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Elementi distintivi del falso in bilancio e le responsabilità di amministratori, sindaci e revisori

Canto solitario
Ph. Luca Martini / Canto solitario

Abstract

Il presente contributo mira ad analizzare i principi cardine individuati dalla giurisprudenza a seguito delle celebri pronunce del 2015 in materia di falso in bilancio, con particolare riferimento all’individuazione dell’elemento soggettivo di tale fattispecie criminosa, così come già stigmatizzato dalla Suprema Corte.

Tale analisi ha altresì lo scopo di evidenziare precipuamente gli aspetti relativi alla configurazione della responsabilità penale in capo ai principali soggetti societari per i fatti illeciti di cui trattasi.

 

Indice:

1. Premesse

2. Elementi distintivi del falso in bilancio

3. Bilancio non veritiero o irregolare e bilancio falso

4. L’elemento soggettivo del reato come stigmatizzato dalla Suprema Corte

5. La responsabilità di amministratori

6. La responsabilità dei sindaci

7. La responsabilità dei revisori

 

1. Premesse

 La falsità perseguibile negli articoli 2621, 2621 bis, 2622 codice civile deve riguardare i dati informativi essenziali, idonei ad ingannare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari. La potenzialità ingannatoria, strettamente connessa con il profilo soggettivo dei reati, può infatti derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è esistente nel patrimonio sociale, ma viene computato al di fuori dei parametri tecnici di valutazione.  L’alterazione di tali dati non deve, in fin dei conti, necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo influire anche solo su quello qualitativo, tale da fuorviare comunque il destinatario dell’informazione. In tal guisa, l’impropria appostazione di dati veri, l’impropria giustificazione causale di “voci”, pur reali ed esistenti, ma distorte, ben possono avere effetto decettivo e quindi incidere negativamente sul bene giuridico tutelato dalla norma: la trasparenza societaria, che costituisce il fondamento della tutela penalistica del bilancio (Cass. SS.UU. 22474/2016, cfr. pag. 24).  

 

2. Elementi distintivi del falso in bilancio

 A seguito dell’entrata in vigore della l.69/2015, si è assistito ad un’importante modifica della disciplina relativa all’apparato normativo che regola il reato di false comunicazioni sociali.

Le nuove formulazioni riprendono in buona parte la struttura delle precedenti disposizioni, senza tuttavia riproporre la bipartizione tra la fattispecie di tipo contravvenzionale tipica della previgente incriminazione di cui all’articolo 2621 codice civile e del reato di danno, previsto e punito ai sensi del precedente articolo 2622 codice civile.

La fattispecie criminosa de qua assume notevole importanza agli occhi del legislatore poiché viene considerato un “reato spia” di fenomeni corruttivi, in quanto, ad esempio, attraverso l'appostazione contabile di false fatturazioni vengono costituiti i cosiddetti fondi neri utilizzabili per il pagamento di tangenti o per la consumazione di altre attività illecite (cfr. Cass. pen., Sez. Un., n. 22474/2016).

Ecco allora che se ontologicamente il rischio equivale, nelle varie declinazioni del linguaggio economico, commerciale, contabile, all'eventualità di una perdita è imprescindibile, per regolare tale fenomeno, introdurre criteri e norme per la prevenzione, misurazione del rischio connesso alla mendacità del bilancio per poi stabilire la norma punitiva nel caso in cui l’errore, connesso al pericolo risulti dolosamente architettato  (C. FERRIANI, “Bilancio e false comunicazioni sociali” in “La gestione del rischio e i sistemi di prevenzione del reato”, Pacini editore, 2019, p.17 ss.).

 

3. Bilancio non veritiero o irregolare e bilancio falso

Occorre, infatti, separare gli errori in bilancio derivanti da frodi da quelli causati da comportamenti o eventi non intenzionali.

Senza alcune pretesa di esaustività tra i primi possono rientrare sicuramente i cd. errori “tecnici” nel processo di raccolta o di elaborazione dei dati utilizzati per la redazione del bilancio ovvero l’erronea applicazione dei principi contabili inerenti i fatti aziendali.

