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Corte di Giustizia: buona fede e diligenza dell’imprenditore non bastano nelle pratiche commerciali sleali

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che, per la qualificazione di una pratica commerciale come ingannevole, non è necessario dimostrare la contrarietà a norme di diligenza professionale.

Tali comportamenti, posti in essere da imprese nei confronti dei consumatori, sono definiti a norma della direttiva 2005/29/CE (“Direttiva”) come sleali e, di conseguenza, vietati. La Direttiva, recepita in Italia nel Codice del Consumo, definisce all'articolo 2, lettera a), le pratiche commerciali come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.

L’articolo 5, paragrafo 1, della Direttiva vieta esplicitamente le pratiche commerciali c.d. sleali, ovvero qualsiasi comportamento “contrario alle norme della diligenza professionale” e “falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio”, così come definito dal paragrafo 2 del medesimo articolo. Tra le pratiche sleali, il legislatore comunitario prevede quelle cosiddette ingannevoli.

La pronuncia della Corte si inserisce nella controversia che vede come parti due agenzie di viaggi austriache. Una delle due agenzie pubblicizzava la propria attività con brochure che evidenziavano la possibilità di prenotare soggiorni in determinati periodi dell’anno in specifiche strutture alberghiere (in regime di esclusiva), in forza di un accordo di esclusiva.

Tuttavia, violando gli accordi intercorsi, le strutture alberghiere avevano offerto il medesimo servizio ad un’altra agenzia viaggi, circostanza, questa, non conosciuta dalla prima agenzia al momento in cui promuoveva la propria attività con le citate brochure. La seconda agenzia ricorreva in giudizio per evitare che l’agenzia concorrente continuasse ad utilizzare quel materiale pubblicitario, adducendo che lo stesso fosse vietato, in quanto contenente informazioni false e che quindi si inquadrasse nella categoria delle pratiche commerciali sleali.

I giudici dell’ordinamento austriaco, di primo e secondo grado, hanno ritenuto che la condotta della prima agenzia turistica non integri la violazione delle norme a tutela dei consumatori in materia di pratiche commerciali, avendo la medesima rispettato le norme di diligenza professionale. I giudici della Corte di Cassazione austriaca hanno interpellato la Corte di Giustizia per una interpretazione delle disposizioni in esame.

I giudici comunitari hanno ritenuto che, poiché il fine di tale Direttiva è quello di offrire una maggior protezione ai consumatori, è irrilevante qualsiasi circostanza attinente alla sfera dell’imprenditore, ragione per cui appare irrilevante il rispetto di norme di diligenza professionale.

Nel caso in esame l’agenzia non poteva utilizzare il proprio materiale pubblicitario in quanto contenente informazioni false, sebbene la falsità di dette informazioni non proveniva da un comportamento diretto dell’agenzia stessa, ma da un inadempimento degli alberghi con cui tale società aveva concluso un rapporto di esclusiva.

La Corte di Giustizia ha pertanto dichiarato che: La Direttiva “va interpretata nel senso che, nell'ipotesi in cui una pratica commerciale soddisfi tutti i criteri enunciati all'articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva per poter essere qualificata come pratica ingannevole nei confronti del consumatore, non occorre verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima perché essa possa essere legittimamente ritenuta sleale e, pertanto, essere vietata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della stessa direttiva”.

 

(Corte di Giustizia dell’Unione Europea - Prima sezione, Sentenza 19 settembre 2013, Causa C-435/11: Direttiva 2005/29/CE - Pratiche commerciali sleali - Brochure di vendita contenente false informazioni - Qualifica di “pratica commerciale ingannevole” - Ipotesi in cui al professionista non possa essere contestata alcuna violazione dell’obbligo di diligenza)

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che, per la qualificazione di una pratica commerciale come ingannevole, non è necessario dimostrare la contrarietà a norme di diligenza professionale.

Tali comportamenti, posti in essere da imprese nei confronti dei consumatori, sono definiti a norma della direttiva 2005/29/CE (“Direttiva”) come sleali e, di conseguenza, vietati. La Direttiva, recepita in Italia nel Codice del Consumo, definisce all'articolo 2, lettera a), le pratiche commerciali come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.

L’articolo 5, paragrafo 1, della Direttiva vieta esplicitamente le pratiche commerciali c.d. sleali, ovvero qualsiasi comportamento “contrario alle norme della diligenza professionale” e “falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio”, così come definito dal paragrafo 2 del medesimo articolo. Tra le pratiche sleali, il legislatore comunitario prevede quelle cosiddette ingannevoli.

La pronuncia della Corte si inserisce nella controversia che vede come parti due agenzie di viaggi austriache. Una delle due agenzie pubblicizzava la propria attività con brochure che evidenziavano la possibilità di prenotare soggiorni in determinati periodi dell’anno in specifiche strutture alberghiere (in regime di esclusiva), in forza di un accordo di esclusiva.

Tuttavia, violando gli accordi intercorsi, le strutture alberghiere avevano offerto il medesimo servizio ad un’altra agenzia viaggi, circostanza, questa, non conosciuta dalla prima agenzia al momento in cui promuoveva la propria attività con le citate brochure. La seconda agenzia ricorreva in giudizio per evitare che l’agenzia concorrente continuasse ad utilizzare quel materiale pubblicitario, adducendo che lo stesso fosse vietato, in quanto contenente informazioni false e che quindi si inquadrasse nella categoria delle pratiche commerciali sleali.

I giudici dell’ordinamento austriaco, di primo e secondo grado, hanno ritenuto che la condotta della prima agenzia turistica non integri la violazione delle norme a tutela dei consumatori in materia di pratiche commerciali, avendo la medesima rispettato le norme di diligenza professionale. I giudici della Corte di Cassazione austriaca hanno interpellato la Corte di Giustizia per una interpretazione delle disposizioni in esame.

I giudici comunitari hanno ritenuto che, poiché il fine di tale Direttiva è quello di offrire una maggior protezione ai consumatori, è irrilevante qualsiasi circostanza attinente alla sfera dell’imprenditore, ragione per cui appare irrilevante il rispetto di norme di diligenza professionale.

Nel caso in esame l’agenzia non poteva utilizzare il proprio materiale pubblicitario in quanto contenente informazioni false, sebbene la falsità di dette informazioni non proveniva da un comportamento diretto dell’agenzia stessa, ma da un inadempimento degli alberghi con cui tale società aveva concluso un rapporto di esclusiva.

La Corte di Giustizia ha pertanto dichiarato che: La Direttiva “va interpretata nel senso che, nell'ipotesi in cui una pratica commerciale soddisfi tutti i criteri enunciati all'articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva per poter essere qualificata come pratica ingannevole nei confronti del consumatore, non occorre verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima perché essa possa essere legittimamente ritenuta sleale e, pertanto, essere vietata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della stessa direttiva”.

 

(Corte di Giustizia dell’Unione Europea - Prima sezione, Sentenza 19 settembre 2013, Causa C-435/11: Direttiva 2005/29/CE - Pratiche commerciali sleali - Brochure di vendita contenente false informazioni - Qualifica di “pratica commerciale ingannevole” - Ipotesi in cui al professionista non possa essere contestata alcuna violazione dell’obbligo di diligenza)