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Evaporazione del diritto in materia di adozioni, famiglia, genitorialità. brevissima nota sul dibattito «politico» attuale

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Evaporazione del diritto in materia di adozioni, famiglia, genitorialità. brevissima nota sul dibattito «politico» attuale

 

Negl’ultimi tempi la stampa ha più volte richiamato l’attenzione dei lettori su temi concernenti il c.d. diritto di famiglia, particolarmente sui temi delle adozioni.

Ciò è stato vieppiù occasionato dal riaccendersi delle polemiche in materia di cc.dd. diritti civili. Nel Regno di Spagna, per esempio, c’è stato un notevole, preoccupante, entusiasmo per l’approvazione della c.d. ley trans, sulla quale avrò modo di ritornare in un prossimo contributo ad hoc.

Al di là dei singoli casi e al di là dei diversi modi nei quali esso si manifesta, si tratta di un problema e di una tendenza che non conoscono confini e che dilagano pressoché in tutto il c.d. Occidente, pur con diverse gradazioni e pur con differenti contenuti positivi.

A questo proposito risultano singolari, se non proprio inattesi, certi timidi «rallentamenti» che per via giurisprudenziale hanno caratterizzata la «patria» della libertà liberale, vale a dire il contesto nordamericano, particolarmente quello statunitense.

Già qualche cosa ho detto sul punto in un precedente scritto qui apparso.

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In alcuni casi il rinnovato interesse del Governo italiano nella materia de qua è stato artatamente ricondotto a una non meglio precisabile «manovra di distrazione»: è stato infatti sostenuto che lo scopo di questi interventi sarebbe stato quello di canalizzare l’attenzione della «opinione pubblica» su temi lato sensu etici, onde evitare il dibattito sopra quelli cc.dd. economici.

Ricordo, a questo proposito, che qualche settimana fa, stando a quanto apparso sulla stampa, “la commissione Politiche europee del Senato [ha bocciata] la proposta di regolamento Ue per il riconoscimento dei diritti dei figli anche di coppie gay e l’adozione di un certificato europeo di filiazione”[1].

La ragione «ultima» di queste prese di posizione (in verità parziali e limitate) da parte dell’attuale Governo non è tema che possa agevolmente svilupparsi in questa sede, e forse nemmeno in altre. Tuttavia ciò che sta dietro a questa «linea politica» non determina la natura, in sé provvida, dei provvedimenti presi o non presi, dei limiti posti, degli sviluppi non o non totalmente compiuti. Altro è l’atto, infatti, – come si insegna in morale – e altra è l’intenzione: l’essenza di questa non qualifica la natura del primo, anche se essa rileva in termini soggettivi per il giudizio sull’agente.

È un fatto, allora, – se così posso sinteticamente dire – che alcuni «altolà» e alcuni «rallentamenti» rispetto al coerente sviluppo di remote premesse, già radicate nell’Ordinamento vigente (e nella c.d. giurisprudenza costituzionale), abbiano segnato il passo dell’attuale attività «politica» della maggioranza parlamentare in tema di c.d. diritto familiare.

Certo è – anche questo non può tacersi – che la «mitezza» di questi interventi, come anche la non compiuta applicazione delle loro stesse rationes, lascia aperti soverchi profili di problematicità, soverchi dubbi, soverchie questioni.

Il punto è nodale.

Altro, infatti, è affermare un principio di verità come tale, e perseguirne l’attuazione coerente, nell’ordine del bene comune politico, per tramite dell’Ordinamento giuridico positivo, quale mezzo asservito ai soli fini della giustizia sostanziale, e altro – tutt’altro, sottolineo – è affermare il medesimo principio, ma… come mera opinione personale, come una fra le molteplici Weltanschauungen variamente eleggibili in virtù di peculiari, differenti o anche opposte, visioni dell’Ordinamento, della politica, della società, della famiglia et coetera, tutte egualmente possibili e tutte egualmente legittime in punto di «principio».