Al contrario, conviene distinguere dall’ipotesi testé citata quegli errori derivanti da frode, tra qui emergono sicuramente la manipolazione, falsificazione di scritture contabili o della documentazione di supporto al bilancio;  le rappresentazioni fuorvianti o omissioni intenzionali nei bilanci di fatti, operazioni ovvero di informazioni significative; la registrazione di scritture contabili fittizie, in particolare in chiusura d’esercizio, al fine di alterare il risultato d’esercizio o per altre illecite ragioni; l’indebita modifica delle assunzioni o valutazioni utilizzate per le stime di bilancio; nonché la realizzazione di operazioni straordinarie complesse strutturate al fine di fornire una rappresentazione artata della posizione e delle performance dell’impresa.

Per quanto attiene, invece, alla correttezza delle valutazioni – giustamente ritenute di penale rilevanza con la sentenza n.22474 depositata il 27 maggio 2016 delle Sezioni Unite della Cassazione – una possibile soluzione per l’individuazione delle ipotesi di rilevanza penale delle stesse potrebbe essere quella di considerare la singola valutazione non in relazione al solo giudizio finale esposto in bilancio, ma con riferimento alla modalità con cui al suddetto esito si è pervenuti.

Alla luce di quanto sovraesposto, pertanto, il bilancio d’esercizio e consolidato viene qualificato “irregolare” quando non viene redatto con chiarezza e non rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio. In altri termini, il “bilancio irregolare” viola la legislazione civile sui bilanci. Il “bilancio falso”, invece, viola la legislazione penale, che diverge sostanzialmente da quella civilistica.

A seguito dell’entrata in vigore della l.69/2015, si è assistito ad un’importante modifica della disciplina relativa all’apparato normativo che regola il reato di false comunicazioni sociali.

Le nuove formulazioni riprendono in buona parte la struttura delle precedenti disposizioni, senza tuttavia riproporre la bipartizione tra la fattispecie di tipo contravvenzionale tipica della previgente incriminazione di cui all’articolo 2621 codice civile e del reato di danno, previsto e punito ai sensi del precedente articolo 2622 codice civile.

Da subito, si sono evidenziate alcune problematicità circa la locuzione “fatti materiali”, atteso che dal nuovo dettato normativo è stata espunta l’ulteriore dizione “ancorchè oggetto di valutazioni” presente nella previgente formulazione.

Sul punto hanno giocato un ruolo fondamentale le due celeberrime sentenze pronunciate dalla Suprema Corte, sez. V, nel corso dell’anno 2015.

In data 16 luglio 2015, con un primo arresto giurisprudenziale i Giudici di Legittimità hanno suddiviso “i fatti” oggetto della sopracitata fattispecie criminosa in due categorie: i) fatti materiali non rispondenti al vero, aventi rilevanza penale; ii) valutazioni estimative, non aventi rilevanza penale (Corte di cassazione, sezione v penale, sentenza n. 33774/15 del 30 luglio 2015).

Con “fatti materiali” si suole fare riferimento ai fatti oggettivi caratterizzati da un valore assoluto, al quale risulta agevole attribuire la qualità di “vero” o “falso”, mentre le “valutazioni soggettive” attengono a valori soggettivi e derivano da un apprezzamento discrezionale da parte degli amministratori. La citata Giurisprudenza di Legittimità precisa però che la valutazione di qualcosa di inesistente ovvero l’attribuzione di un valore ad una realtà insussistente debba essere ricondotta alla sfera dei “fatti materiali non rispondenti al vero”.

Qualche mese più tardi, la Suprema Corte è tornata sul punto fornendo un’interpretazione diametralmente opposta alla precedente pronuncia del medesimo anno. 

Alla luce di questo secondo orientamento, si ritiene che l'esclusivo riferimento ai «fatti materiali», oggetto di falsa rappresentazione, non ha avuto l'effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali, viceversa, ben possono essere definiti falsi, quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati, ovvero tecnicamente indiscussi.

