x

x

Heinrich von Kleist (1777-1811) IL DUELLO

"Come?", esclamò donna Elena. "Il senso della sentenza divina ti è rimasto oscuro? Non hai forse dovuto soccombere, nel combattimento, in modo anche troppo dolorosamente chiaro e inequivocabile, alla spada del tuo avversario?".

"Sia pure!", replicò messer Federico. "Per un attimo ho dovuto soccombere. Ma sono stato forse vinto dal conte? Non vivo forse ancora? Non sto rifiorendo, come sotto il soffio del cielo, miracolosamente, per riprendere da capo, forse tra pochi giorni, con forze due, tre volte maggiori, il combattimento turbato da un caso da nulla?".

"Folle!", gridò la madre. "E non sai che esiste una legge, secondo la quale il combattimento che, per dichiarazione dei giudici di campo, è stato concluso, non può essere ripreso, per dirimere la stessa causa, davanti alla sbarra del tribunale divino?".

"Che m’importa?", ribatté sdegnosamente il camerlengo. "Io non mi curo delle leggi arbitrarie degli uomini. Può un combattimento che non è stato proseguito sino alla morte di uno dei due contendenti, secondo ogni ragionevole valutazione delle cose, essere considerato concluso? E non potrei, se mi fosse consentito di riprenderlo, sperare di porre rimedio all’incidente che mi ha colpito, e conquistarmi, con la spada in pugno, ben altra sentenza divina di quella che ora, con visione miope e limitata, viene presa per tale?".

"Tuttavia", replicò pensierosa la madre, "queste leggi, delle quali pretendi di non curarti, sono quelle che regnano e comandano; esse hanno, ragionevoli o no, il valore di un responso divino, e consegnano te e lei, come una coppia di esecrabili malfattori, a tutto il rigore della giustizia penale".

"Ah", esclamò messer Federico, "è appunto questo che mi getta, me infelice, nella disperazione! La verga della giustizia è stata spezzata su di lei, come su di una colpevole; e io, che volevo provare davanti al mondo la sua virtù e la sua innocenza, sono colui che l’ha gettata nella miseria: un irreparabile inciampo nella cinghia degli speroni, con il quale Dio, forse, ha voluto punirmi per i peccati che racchiudo nel petto, del tutto indipendentemente dalla sua causa, abbandona le sue membra fiorenti alle fiamme, e la sua memoria a un’eterna vergogna!".

[Da I racconti, traduzione di Andrea Casalegno, Garzanti Editore S.p.a, 1988, pp.236-237]

"Come?", esclamò donna Elena. "Il senso della sentenza divina ti è rimasto oscuro? Non hai forse dovuto soccombere, nel combattimento, in modo anche troppo dolorosamente chiaro e inequivocabile, alla spada del tuo avversario?".

"Sia pure!", replicò messer Federico. "Per un attimo ho dovuto soccombere. Ma sono stato forse vinto dal conte? Non vivo forse ancora? Non sto rifiorendo, come sotto il soffio del cielo, miracolosamente, per riprendere da capo, forse tra pochi giorni, con forze due, tre volte maggiori, il combattimento turbato da un caso da nulla?".

"Folle!", gridò la madre. "E non sai che esiste una legge, secondo la quale il combattimento che, per dichiarazione dei giudici di campo, è stato concluso, non può essere ripreso, per dirimere la stessa causa, davanti alla sbarra del tribunale divino?".

"Che m’importa?", ribatté sdegnosamente il camerlengo. "Io non mi curo delle leggi arbitrarie degli uomini. Può un combattimento che non è stato proseguito sino alla morte di uno dei due contendenti, secondo ogni ragionevole valutazione delle cose, essere considerato concluso? E non potrei, se mi fosse consentito di riprenderlo, sperare di porre rimedio all’incidente che mi ha colpito, e conquistarmi, con la spada in pugno, ben altra sentenza divina di quella che ora, con visione miope e limitata, viene presa per tale?".

"Tuttavia", replicò pensierosa la madre, "queste leggi, delle quali pretendi di non curarti, sono quelle che regnano e comandano; esse hanno, ragionevoli o no, il valore di un responso divino, e consegnano te e lei, come una coppia di esecrabili malfattori, a tutto il rigore della giustizia penale".

"Ah", esclamò messer Federico, "è appunto questo che mi getta, me infelice, nella disperazione! La verga della giustizia è stata spezzata su di lei, come su di una colpevole; e io, che volevo provare davanti al mondo la sua virtù e la sua innocenza, sono colui che l’ha gettata nella miseria: un irreparabile inciampo nella cinghia degli speroni, con il quale Dio, forse, ha voluto punirmi per i peccati che racchiudo nel petto, del tutto indipendentemente dalla sua causa, abbandona le sue membra fiorenti alle fiamme, e la sua memoria a un’eterna vergogna!".

[Da I racconti, traduzione di Andrea Casalegno, Garzanti Editore S.p.a, 1988, pp.236-237]