Ciò che è giusto resta veramente giusto anche se esso venga presentato come opinione e non come verità. Questo è ovvio. È altrettanto vero, però, che quando la verità venga presentata come opinione, e come tale essa venga posta sullo stesso piano assiologico delle altre, un tanto toglie alla verità stessa la sua forza, la sua oggettività, e apre la via al relativismo e al nihilismo, i quali, se è pur vero che non si compiano e che non  si affermino hic et nunc, essi trovano in questo errore teoretico un fertile humus.

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A mio avviso, e nella limitatissima struttura di questo scritto, la questione in narrativa mette capo (perlomeno) a tre profili di problematicità, che nei prossimi paragrafi cercherò di sviluppare un poco.

Il primo problema, in verità, si limita a una constatazione preliminare.

Ho prima fatto cenno a un «rimprovero» che le cc.dd. opposizioni avrebbero mosso al Governo circa la precedenza che esso ha o avrebbe data al tema lato sensu relativo al diritto di famiglia, rispetto a quello economico.

La cosa è singolare, ma non incoerente; anzi coerentissima rispetto all’ideologia liberale che domina nel nostro tempo.

Mi spiego.

Personalmente non so se e quanto la critica sia fondata, né posso dire quali siano le effettive priorità del Governo. Tantomeno posso dire se la critica in parola sia fine a sé stessa o se essa, al contrario, consegua al coerente sviluppo di determinate rationes interne agli stessi schemi oppositori.

Al di là di questo, però, segnalo che innanzitutto occorrerebbe definire lo stesso tema economico. Esso andrebbe infatti spiegato e considerato in modo approfondito. Che cosa si intende con il termine economia? In quale rapporto sta l’economia con la politica e con il diritto? Ne è essa regolata o ne rappresenta viceversa un criterio? Un fine? Un parametro?

Altro, infatti, è presentare l’economia come attività economica che promuove lo sviluppo sociale della comunità politica, rispondendo alle necessità della stessa nell’ordine del bene comune e secondo i supremi principii della giustizia; e altro – tutt’altro! – è considerare l’economia come analogato della finanza, e questa come meccanismo di speculazione posto sistematicamente in essere per il fine incondizionato e incondizionabile del profitto lato sensu inteso, della produzione fine a sé stessa, del lavoro che non si giustifica in vista dello scopo per il quale esso è svolto, ma che diviene esso stesso, assurdamente, un fine et coetera.

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Non mi soffermo su questi aspetti, pur interessanti.

Rilevo, invece, che la priorità concettuale del tema lato sensu economico sulla morale e sul diritto di famiglia risponde a una determinata ratio liberale. L’ideologia liberale, infatti, proprio per massimizzare la libertà negativa che ne sta alla base, dovrebbe coerentemente perseguire, e di fatti persegue, anche se con soverchie contraddizioni, la maggiore conculcazione possibile di tutto il diritto privato, vale a dire di tutto il plesso gius-normativo che informa, regola, disciplina, informandoli al diritto, i rapporti tra i privati. A questa compressione dovrebbe eccettuarsi, invero, solo la disciplina della responsabilità civile lato sensu intesa (vale a dire compresa quella contrattuale propriamente detta), necessaria essendo la regolamentazione ab externo dell’eventuale momento di conflittualità, ma anche qui vi sarebbe materia da discutersi.  

Dico che l’ideologia liberale è intrinsecamente «nemica» del diritto privato non per tirare a cimento i tanti, fieri, liberali che viceversa difendono il codice civile e spesso lo invocano (Cicero, pro domo sua…). Dico questo perché l’ideologia liberale, che fa della libertà negativa il proprio asse concettuale, e che fa del c.d. diritto all’autodeterminazione della volontà la propria bandiera, coerentemente riduce il diritto privato a un insieme più o meno completo di scatole vuote, ove la prima cosa che evapora – ecco la ragione del titolo che ho proposto per questa riflessione – è proprio il diritto, la sua oggettività, il suo ordine.