Nei primi mesi del 2016 la sezione V della Cassazione, chiamata ad esaminare la sentenza del 24/03/2014 della Corte d'Appello dell'Aquila in ordine al fallimento dell'Aquila calcio s.p.a., ove l'imputato amministratore della società veniva condannato di false comunicazioni sociali, si trova apparentemente di fronte a due diversi orientamenti, tanto da rimettere la questione alle Sezioni Unite. L'ordinanza di rimessione si interroga sugli effettivi confini concettuali del "falso valutativo", ribadendo che le anomalie di bilancio, attraverso le quali, secondo l'ipotesi accusatoria si è consentito alla società fallita di evitare l'adozione delle necessarie deliberazioni di messa in liquidazione e scioglimento, coinvolgono inevitabilmente la questione dell'interpretazione del nuovo dettato dell'articolo 2621 codice civile, in quanto, se si aderisse all'orientamento giurisprudenziale derivante dalla sentenza n. 33774 del 16.06.2015 (Crespi), dovrebbe rilevarsi, immediatamente, da parte della Suprema Corte una causa di esclusione del reato ai sensi dell'articolo 129 c.p.p. destinata ad emergere in sede di esecuzione ex articolo 673 c.p.p.. La Corte rileva infatti che, a seguito della novella L.69/2015 in tema di false comunicazioni sociali, il disposto del nuovo articolo 2621 codice civile possa essere effettivamente interpretato divergentemente, ponendosi da un lato le sentenze n. 33774 del 16/06/2015 (caso Crespi) e n. 6916 del 08/01/2016 (caso Banca Popolare dell'Alto Adige) e dall'altro la sentenza n. 890 del 12/11/2015 (caso Giovagnoli conf. n. 12793, ric. Beccari), tali per cui in sede di applicazione della norma di cui all'articolo 9 della L. 69/2015, che ha eliminato nell'articolo 2621 l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni", possa sorgere l'interrogativo circa l'effetto abrogativo che discende da tale decurtazione del testo normativo.

Le Sezioni unite hanno dato risposta affermativa al quesito loro sottoposto a seguito di rimessione (C. BENUSSI “I nuovi delitti di false comunicazioni sociali e la rilevanza penale delle false valutazioni”, in DPC, 2016, p.42).

La Corte afferma infatti che, affinché si proceda con una esaustiva interpretazione del testo normativo, l'intenzione del legislatore deve essere "estratta" dall'involucro verbale, attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all'interprete. Quando, come nel caso della riforma del reato di false comunicazioni sociali, un testo normativo ne riforma uno precedente, operando non in aggiunta o in sostituzione di un'espressione verbale ad un'altra, ma una mera soppressione di una frase (peraltro, ermeneuticamente subordinata), è di tutta evidenza che uno sforzo ermeneutico che si arrestasse all'involucro letterale del dato normativo, non raggiungerebbe di certo risultati soddisfacenti. Se dunque, per una corretta interpretazione delle norme, non è sufficiente verba earumtenenre, sed vim ac potestatem, bisogna recuperare il complessivo impianto dell'assetto societario come tracciato nel codice civile (e in particolare ridisegnato dalla L69/2015), in una visione logico-sistemica della materia, che la sentenza delle Sezioni Unite ripercorre con grande maestria:

