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I tatuaggi, tra arte e giurisprudenza

Tatuaggi
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The man who sold his skin è il nuovo film di Kaouther Ben Hania e racconta la storia di Sam Ali, un rifugiato siriano che per sfuggire alle violenze della guerra e raggiungere la sua amata in Europa accetta di farsi tatuare un visto Schengen sulla schiena, trasformandosi in un tableau vivant, nell’erroneo convincimento che l’arte sia libera di circolare per sempre, ma finisce per diventare schiavo del suo stesso corpo che, divenuto appunto un’opera d’arte, viene mercificato da parte del potente gallerista che gli ha comprato la pelle.

Questo novello Faust migrante, e la graffiante critica del mercato dell’arte contemporanea, sono stati premiati all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, confermando il successo di una tematica già toccata da Östlund con The Square, Palma d’Oro a Cannes nel 2017.

Il personaggio di Sam è dichiaratamente ispirato a Tim, ossia alla vera schiena tatuata di Tim Steiner, un’opera vivente creata nel 2006 da Wim Delvoye (l’artista belga compare anche nel film nella parte dell’assicuratore) che espone sé stesso nei musei di tutto il mondo e ha già venduto la sua pelle per 150.000 euro alla collezione Reinking di Amburgo a cui, alla sua morte, passerà la sua schiena tatuata e plastilinata.

Ma prima di Tim la pelle tatuata “ad arte” era già entrata nel cinema grazie a un inquietante caso giudiziario realmente accaduto in Francia all’inizio degli anni ‘60 e deciso dal Tribunale di Parigi nel 1969[1], meglio noto come l’affaire «la rose tatouée». Un’attrice minorenne aveva concluso un accordo a scopo di lucro con un produttore cinematografico e si era fatta tatuare su una natica una rosa destinata ad essere rimossa e venduta all’asta.

L’accordo è stato ritenuto illecito e la sentenza ha ordinato la cancellazione della scena e il risarcimento dei danni alla ragazza, per l’interruzione dell’attività lavorativa subita a causa dell’operazione chirurgica per la rimozione del tatuaggio. Il Tribunale ha inoltre ordinato che il lembo di pelle le fosse restituito. La decisione applicava l’art. 1128 del Code Civile: il divieto di concludere accordi che coinvolgano tutto o parte del corpo umano (res extra commercium) - principio di “inviolabilità del corpo umano”.

Lo stesso principio è condiviso dal Codice Civile italiano che prevede che «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.

Ma tornando alle scene, nel delizioso film del 1968 Nemici per la pelle diretto da Denys de La Patellière, due mercanti si sono contesi la pelle della schiena di un legionario, intrepretato da Jean Gabin, sulla quale era tatuato un autentico ritratto di Amedeo Modigliani [2].

La sentenza, invece, non può aver ispirato Kenji Mizoguchi che già nel 1946 ha messo in scena in Utamaro o meguru gonin no onna la storia del pittore Kitagawa e delle sue mogli mentre tatuava sulla schiena della cortigiana Takasode un samurai capace di “incarnare” le stesse emozioni provate della donna.

Tatuaggi come forme d’arte, quindi, che godono anche della stessa tutela, a partire dall’art. 1 della Legge sul diritto d’autore che protegge «le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, all’architettura, al teatro, ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione».

Ma cosa accade, ad esempio, se una persona tatuata viene ritratta senza quel tratto che la contraddistingue? E, al contrario, se in un ritratto si aggiunge un tatuaggio sulla pelle di chi, in realtà, non ne ha mai avuti? Alcune recenti pronunce giurisprudenziali lo chiariscono.

Nel 2018, la nota showgirl Elisabetta Canalis citò in giudizio un’azienda di lingerie per lo sfruttamento senza consenso della sua immagine e per aver eliminato dalla sua fotografia i tatuaggi. In quell’occasione, il Tribunale di Milano accolse le ragioni della modella, concludendo che «l’eliminazione di quelle caratteristiche impresse permanentemente sul corpo (i tatuaggi) con l’intento, evidentemente, di conferire allo stesso nonché alla sua immagine un’identità specifica ed unica, costituiscono un atto gravemente abusivo dell’immagine della persona»[3].

Con il tatuaggio, infatti, «la persona trasforma in maniera permanente il proprio corpo e così la percezione dell’immagine di sé che vuole esprimere verso il mondo esterno e la rielaborazione non autorizzata delle immagini con eliminazione dei segni distintivi della sua personalità è tale da svilire la persona»[4].

Una situazione opposta ha riguardato Audrey Hepburn. In quell’occasione, il Tribunale di Torino, con sentenza n. 240 del 27 febbraio 2019, accolse la domanda di violazione dell’immagine della protagonista di Colazione da Tiffany, che compariva alterata su una linea di magliette, con il corpo tatuato.

