessa di essere debitore della banca. 2. Se la garanzia diviene insufficiente, la banca può chiedere un supplemento di garanzia o la sostituzione del garante. Se l’accreditato non ottempera alla richiesta, la banca può ridurre il credito proporzionalmente al diminuito valore della garanzia o recedere dal contratto”.

La banca, quindi, può contare di una normativa che le consente ampia tutela del proprio credito, potendo richiedere all’accreditato sia la reintegrazione della garanzia fino ad un importo ritenuto idoneo, sia di ridurre il credito concesso nella stessa misura della diminuzione della garanzia, o, infine, di recedere dal contratto.

Completa la cornice normativa dell’istituto l’articolo 1845 del Codice Civile che regolamenta tutte le varie ipotesi di recesso dal contratto diverse da quelle contemplate dalla norma sopra citata, prevedendo che, salvo patto contrario, la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa.

Il recesso sospende immediatamente l’utilizzazione del credito, che quindi viene congelato alla situazione esistente a tale data.

L’ultimo comma dell’articolo 1845 del Codice Civile, infine, consente alla banca di chiudere l’apertura di credito concessa, anche in assenza di giusta causa, concedendo all’accreditato il minimo termine di quindici giorni, decorso il quale potrà procedere giudizialmente per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori, ovvero interessi, spese e tutto ciò che è previsto nel contratto.

2. La res controversa

Nella fattispecie di cui si dirà in prosieguo, la correntista ha contestato gli addebiti sul proprio conto, a titolo di interessi passivi, effettuati dall’Istituto di credito convenuto, il quale addebitava alla cliente interessi bancari per effetto di uno consistente scopertura sul conto, tale da essere  superiore allo stesso importo affidato con l’apertura di credito in Codice Civile.

Il suddetto sconfinamento veniva ripianato dalla correntista mediante diversi versamenti volti a reintegrare la provvista.

La consumatrice contesta gli addebiti ed in particolare la clausola contrattuale relativa al tasso degli interessi applicati per effetto dello sconfinamento dalla banca, la quale fa riferimento alla disciplina dell’articolo 7 delle N.U.B. (acronimo di norme bancarie uniformi), legittimando, in virtù delle stesse, l’applicazione del tasso applicato in concreto richiamandosi al tasso usualmente applicato su piazza.

L’attrice, nel contestare la validità della predetta clausola, adduce due argomenti:

a) carenza della forma scritta occorrente per la valida pattuizione degli interessi superiori alla soglia legale, ai sensi dell’articolo 1284 del Codice Civile;

b) indeterminabilità del tasso in concreto da applicare, comportante la nullità ex articolo 1346 del Codice Civile – per effetto del richiamo contenuto nell’articolo 1418, comma 2 – ed assenza di trasparenza.

All’uopo richiama la giurisprudenza che sanziona con la nullità rilevabile, ex officio, la generica quantificazione del tasso degli interessi (ex multis, Tribunale Lanciano, Sentenza 31 luglio 2009, n. 804).

3. La presa di posizione della sentenza in commento

Il Giudice di pace di Gela, con Sentenza n.566 depositata il 3 luglio 2013, ha ritenuto che “l’articolo 4 comma 3° della legge 154/92, entrata in vigore in data 09-07-1992, ha stabilito che sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi. Il contratto di conto corrente è stato stipulato da… omissis…in data 03-05-1993.

Pertanto, la clausola relativa al tasso di interessi applicato al contratto di conto corrente stipulato è nulla, come disposto dall’articolo 4 comma 3° della legge 154/92, stante il rinvio agli usi nella determinazione del tasso di interessi.

Conseguentemente, gli interessi passivi non potevano essere applicati nella misura del 13,50% per le operazioni entro il fido e del 14,90% per le operazioni extra fido. Pertanto, gli interessi passivi dovevano essere applicati nella misura legale, atteso che la clausola contrattuale di rimando agli usi per la determinazione degli interessi era già inoperante alla data della stipula del contratto di conto corrente” (brani estratti dalla pronuncia sopra citata).

Alla luce del suddetto principio, indi, la banca è stata condannata a restituire alla risparmiatrice i maggiori interessi addebitati, ritenendo il Giudice, d’ufficio, la nullità dell’articolo 7 della N.U.B., sicché gli interessi che la banca avrebbe potuto esigere non potevano quantificarsi al tasso del 14,9%, bensì nella misura legale, oscillante, nel periodo in analisi, tra l’uno e il 2,5%.