Il codice civile regolamenta la redazione del bilancio nella Sezione Nona, Capo quinto, Titolo quinto, Libro quinto. Vengono in particolare rilievo gli articoli da 2423 a 2427. Il legislatore non solo si fa carico di indicare la struttura e il contenuto del bilancio, ma detta i criteri di redazione dello stesso e – per quel che in questa sede maggiormente interessa- impone canoni di valutazione e indica quale debba essere il contenuto della nota integrativa. Di talchè non può che sottoscriversi, alla luce del descritto impianto normativo, l'affermazione in base alla quale il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, notai ntegrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo; un documento in cui confluiscono dati certi (es. il costo di acquisto di un bene), dati stimati (es. il prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali (es. le quote di ammortamento). Il bilancio è dunque un documento composito e complesso, la cui lettura e intelligenza presuppone una specifica preparazione, che abbraccia la conoscenza dei criteri (tanto legali, quanto tecnici) vigenti per la sua redazione. Il redattore di tale documento, a sua volta, non può non operare valutazioni. Si tratta peraltro di valutazioni "guidate" dai suddetti criteri. Vale a dire che egli necessariamente deve effettuare una stima ponderale delle singole componenti del bilancio, attribuendo – alla fine – un valore in denaro a ciascuna di esse.  Solo la "traduzione" in valuta (oggi in euro: articolo 2423, ultimo comma) consente la comparazione di entità eterogenee, quali possono essere, ad esempio, un immobile, un macchinario o una materia prima. E tale reductio ad unitatem è (ritenuta) indispensabile per descrivere lo "stato di salute" di un operatore economico. Invero non si può seriamente dubitare che la funzione del bilancio sia essenzialmente una funzione informativa/comunicativa. Attraverso il bilancio, si forniscono infatti notizie sulla consistenza e sulle prospettive di un'azienda e ciò, evidentemente, non solo a garanzia dei diretti (e attuali) interessati, vale a dire i soci e i creditori, ma anche a tutela dei futuri ed ipotetici soggetti che potrebbero entrare in contatto con la predetta azienda. (…) Ebbene, i destinatari della informazione (i lettori del bilancio) devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, vale a dire di valutare un documento, già in sé di contenuto essenzialmente valutativo. Ma tale "valutazione su di una valutazione" non sarebbe possibile (ovvero sarebbe assolutamente aleatoria) se non esistessero criteri – obbligatori e/o largamente condivisi – per eseguire tale operazione intellettuale. Tali criteri esistono e sono, in gran parte, imposti dallo stesso legislatore nazionale (cfr. i già citati articoli 2423 ss cc.), dalle direttive europee(cfr. Direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita dal D.lgs 18 agosto 2015, n. 139), ovvero sono frutto della elaborazione dottrinale nelle materie di competenza (e sono ufficializzate ad opera di soggetti "certificatori": Organismo italiano di contabilità e, a livello sovrannazionale, international Financial Reposting Standard). In sintesi: tutta la normativa civilistica presuppone e/o prescrive il momento valutativo nella redazione del bilancio, anzi ne detta (in gran parte) i criteri, delineando un vero e proprio metodo convenzionale di valutazione” (Cass. SS.UU. 22474/2016, cit. pagg. 17-18).

Pertanto, avendo definito i criteri specifici del bilancio, appare evidente la fallacia della opzione ermeneutica che intende contrapporre «i fatti materiali», da esporsi in bilancio, alle valutazioni, che pure nel bilancio compaiono, in virtù di una sorta di funzione narrativa stessa del documento contabile, che non contiene "fatti", ma il racconto di tali "fatti". Una volta chiarita l'irrilevanza della soppressione dell'inciso, perde rilievo, per la Corte, anche la questione su cosa si debba intendere per "materialità" del fatto, espressione che non può essere intesa come antitetica alla soggettività delle valutazioni, proprio in virtù del fatto che il dato valutativo non è un dato arbitrario del redattore, ma definito in base a parametri legali e scientifici, che lo stesso deve rispettare. Si sostiene in particolare nella sentenza c.d. Andronico (Sez. V n. 3552 del 09/02/1999) che la valutazione, se fa riferimento a criteri vincolanti e predeterminati, è un modo di rappresentare la realtà non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, sebbene l'ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento. Ciò significa che i criteri per i quali si effettua una valutazione, definiscono il perimetro tra verità e falsità della stima, ovvero qualificano quella discrezionalità tecnica per cui un dato contabile può configurarsi come vero, se probabilisticamente possa rappresentare la realtà economica soggiacente al dato rappresentativo.