Risulta chiaro, dunque, come il tatuaggio sia un tratto distintivo della persona, un tutt’uno col corpo, e che come tale debba essere considerato. Non a caso, proprio un tatuaggio è al centro di un caso di revenge porn: il Tribunale di Ravenna, con sentenza n. 1085 del 25 novembre 2019, ha dichiarato che il tatuaggio, di per sé, è un tratto identificativo sufficiente, anche quando si tratta dell’unico elemento distintivo di una donna ripresa di spalle, come è accaduto nel processo in questione.

«Il corpo è un luogo» – scriveva Achille Bonito Oliva in occasione della mostra L’Asino e la Zebra. Origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo – «che si estende ben oltre la propria contingenza; il corpo è un paesaggio dove si consumano le istanze di affermazione individuale, la lotta politica, la tematica ideologica. Il corpo è la messa in scena di sé stesso, e si distingue attraverso un sistema complesso di segni estetizzanti: come i tatuaggi, che coprono ed esaltano la nudità rendendola unica».

O forse perché, come sostiene Nicolai Lilin nelle sue Storie sulla pelle, la gente porta impresse sulla pelle le vicende che ha vissuto e che l’hanno resa quella che è, e il tatuaggio esterna un ricordo, un credo o un amore: non è soltanto un motivo estetico.

La giurisprudenza straniera è piuttosto significativa, specialmente quando la questione riguarda lo sfruttamento economico dei tatuaggi intesi come vere e proprie opere dell’ingegno.

La Corte d’Appello di Parigi (3 juillet 1998, n°97/00183) ha stabilito che i diritti sul tatuaggio che Johnny Halliday aveva sul braccio e che raffigurava una testa d’aquila con sopra una piuma sono di proprietà di Jean-Philippe Daures, alias «Santiag», il tatuatore che aveva realizzato l’opera e registrato come marchio il disegno all’INPI.

Un altro caso risale al 2011, anno in cui è stata chiusa la vertenza promossa da Victor Whitmill, autore del tatuaggio di Mike Tyson, contro Warner Bros Entertainment Inc: nel film The Hangover 2  l’attore Ed Helm riportava, infatti, sul volto lo stesso tatuaggio maori di Mike Tyson, senza che il tatuatore lo avesse autorizzato[5].

E, ancora, è piuttosto recente la pronuncia in merito al caso del videogioco NBA 2K: in quell’occasione, l’azienda titolare dei diritti di proprietà intellettuale sui tatuaggi di alcuni cestisti NBA, tra cui LeBron James, aveva citato i produttori del celebre videogioco, per aver riprodotto i corpi dei giocatori, e quindi anche i loro tatuaggi, senza consenso, accusandoli dunque di violazione del copyright. Proprio quest’anno, però, è arrivata la sentenza che, sulla base dei principi de minimis non curat praetor e del fair use, dà ragione ai produttori del videogame. Ancora una volta, tra l’altro, una sentenza ribadisce che i tatuaggi «riflettono l’espressione personale dei giocatori», e dunque non possono essere scissi dal corpo a cui appartengono.

Si deve, infine, a una recente sentenza inedita del Tribunale di Catania del Novembre 2019, che però poco ci convince, la salvezza per i tatuatori contro le domande di risarcimento del danno estetico, derivante dalla realizzazione di un tatuaggio diverso da quello commissionato. Secondo i giudici etnei, il tatuaggio è da considerare un’opera artistica e, come tale, non suscettibile di valutazione soggettiva. Ma per tornare a Linin, se i tatuaggi «esistono proprio per dire cose che non possono essere dette con le parole» è legittimo o forse persino giusto ritenere che quel simbolo impresso nella pelle, come ogni committenza che si rispetti, debba rispettare i desideri di chi lo porterà per sempre.

 

[1] TGI Paris 3 juin 1969, D. 1970. 136, note J. P. ; Gaz. Pal. 1969. 2. 57, note A. T.; RTD civ. 1970. 347, obs. Y. Loussouarn

[2] La pellicola era sua volta liberamente ispirato al racconto Pelle di Roald Dahl, il cui protagonista aveva sempre sul dorso un ritratto della moglie tatuato però da Chaïm Soutine.

[3] Tribunale di Milano 6 giugno 2018

[4] G. Gatti, Il tatuaggio come elemento costitutivo dell’immagine della persona, in Il Diritto Industriale, 5/2019, nota a sentenza all’immagine, Tribunale di Milano 6 giugno 2018

 [5] Di recente Andrea Affermi, il noto tatuatore, ha postato sulla sua pagina Instagram l’immagine di una sua opera realizzata su un ignoto corpo che raffigura il volto di Mike Tyson con il suo tatuaggio ma le reazioni del pugile non sono ancora note