Se la persona liberale, infatti, il soggetto, è il proprietario lockiano, letto alla luce del personalismo mounieriano e inserito nel contesto ordinamentale kantiano – tutte cose sulle quali già ho avuto modo di soffermarmi e che non riprendo[2] –, allora quanto lo riguarda e quanto gli appartiene (vita, libertà e averi, direbbe Locke) dovrebb’essere l’ambito nel quale egli stesso è libero di fare ciò che vuole, di autodeterminarsi come crede, senza che nessuna regola e nessun criterio, né giuridico, né morale, né di altra natura, vi si frapponga o comunque ne ostacoli il libero movimento di personalizzazione, vale a dire il libero sviluppo della personalità, come anche è scritto nell’incipit di qualche Carta costituzionale.

Di talché il diritto privato, ridotto a insieme di leggi positive che tracciano confini, dovrebbe assolvere a due sole funzioni: la prima – propriamente kantiana – sarebbe quella di apprestare un insieme di condizioni, di recinti, onde si abbiano a delimitare gl’ambiti del privato di ciascuno; il «mio» e il «tuo», dove «io» e «te» non siamo assieme nella comunità politica ma solo accanto… nello Stato di diritto. La seconda – propria infondo del radicalismo – sarebbe quella che mettere a disposizione dei varii soggetti formule, istituti, costruzioni normative atti a rivestire di una certa struttura legale le varie progettualità individuali.

Ciò significa che non il diritto in quanto iustum regola, per esempio, il contratto, il matrimonio, l’obbligazione, ma la sola volontà delle parti, onde diviene, rimanendo nell’esempio, contratto, matrimonio e obbligazione non ciò che ne partecipi la natura sul piano oggettivo, ciò che è contratto in sé, matrimonio in  sé, obbligazione in sé, quanto piuttosto solo ciò che le parti (rectius, gli interessati) per sé stessi vogliono come contratto, come matrimonio, come obbligazione per sé medesime, in virtù della loro libera e insindacabile decisione.

Ecco dunque che la priorità e la precedenza valoriale dell’economia lato sensu intesa sul diritto privato si spiega proprio nell’ottica di quello che gli anglosassoni chiamano minimal State, vale a dire nell’ottica di uno Sato-Ordinamento il quale dovrebbe lasciare le questioni private – e tra queste quelle concernenti la famiglia occupano un posizione apicale – ai privati stessi, onde ciascuno si autodetermini come vuole. Lo Stato dovrebbe dedicarsi – ma anche qui la contraddizione non manca – a risolvere questioni di contabilità e forse di ragioneria generale, cosa che è perfettamente coerente, peraltro, con l’ideologia tecnocratico-burocratica secondo la quale la politica sarebbe affare di tecnici (banchieri, finanzieri, imprenditori, rappresentanti di classe, di settori, di interessi et similia).

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La seconda questione cui mi interessa fare cenno concerne il problema famiglia. È ovvio che nella prospettiva prima considerata esso è un falso problema: la famiglia dovrebb’essere un istituto, e forse meglio dovrei dire una fattispecie, formulata per norma in modo così amplio ed elastico da consentire il procedimento di sussunzione ogniqualvolta alcune persone rivendichino per sé e per il gruppo da loro formato tale etichetta, comprese le relazioni incestuose e quelle poligamiche, che, almeno in Italia, ancora costituiscono reato.

Nessuna famiglia, dunque, e nessun diritto di famiglia, almeno propriamente parlando, cioè considerando l’ontologia della famiglia, la sua natura eppertanto la dimensione normativa e regolativa che ne è intrinseca.

Impostare in questi termini il discorso significa chiuderlo prima di iniziarlo, giacché non si pone il problema del che cosa sia la famiglia, né quello di quale sia il suo diritto. Se mai si pone il problema, interno allo stesso ordinamento, relativo alle incoerenze cui esso va incontro, per esempio – lo dicevo prima – perseguendo l’incesto e la poligamia.