La riforma n.69/2015, eliminando quindi ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza (chiaro indice di un criterio valutativo agganciato al dato quantitativo) si propone di affidare al giudice (o al perito del giudice) la valutazione in concreto della incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterintenzione della stessa. Il Giudicante dovrà quindi operare un'analisi della causalità ex ante, ovvero valutare la potenzialità decettiva dell'informazione falsa contenuta nel bilancio e, in definitiva, dovrà esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, operando inevitabilmente un esame dell'elemento soggettivo del redattore del bilancio, ai fini della sua funzione informativa dei terzi, nell'ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza, proprio perché non più ancorata a soglie numeriche che i destinatari dell'informazione potevano quantificamente rilevare, necessita di una maggiore tecnicità di rilevazione, in virtù del fatto che la realtà non può essere meramente descritta con una trasposizione numerica, tuttavia non contiene in sé nulla di aleatorio.

La falsità perseguibile negli articoli 2621, 2621 bis, 2622 codice civile deve riguardare infatti i dati informativi essenziali, idonei ad ingannare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari. La potenzialità ingannatoria, strettamente connessa con il profilo soggettivo dei reati, può infatti derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è esistente nel patrimonio sociale, ma viene computato al di fuori dei parametri tecnici di valutazione.

L'alterazione di tali dati non deve, in fin dei conti, necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo influire anche solo su quello qualitativo, tale da fuorviare comunque il destinatario dell'informazione. Infatti, l'impropria appostazione di dati veri, l'impropria giustificazione causale di "voci", pur reali ed esistenti, ma distorte, ben possono avere effetto decettivo e quindi incidere negativamente sul bene giuridico tutelato dalla norma: la trasparenza societaria, che costituisce il fondamento della tutela penalistica del bilancio (Cass. SS.UU. 22474/2016, cfr. pag. 24).

 

4. L’elemento soggettivo del reato come stigmatizzato dalla Suprema Corte

In questa sede appare opportuno sollevare un’ulteriore questione che assume notevole importanza in ordine alla presente fattispecie criminosa, ossia l’elemento soggettivo richiesto ai fini del perfezionamento del reato de quo.

A seguito delle pronunce del 2015, la Suprema Corte ha affrontato nuovamente la questione, ribadendo la propria posizione circa il delitto di falso in bilancio, già specificata all’interno di un precedente arresto giurisprudenziale (Cass. V sez. pen. sent. 46689/2016).

Con tale pronuncia i Giudici di Legittimità (Cass. V Sez. Pen. 21672/2018) hanno precisato che l’elemento soggettivo del reato, presentando una morfologia complessa essendo ad un tempo generico per la rappresentazione del falso, specifico per l’ingiusto profitto e intenzionale per l’inganno dei destinatari, non può ritenersi provato - in quanto "in re ipsa" - nella violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio, né tale consapevolezza può essere desunta dal rilevante importo della posta contabile sottaciuta.

Au contraire, secondo la Suprema Corte, tale elemento deve inevitabilmente essere desunto da “inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili” (Cass. V Sez. Pen. n. 46689/2016).

 

5. La responsabilità di amministratori

Con sentenza dell’8 settembre 2015 i Giudici di Legittimità hanno affermato il principio ai sensi del quale “a fronte dell’inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma implica, secondo la previsione dell’articolo 2395 codice civile, la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente. In particolare, in ipotesi di bilancio contenente indicazioni inveritiere, che si assumano avere causato l’affidamento del terzo circa la solidità economico-finanziaria della società e la decisione del medesimo di contrattare con essa, il terzo che agisca per il risarcimento del danno avverso l’amministratore che abbia concorso alla formazione del bilancio asseritamente falso è onerato di provare non soltanto tale falsità, ma anche, mediante qualsiasi mezzo di prova, il nesso causale tra il dato falso e la propria determinazione di concludere il contratto, da cui sia derivato un danno in ragione dell’inadempimento della società alle proprie obbligazioni” (Cass. civ. n. 17794/2015).