1. Cenni sull’istituto dell’apertura di credito bancario

È prassi che le banche utilizzino il classico rapporto di conto corrente bancario anche per finalità di “appoggio” ad altri contratti bancari, quale il contratto di apertura di credito.

La caratteristica peculiare dell’apertura di credito consiste nella disponibilità di una somma di danaro in favore del cliente che, a sua volta, ha un potere d’utilizzazione economica della predetta somma, da restituire alla banca entro un termine prefissato o alla conclusione del rapporto.

Nel caso in cui il contratto di apertura di credito acceda ad un rapporto in conto corrente il cliente ha il potere, oltre che di effettuare più prelevamenti, di reintegrare la disponibilità (provvista) mediante successivi versamenti.

Secondo il legislatore l’apertura di credito è “il contratto con la quale la banca si obbliga a tenere a disposizione  dell’altra parte una somma di denaro per un determinato periodo di tempo o a tempo indeterminato” (articolo 1842 del Codice Civile).

L’affidamento si perfeziona per effetto del solo consenso delle parti in ordine alla messa a disposizione del denaro. Oggetto del contratto è quindi il godimento di tale disponibilità.

La somma accreditata fino a quando non è utilizzata rimane di proprietà della banca, ma l’accredito dà diritto al cliente di utilizzare il credito concessogli nei tempi e con le modalità pattuite.

Con l’affidamento il cliente ottiene nei confronti della banca un diritto potestativo: “Questi è infatti libero di utilizzare o meno, in tutto o in parte, il credito concessogli, se e quando lo riterrà opportuno. Ed in ciò consiste il vantaggio pratico dell’apertura di credito rispetto al mutuo” (Campobasso).

La somma di denaro verrà utilizzata  tramite il conto corrente, a seconda delle esigenze del richiedente.

Gli utilizzi e i rientri avvengono tramite le operazioni di addebito e di accredito sul conto corrente, attribuendo al finanziamento bancario un’entità variabile ed una certa elasticità. L’ammontare del credito a disposizione si ripristina, infatti, in seguito ad ogni accredito e si rende nuovamente disponibile per ulteriori utilizzi e costituisce, solitamente, una riserva di liquidità costituita dalla differenza positiva tra il fido ottenuto e lo scoperto effettivamente utilizzato.

L’utilizzo della formula contrattuale de qua appare volta ad assicurare un equilibrato sincronismo fra i tempi ed i volumi delle entrate e delle uscite monetarie che interessano lo svolgimento della gestione dell’azienda affidata. La quale può utilizzare a sua discrezione il credito concesso, anche in più soluzioni e ripristinare l’originaria disponibilità con versamenti successivi ed utilizzare nuovamente il credito così reintegrato (articolo 1843 del Codice Civile).

Proprio la flessibilità di utilizzo ha permesso una larga diffusione del contratto in esame, gradito anche dalla clientela privata, ovvero non esercente attività imprenditoriale (lavoratori autonomi e dipendenti, pensionati, etc.), che può contare su una riserva di liquidità in caso di spese impreviste e/o di difficoltà economiche, talvolta croniche per effetto della prolungata crisi economica.

La validità del contratto impone l’uso della forma scritta, e l’inosservanza di tale forma implica nullità del contratto.

In proposito si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, Sentenza 9 luglio 2005, n.14470, puntualizzando che l’articolo 3, comma 3, della cosiddetta “legge sulla trasparenza bancaria” recante n. 154 del 1992, e l’articolo 117, comma 2 del Decreto Legislativo n. 385/1993 (noto come Testo Unico bancario), pur prevedendo la forma scritta a pena di nullità per il contratto di apertura di credito, al contempo attribuiscono al Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (“CICR”) il potere di prevedere che particolari contratti, per motivate ragioni tecniche, possano essere stipulati in forma diversa da quella scritta.

Di solito la banca, a tutela del credito erogato, esige delle garanzie, come previsto dall’articolo 1844 del Codice Civile:

“1. Se per l’apertura di credito è data una garanzia reale o personale, questa non si estingue prima della fine del rapporto per il solo fatto che l’accreditato cessa di essere debitore della banca. 2. Se la garanzia diviene insufficiente, la banca può chiedere un supplemento di garanzia o la sostituzione del garante. Se l’accreditato non ottempera alla richiesta, la banca può ridurre il credito proporzionalmente al diminuito valore della garanzia o recedere dal contratto”.