Se si ammetta viceversa un ontologia della famiglia e se si consideri la norma e la regola che le è propria le cose cambiano. Non ogni «gruppo», non ogni «unione», non ogni «coppia» è una famiglia e non lo è, non in virtù di una capitis deminutio relativa al riconoscimento di diritti – qualcuno dice “più diritti per tutti” come se i diritti fossero limosine da elargirsi ad nutum – non lo è perché… non lo è in sé, perché ne difettano i costitutivi sostanziali.

A questo punto richiederebbe troppo spazio dilungarsi a presentare, anche sommariamente, le ragioni in virtù delle quali per esempio la capacità intellettuale dei coniugi, l’eterosessualità della coppia, la libertà di stato, l’indissolubilità et coetera dànno appunto conto di alcuni di questi costitutivi, onde vi è, e vi è oggettivo, un diritto di famiglia che non dipende dalla volontà di alcuno, né da quella degli sposi, né da quella del Legislatore, né da quella di altri, cioè vi è un criterio e una regola del rapporto familiare che dalla sua stessa natura deriva e dipende.

Mi limito solo a rilevare in negativo, per la prosecuzione del discorso, che tra questi costitutivi certamente non vi è il sentimento, nessun sentimento.

Il sentimento, infatti, in quanto tale non è costitutivo di alcunché, tantomeno esso è o può essere costitutivo di un rapporto giuridico, cioè può esserne causa in senso proprio. Non dico – si badi – che esso non ne sia il motivo (uso il termine in senso tecnico), non dico, cioè, che i coniugi non si sposino in virtù del sentimento che li lega. Questo può essere ed è auspicabile che sia, ovviamente. Dico solo che questo sentimento, qualunque esso sia o non sia, resta al di fuori del rapporto coniugale, il quale, appunto, è un rapporto giuridico che si costituisce per effetto della volontà delle parti, secondo la sua stessa natura e la sua stessa causa oggettiva, e che obbliga le parti medesime, anche se e quando il sentimento muti, scemi, venga meno. Il sentimento, come l’attrazione fisica, come il calcolo, come altre valutazioni che pur possono sovrintendere alla decisione di sposarsi e al consenso coniugale valido ed efficace, infatti, non definiscono affatto la natura del matrimonio, né essa dipende da questi. la famiglia che deriva dal matrimonio e che col matrimonio si costituisce, quindi, è l’effetto giuridico di un mutuo (e valido) consenso degli sposi, ma non è il prodotto libero e arbitrario della loro volontà.

Perché ho sottolineato quest’aspetto?

Le ragioni sono molte, ma nell’economia del discorso che sto facendo una forse prevale. La ragione in virtù della quale mi sono soffermato sul sentimento è legata all’impossibilità di rivendicare lo status familiae e in generale qualunque status iuris sulla base di elementi o dati i quali non siano oggettivi e oggettivabili, in particolare sui sentimenti.

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Come il rapporto familiare, infatti, così anche quello genitoriale – e qui entro nel terzo e ultimo blocco tematico – è un rapporto giuridico nell’ordine del quale l’aspetto sentimentale non entra: esso non leva e non mette alcunché, per quanto sul piano «umano» esso sia naturale e ampliamente auspicabile, forse addirittura insopprimibile, almeno per certi aspetti.  

Il rapporto genitoriale, infatti, è un rapporto di sangue, come si dice: genitori e figli si è o non si è in virtù della generazione. E la generazione postula e la paternità del padre e la maternità della madre. Simul stabunt simul cadent.

Opinare differentemente è un’offesa all’intelligenza e una grave falsificazione ideologica della realtà, oltreché un viatico alla mercificazione della persona umana e un’offesa alla sua dignità.

L’essere umano – ma non è prerogativa sua – nasce in forza del parto ed egli nasce (se nasce, ovviamente), in quanto concepito, per effetto dell’incontro fecondativo tra il gamete maschile e quello femminile. L’essere umano, pertanto, ha naturaliter il padre, non un padre qualsiasi, ed egli ha altrettanto naturaliter la madre, non una madre qualsiasi, essendo il rapporto genitoriale insurrogabile e indipendente dalla volontà di alcuno. Padre e madre si è o non si è. Tant’è vero che la disciplina delle adozioni opera una vera e proprio fictio iuris – si parla non a caso di genitore putativo – la quale tiene luogo, per il bene dell’adottato, alla deficienza della di lui famiglia naturale e operando siffatta finzione essa stessa dà implicito riconoscimento alla naturalità e della famiglia e del rapporto di filiazione.