Inoltre, con riguardo alla figura del “professionista ed imprenditore” che rivesta anche il ruolo di amministratore, appare opportuno soffermarci sulle seguenti brevi note.

L’analisi dei contenuti del documento recentemente elaborato dalla commissione “Compliance aziendale»” del CNDCEC, hanno permesso di individuare nello specifico gli ambiti di intervento che il professionista imprenditore nella qualità di amministratore svolge in materia di normativa 231 (FADA, Il ruolo del commercialista nell’ambito dei Modelli organizzativi, in Brescia Futuro, 31 ss.)

Più dettagliatamente, un primo ruolo che il “professionista imprenditore” è chiamato a svolgere nell’ambito della normativa in esame, riguarda la formazione, informazione e sensibilizzazione tanto di soggetti esterni alla governance dell’ente (ad esempio i clienti), quanto dei vertici aziendali in merito alle opportunità di predisporre, adottare ed attuare il cd. Modello “esimente” di organizzazione, gestione e controllo (ovvero i cd. compliance programs).

In questa fase nei cd. process assessment, l’imprenditore riveste il ruolo di vero e proprio risk manager e di coordinatore all’interno dell’azienda, procedendo da un lato alla rivelazione dei processi che costituiscono il sistema di controllo interno e, dall’altro, ad una attenta analisi preliminare del livello di rischio aziendale.

È proprio attraverso lo screening di tali attività che il «professionista imprenditore» avrà contezza del reale andamento dell’azienda e sarà in grado di predisporre un intervento sulla base di una stima attendibile del tempo da impiegare e dei rischi da fronteggiare per la elaborazione del Modello 231.

A maggior ragione, proprio perché professionista, magari appartenente all’alveo del Commercialista o dell’Avvocato, nutrirà in sé la necessità di approfondire il rilievo del rischio con quello accettabile ovvero sicuramente evitabile.

Nella successiva fase di risk management, il «professionista imprenditore» è tenuto ad individuare i processi aziendali nei quali è più probabile che vengano commessi i reati previsti dal decreto legislativo 231/2001 e le aree aziendali maggiormente soggette a tale rischio; i processi e le aree individuate come sensibili verranno sottoposte successivamente ad interventi di risk response.

Le attività di risk management e risk response che la direzione aziendale più accorta è chiamata a svolgere richiedono non solo una profonda conoscenza dell’Ente, ma anche una puntuale conoscenza dei processi aziendali che consentono di gestire, controllare e limitare la probabilità che eventi negativi, che potrebbero danneggiare l’azienda, si verifichino.

Questo è quanto di recente ribadito dalla Suprema Corte di cassazione (Cass. pen., sez. V, sent. 18842/2019) che, nell’esercizio della funzione nomofilattica e in ossequio all’insegnamento delle Sezioni Unite (sent. 38343, 24 aprile 2014 – Tyssenkrupp), ha statuito: “(...) Una volta accertata la commissione di determinati reati da parte delle persone fisiche che esercitano funzioni apicali, i quali abbiano agito nell’interesse o a vantaggio delle

società, incombe sui predetti enti l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottata ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; in tal senso, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata, nel sistema introdotto dal decreto legislativo 231/2001, sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (...)”.

 

6. La responsabilità dei sindaci

Tra i soggetti potenzialmente responsabili in ipotesi di fattispecie criminose, commesse nell’ambito societario possono, altresì, essere annoverati i sindaci; tuttavia, qualsivoglia discorso relativo all’imputazione di responsabilità di tali soggetti per fattispecie delittuose compiute da soggetti terzi, quali, per esempio, gli amministratori, deve essere in ogni caso preceduto dall’individuazione degli effettivi doveri e obblighi di controllo sulla gestione gravanti in capo ai sindaci.