La banca, quindi, può contare di una normativa che le consente ampia tutela del proprio credito, potendo richiedere all’accreditato sia la reintegrazione della garanzia fino ad un importo ritenuto idoneo, sia di ridurre il credito concesso nella stessa misura della diminuzione della garanzia, o, infine, di recedere dal contratto.

Completa la cornice normativa dell’istituto l’articolo 1845 del Codice Civile che regolamenta tutte le varie ipotesi di recesso dal contratto diverse da quelle contemplate dalla norma sopra citata, prevedendo che, salvo patto contrario, la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa.

Il recesso sospende immediatamente l’utilizzazione del credito, che quindi viene congelato alla situazione esistente a tale data.

L’ultimo comma dell’articolo 1845 del Codice Civile, infine, consente alla banca di chiudere l’apertura di credito concessa, anche in assenza di giusta causa, concedendo all’accreditato il minimo termine di quindici giorni, decorso il quale potrà procedere giudizialmente per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori, ovvero interessi, spese e tutto ciò che è previsto nel contratto.

2. La res controversa

Nella fattispecie di cui si dirà in prosieguo, la correntista ha contestato gli addebiti sul proprio conto, a titolo di interessi passivi, effettuati dall’Istituto di credito convenuto, il quale addebitava alla cliente interessi bancari per effetto di uno consistente scopertura sul conto, tale da essere  superiore allo stesso importo affidato con l’apertura di credito in Codice Civile.

Il suddetto sconfinamento veniva ripianato dalla correntista mediante diversi versamenti volti a reintegrare la provvista.

La consumatrice contesta gli addebiti ed in particolare la clausola contrattuale relativa al tasso degli interessi applicati per effetto dello sconfinamento dalla banca, la quale fa riferimento alla disciplina dell’articolo 7 delle N.U.B. (acronimo di norme bancarie uniformi), legittimando, in virtù delle stesse, l’applicazione del tasso applicato in concreto richiamandosi al tasso usualmente applicato su piazza.

L’attrice, nel contestare la validità della predetta clausola, adduce due argomenti:

a) carenza della forma scritta occorrente per la valida pattuizione degli interessi superiori alla soglia legale, ai sensi dell’articolo 1284 del Codice Civile;

b) indeterminabilità del tasso in concreto da applicare, comportante la nullità ex articolo 1346 del Codice Civile – per effetto del richiamo contenuto nell’articolo 1418, comma 2 – ed assenza di trasparenza.

All’uopo richiama la giurisprudenza che sanziona con la nullità rilevabile, ex officio, la generica quantificazione del tasso degli interessi (ex multis, Tribunale Lanciano, Sentenza 31 luglio 2009, n. 804).

3. La presa di posizione della sentenza in commento

Il Giudice di pace di Gela, con Sentenza n.566 depositata il 3 luglio 2013, ha ritenuto che “l’articolo 4 comma 3° della legge 154/92, entrata in vigore in data 09-07-1992, ha stabilito che sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi. Il contratto di conto corrente è stato stipulato da… omissis…in data 03-05-1993.

Pertanto, la clausola relativa al tasso di interessi applicato al contratto di conto corrente stipulato è nulla, come disposto dall’articolo 4 comma 3° della legge 154/92, stante il rinvio agli usi nella determinazione del tasso di interessi.

Conseguentemente, gli interessi passivi non potevano essere applicati nella misura del 13,50% per le operazioni entro il fido e del 14,90% per le operazioni extra fido. Pertanto, gli interessi passivi dovevano essere applicati nella misura legale, atteso che la clausola contrattuale di rimando agli usi per la determinazione degli interessi era già inoperante alla data della stipula del contratto di conto corrente” (brani estratti dalla pronuncia sopra citata).

Alla luce del suddetto principio, indi, la banca è stata condannata a restituire alla risparmiatrice i maggiori interessi addebitati, ritenendo il Giudice, d’ufficio, la nullità dell’articolo 7 della N.U.B., sicché gli interessi che la banca avrebbe potuto esigere non potevano quantificarsi al tasso del 14,9%, bensì nella misura legale, oscillante, nel periodo in analisi, tra l’uno e il 2,5%.