Quando il compianto Francesco D’Agostino osservò che le coppie omosessuali sono “costitutivamente sterili”, pertanto, e l’osservazione fu condivisibilmente ripresa da un Deputato della Repubblica italiana (se non ricordo male da Mara Carfagna), la cosa suscitò un certo dibattito e per qualcuno fu addirittura scandalosa.

Francamente non vedo né la ragione del dibattito, né quella dello scandalo. La genitorialità postula la diversità dei sessi ed essa è possibile solo grazie al complementare apporto dell’uomo e della donna, onde due donne o due uomini, tra loro, non possono procreare. Chi si è scandalizzato, se non lo ha fatto per ragioni di facile propaganda – forse per mendicare qualche voto alle elezioni – lo ha fatto in virtù di una visione completamente distorta della realtà, forse patologicamente distorta.

La cosa è tanto vera che proprio la costitutiva sterilità delle cc.dd. coppie omosessuali – ecco perché ho ripreso il passo – impone loro di soddisfare un non meglio precisabile desiderio di genitorialità ricorrendo a persone estranee alle stesse: qualcuno parla di donatori di seme e di utero in affitto, che in qualche caso, per indorare la pillola, qualche igienista del linguaggio chiama addirittura gestazione per altri.

Il fatto è che la gestazione non è mai per altri, o essa lo è sempre. Dipende da che cosa si intenda per «altro». Se per altro si intenda il concepito, allora, la gestazione è sempre per lui: la donna che porta in grembo il figlio concepito e che sottostà alle fatiche della gestazione fino a sopportare i travagli del parto, ovviamente non lo fa per sé stessa, ma per il figlio che ha concepito, per la di lui vita e per il di lui bene. Essa adempie verso il figlio la sua prima e fondamentale obbligazione naturale. Dunque, sotto questo rispetto, la gestazione è sempre altruistica.

Fuori da quest’accezione, però, la gestazione non può andare ad appannaggio di terzi. E lo stesso vale per la c.d. donazione del seme.

La fecondazione, infatti, avviene tra due persone di sesso diverso che in virtù di essa divengono rispettivamente madre e padre del concepito, prima, e del bambino nato, dopo il parto. I terzi, ogni terzo e tutti i terzi, sono esclusi da questo rapporto che è in un tempo escludente ed esclusivo per natura. Esclusivo perché esso rapporto è solo del padre e della madre, non avendosi terzi che possano concorrere in quanche modo e con qualche apporto nell’atto fecondativo; ed escludente perché l’univocità del legame genitoriale che vincola il figlio ai genitori, e i genitori tra loro, almeno come genitori, in virtù del figlio, non ammette che vi siano più padri o più madri e così più e diversi genitori.

Il dato mi sembra di disarmante evidenza.

Ho parlato di padre, di madre e di genitorialità sic et simpliciter. Non vi ho aggiunto aggettivi. Tantomeno ho parlato di padre biologico, o di madre biologica, o di genitorialità biologica. Non mi consta che ne esistano di non biologiche: il genitore, cioè colui il quale ha generato (initium doctrinae sit consideratio nominis), o è biologico o non è affatto genitore. Ancora richiamo l’eccezione menzionata del c.d. genitore putativo a seguito dell’adozione.

Questo significa che le cc.dd. coppie omosessuali, per ragioni biologiche e non ideologiche – il giudizio, quindi, prima che morale è naturale –, non possono essere coppie di genitori: le persone che le compongono, infatti, proprio in quanto sessualmente omologhe, non possono essere legate come genitori in virtù di un figlio che sia propriamente loro, cioè in virtù di un figlio rispetto al quale uno di loro è il padre e l’altro è la madre. Ancora una volta: esse sono costitutivamente sterili, cioè incapaci di generare (come coppia, ovviamente).