Come noto, infatti, il collegio sindacale ha il compito di vigilare sull’osservanza, da parte degli amministratori, delle disposizioni di legge e di statuto sul procedimento di formazione, controllo, approvazione e pubblicazione del bilancio di esercizio. Tale organo “effettua un controllo sintetico complessivo volto a verificare che il bilancio sia stato correttamente redatto. In particolare, il collegio vigila, mediante l’acquisizione di informazioni dal dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili e dal revisore legale o dalla società di revisione” (Trib. Rimini, sent. 12 luglio 2016).

Prima della riforma, la ratio alla base dell’incriminazione dei sindaci per il reato di falso in bilancio trovava fondamento necessario nella pregnante funzione di controllo ad essi assegnata.

Sul punto la Suprema Corte aveva, in più occasioni, ribadito come l’organo sindacale sia il tipico organo di controllo chiamato a vigilare sull’amministrazione della società, con il compito di garantire l’osservanza della legge ed il rispetto dell’atto costitutivo nonché di accertare che la contabilità sia tenuta in modo regolare (Cass. V Sez. Pen, n. 45237/2001).

Pertanto, la fonte della responsabilità del collegio sindacale era da individuarsi nella violazione dei doveri di controllo e vigilanza istituzionalmente immanenti al loro incarico. Era questo, infatti, il motivo per cui comunemente, salvo ipotesi eccezionali, la responsabilità dei sindaci risulta ravvisabile a titolo di concorso omissivo ai sensi del 40 cpv..

Tale orientamento ha subito una parziale modifica a seguito della riforma. Bisognerà infatti distinguere a seconda che il controllo sia affidato o meno ad un organo esterno (cd. Società di revisione). In caso di adozione di un soggetto esterno l’obbligo di vigilanza del collegio sindacale dovrà estendersi anche al contenuto della gestione. Sul punto la giurisprudenza di merito ha affermato che “ affinchè le mere inadempienze dei doveri di sorveglianza e vigilanza possano assumere rilevanza penale occorre, però, che siano sintomatiche di una condotta dolosa – l’unica che assume rilievo penale – ossia di intenzionale agevolazione dell’altrui comportamento criminoso e non piuttosto l’effetto di negligenza e superficialità; allora occorrerà anzitutto una corretta rappresentazione (in capo all’agente) della situazione che attiva l’obbligo di agire (nella specie del falso in bilancio, la corretta percezione della realtà contabile  e della sua falsità come non corrispondenza del dato alla effettiva situazione da rappresentare) e quindi, l’omissione dolosa dei doveri di controllo/intervento nell’adozione delle iniziative previste dalla legge per eliminare le irregolarità/illiceità. Il dolo deve dunque essere alimentato di corretta rappresentazione ma altresì di volontarietà dell’omessa attivazione dei poteri di cui i garanti sono titolari” (Trib. Rimini, sent. 12 luglio 2016).

Conseguentemente, la responsabilità penale dei sindaci non può trovare fondamento nella loro posizione di garanzia e discendere tout court da essa, ma devono altresì sussistere elementi che possano, anche in linea presuntiva, provare la loro partecipazione all’attività degli amministratori, dimostrando che gli stessi fossero consapevoli della falsità del bilancio in corso di approvazione.

 

7. La responsabilità dei revisori

È risaputo che il gruppo di imprese, in senso verticale, si fonda sulla supremazia di una società sulle altre: segnatamente, su quella della holding, che detiene, in tutto o in maggioranza, le azioni o le quote delle società che operano nei diversi settori di attività o nelle distinte fasi del processo produttivo, esercitando, per questa via, il governo del gruppo. Qualora sussista una separazione tra le funzioni operative e quelle direttive, alla holding, definita "pura", spettano compiti di gestione delle partecipazioni azionarie e, talvolta, la prestazione accentrata di alcuni servizi a beneficio delle società controllate; la holding viene qualificata "impura", quando è carente la citata segregazione. Dunque, si è al cospetto di un fenomeno complesso: le società, che compongono il gruppo, mantengono una distinta ed autonoma soggettività giuridica, mentre, dal punto di vista economico, spicca la dimensione unitaria del gruppo, in cui la holding svolge una attività di direzione e di coordinamento (v. articolo 2497 codice civile).

Il gruppo, pertanto, costituisce espressione della volontà di diversificazione dei rischi, che, sul versante empirico-criminologico, fomenta, da un lato, una preoccupante dispersione delle responsabilità individuali (con rischi di autentico oscuramento) e, dall’altro lato, una tendenza a sfruttare lo schermo del gruppo per piegare l’azione delle controllate a finalità illecite, in nome del superiore ed unitario interesse del gruppo stesso. Il decreto legislativo n. 231/2001 non disciplina espressamente questo fenomeno e la stessa legge-delega taceva sul punto. Ciò non vuol dire che non sia possibile pervenire ad una ricostruzione della complessa orditura di questo fenomeno, che - è chiaro - impone di ricercare un equilibrio tra l’autonomia delle singole società del gruppo e le funzioni di direzione e coordinamento che questo esercita.

Laddove si sia in presenza di attività funzionalmente omogenee, appare ammissibile che la capogruppo, nell’esercizio della sua funzione di coordinamento, possa uniformare la politica di prevenzione degli illeciti nel contesto delle società del gruppo, fatto salvo il potere di queste società di adattare le prescrizioni alle peculiarità dell’attività svolta e alla specificità dei rischi normativi che corrono. È evidente, peraltro, che tale funzione di direzione non potrà risolversi nell’imposizione di regole di dettaglio, espressione di una sorta di potestà "d’ordine", pena il rischio di un coinvolgimento nel reato commesso dai soggetti operanti nella controllata, di cui si potrebbe sostenere la riferibilità, in termini di "interesse", alla controllante. Dunque, l’attività di direzione e di coordinamento non può oltrepassare il limite dell’"indirizzo", consistente nell’emanazione di principi generali e di direttive, rivolti a sollecitare, ad esempio, l’adozione del modello (magari con l’indicazione delle sue linee portanti) e l’istituzione dell’OdV.

Pur non sussistendo in capo all’OdV compiti di natura certificativa, trovano la loro specifica in una pluralità di attestazioni di attendibilità e di corrispondenza dei documenti contabili per il tramite di Sindaci, Revisori ed Attestatori. Nell’attuale assetto di corporate governance, i sistemi di controllo interno assumono – è evidente – una struttura piramidale, articolata su una pluralità di livelli che assicura la correttezza dei dati riportati in bilancio, baluardo della prevenzione di falsificazioni.

Ed è proprio nelle maglie dei flussi informativi infra-gruppo che va rinvenuta la traccia, per citare la direzione dell’articolo 2621 codice civile, dell’esposizione fraudolenta di fatti non rispondenti al vero o la omissione di fatti concernenti le condizioni economiche della società. Ciò esclude dal campo della falsità l’ipotesi della erronea valutazione delle attività e delle passività sociali, dato che tali valutazioni importano necessariamente un apprezzamento discrezionale, ma tale valutazione non deve oltrepassare il limite di ogni ragionevolezza, poiché in tal caso non potrebbe parlarsi più di discrezionalità e si tratterebbe invece di valutazioni artificiose, che mirano a nascondere gli utili realizzati ed a dimostrare come esistenti utili che in realtà non sussistono (Sez. 1 Sentenza n. 1450 del 31/05/1966 Rv. 322888).

Pertanto, assume le funzioni di “sorvegliato speciale” il soggetto posto all’apice della struttura amministrativa (n.d.r.: noto a tutti che non va intesa quale direzione amministrativa che, di contro, è organo differente) preposta alla redazione dei documenti contabili. Tale considerazione interpretativa rispecchia la natura e l'essenza stessa del bilancio, documento destinato a palesare le strategie gestionali ed imprenditoriali, frutto di determinazioni di natura tecnico-discrezionale di esclusiva spettanza del Consiglio di Amministrazione.