Ed è questa la ragione in virtù della quale le cc.dd. coppie omosessuali cercano al di fuori una genitorialità che la natura ha loro precluso. Sia detto per incidens che lo stesso discorso varrebbe per i casi di c.d. maternità o paternità surrogata cui rivendicassero di accedere le coppie eterosessuali le quali, per deficienze fisiche o per altre ragioni mediche, siano di fatto sterili, cioè di fatto incapaci di procreare come coppia (qui il problema non sarebbe costitutivo ma funzionale).

Che cosa significa legalizzare, ammettere concettualmente e legittimare moralmente questa finzione? Che cosa significa, cioè, legalizzare, ammettere concettualmente e legittimare moralmente una forma di genitorialità inesistente sul piano biologico?

Prima di dire che cosa significa dico a che cosa essa serve. Essa non serve ad altro se non a soddisfare un capriccio di chi vuole tutto senza essere disposto a rinunziare a nulla. Essa serve, per meglio precisare, a trasformare in diritto una mera pretesa, calpestando, negano, violando i veri diritti degli altri.    

 Che cosa significa, mi chiedevo prima.

Ebbene, innanzitutto ammettere la genitorialità della c.d. coppia omosessuale significa negare il diritto del bambino alla paternità di suo padre e/o alla maternità di sua madre, in una parola a crescere e a essere educato all’interno della sua famiglia, da coloro i quali lo hanno effettivamente generato, dato che la «coppia» in parola non è formata dai suoi genitori. Da uno, forse, ma non da entrambi.

In secondo luogo significa mercificare il concepimento. E non ne faccio una questione economica; non dico che il problema sia rappresentato dall’eventuale prezzo pagato dall’aspirante genitore al vero genitore. Questo accresce solo lo squallore del contesto di riferimento. Dico che la mercificazione avviene già quando si ammetta la possibilità di concepire e di generare una vita per soddisfare un altrui desiderio (irrealizzabile a meno di una finzione), come se la generazione e la genitorialità fossero prestazioni appaltabili e non dessero luogo a rapporti giuridici naturali tra concepito e genitore e come se tale legame fosse cedibile, surrogabile, annullabile per norma.

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Concludo allora osservando che il Legislatore, se e quando cada, come spesso egli cade, nel delirio di onnipotenza ben descritto da Portalis, certamente egli può coltivare l’illusione di creare ciò che non esiste, in questo caso il legame genitoriale tra un individuo e due persone dello stesso sesso che non lo hanno generato, e quella di distruggere ciò che esiste effettivamente, cioè, in questo caso, il legame tra il figlio e sua madre e suo padre.

Altrettanto certamente, poi, e a maggiore ragione, i registri dello stato civile possono pur riportare menzogne e finzioni legalizzate: la carta si lascia scrivere, come un tempo qualcuno diceva…

Allo stesso modo i diritti e i doveri dei veri genitori e dei veri figli, con il connesso compendio di diritti e di doveri rispetto alla naturale parentela, anche per gli aspetti legati alla successione ereditaria, possono essere annullati con un comma di una leggina qualsiasi, così mettendo nel nulla non solo i principii della giustizia, ma anche una tradizione millenaria di civiltà giuridica che risale a ben prima del diritto romano.

Tutto questo si può certamente sacrificare sugli altari del politicamente corretto e della libertà liberale, sugli altari dell’eguaglianza illuministica, dell’amore che vince ogni cosa, anche la natura delle cose… Sì: tutto si può fare, non me lo nascondo, mi chiedo, però, forse nella mia ingenuità, se tutto sia giusto e se la coscienza non sobbalzi indignata di fronte a un sistema che va oltre i limiti dell’assurdo.    

 

Note:

[1] S. Pascasi, Coppie di figli gay, centrodestra boccia regolamento Ue. Cosa dice la legge, in Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2023 (https://www.ilsole24ore.com/art/registrazione-figli-coppie-omogenitoriali-cosa-dice-legge-AEudPG4C).

[2] Cfr. R. Di Marco, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017.