Il linguaggio dei tribunali nei casi di violenza maschile contro le donne e la capacità di ascolto delle donne maltrattate
Articolo pubblicato nella sezione Il linguaggio del diritto del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".
Abstract
Lo scritto propone una riflessione sul modo in cui il sistema giudiziario – penale e civile – si rapporta con le donne vittime di violenza di genere, attraverso esempi concreti tratti da sentenze e atti processuali.
Il linguaggio usato dai tribunali mette in luce come i pregiudizi socio-culturali pervadano anche le aule di giustizia, e di come sia necessaria una formazione specifica per affrontare queste problematiche.
The paper offers a reflection on the way in which the judicial system - criminal and civil - relates to women victims of gender-based violence, through concrete examples taken from sentences and procedural documents. The language used by the courts highlights how social and cultural prejudices also pervade the courtrooms and how specific training is needed to address these issues.
Sommario
1. Premessa
2. La difficile differenza tra lite e violenza
3. Pregiudizi inconsapevoli
4. Giustizia e progresso culturale
Summary
1. Introduction
2. The difficult difference between quarrel and violence
3. Unknowing prejudices
4. Justice and cultural progress
1. Premessa
Laura Terragni ha affermato che “il modo in cui una società reagisce alla violenza nei confronti delle donne rappresenta uno specchio per comprendere il modo in cui essa intende le relazioni tra uomini e donne, i loro comportamenti, il loro modo di interagire” [1].
In tutte le campagne di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere, le donne vengono invitate a denunciare il proprio partner violento: si chiede alle donne questo sforzo enorme in un momento in cui sono prostrate dalla sofferenza. Poche ci riescono, qualcuna più che in passato ma sempre poche.
Ma quelle poche che riescono a denunciare l’uomo che le ha maltrattate, cosa ricevono poi in cambio dallo Stato che ha promesso di proteggerle?
La donna maltrattata dovrebbe poter vedere nella giustizia – penale e civile – un porto sicuro a cui approdare, senza timore di non essere creduta o di essere colpevolizzata.
Il punto quindi, su cui è necessario riflettere, è l’adeguatezza della risposta del sistema nei confronti delle vittime, misurata non sul piano della gravità della sanzione comminata all’autore della violenza, bensì sotto il profilo della capacità del sistema giuridico e della magistratura di cogliere il disvalore del fenomeno e di trasmettere in modo chiaro la disapprovazione dell’ordinamento nel momento della sua applicazione concreta, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria della donna[2]. Solo una volta accertata questa capacità diventa logico interrogarsi su quale sia la sanzione più appropriata.
2. La difficile differenza tra lite e violenza
Poiché le parole che utilizziamo rappresentano il modo in cui interpretiamo la realtà, propongo qui alcuni esempi, anche se molti se ne potrebbero fare, tratti da atti processuali e sentenze di tribunali italiani.
In un procedimento a carico di un uomo accusato di atti persecutori (stalking) nei confronti dell’ex moglie, e in particolare di averla pedinata, ingiuriata e minacciata anche di morte con frasi del tenore “troia, puttana, io ti uccido e mi prendo mia figlia; se ti vedo con un altro ti spacco le gambe; io ti uccido e mi faccio trent’anni di galera con piacere; io sono molto cattivo” [3], il GIP, rispondendo alla richiesta della difesa di consentire all’indagato di vedere la figlia, ha dichiarato che “la bambina non c’entra niente nelle bizze di due genitori”. Ora, che si definiscano “bizze” le minacce di cui sopra appare quanto meno inappropriato, per non dire privo di ogni riguardo nei confronti della donna persona offesa di quel reato.
Tralasciando poi ogni ulteriore, pure opportuna, riflessione in tema di violenza assistita dei minori. In una sentenza di separazione del tribunale civile leggo che il giudice dapprima rileva che l’unione dei coniugi si è sciolta “per causa esclusiva” del marito, condannato penalmente “per minacce e maltrattamenti nei confronti della moglie, nonché per mancato adempimento del dovere di mantenimento delle figlie minori”, ma qualche riga più avanti lo stesso giudice ravvisa tra i presupposti della pronuncia di separazione il fatto che la convivenza è divenuta intollerabile “a causa delle incompatibilità caratteriali dei coniugi”[4].
Questi esempi ci dicono che è assai difficile per la magistratura distinguere tra lite e maltrattamenti, come purtroppo lo è nella cultura sociale. Ma le due situazioni sono assai diverse, perché nella lite c’è un rapporto tra pari, che si aggrediscono fisicamente o verbalmente in maniera vicendevole; nel maltrattamento, invece, c’è un soggetto che agisce e l’altro – più spesso l’altra – che subisce, c’è un dominatore che esprime con la violenza il proprio potere ed una vittima che spesso non ha neanche la forza di difendersi.
A tal proposito, va rammentato che perfino la Corte di Cassazione ha precisato che “anche le sporadiche reazioni vitali ed aggressive della vittima […] ovvero la sussistenza di un clima caratterizzato da generale litigiosità, non consentono di escludere lo stato di soggezione della persona offesa a fronte di soprusi abituali posti in essere dal maltrattante, né, tanto meno, consentono di escludere la sussistenza dell’elemento psicologico, che deve consistere nella coscienza e volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza” (Cass. Sez. III, n. 46043 del 20/03/2018).
3. Pregiudizi inconsapevoli
Problema grave, eppure essenziale nei processi per maltrattamenti e violenze legate al genere, è la credibilità della persona offesa.
Leggo in una sentenza penale: “Interrogata in ordine alle ragioni del proprio silenzio la parte civile ha evidenziato di avere, in un primo tempo, pensato di essere lei stessa la causa dei malumori del marito, e di avere compreso, solo in un secondo momento, che l’uomo era violento per sua natura” [5]. Ciò che dovrebbe colpire è che sono esclusivamente le donne vittime ad essere interrogate sulle ragioni del loro lungo silenzio; gli uomini imputati, essendo legittimati a tacere e mentire, non vengono interrogati sulle ragioni – ammesso che questa parola sia appropriata – della loro lunga violenza.
Purtroppo c’è sempre qualcosa che non va nel nostro comportamento: se denunciamo troppo presto non siamo in grado di sopportare un po’ di difficoltà in nome del bene della famiglia, se non denunciamo o denunciamo troppo tardi allora la situazione non era poi così drammatica.
Quando il processo si basa sulla parola dell’una contro quella dell’altro, il giudice deve decidere a chi dei due credere, ed è in quel frangente che i pregiudizi così profondamente ed inconsapevolmente radicati in tutti e tutte noi entrano in gioco. Ovviamente, come persone istruite, crediamo di essere immuni dai pregiudizi, ma sbagliamo: è la giudice Paola Di Nicola Travaglini a ricordarci che “il pregiudizio contro le donne ha la prerogativa di appartenere all’intera umanità, che si ritrova ogni giorno a condividere, al di là dei confini di spazio e tempo, un’identica impari struttura di relazione tra uomini e donne fondata su di esso” [6]. E questo vale per tutti, anche per i giudici e le giudici.
È impossibile non citare in questa sede due sentenze che hanno fatto scalpore.
La Corte d’Assise d’appello di Bologna, nel novembre 2018, ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato condannato per l’omicidio della sua fidanzata, motivando in questo modo: “Sebbene quel sentimento [la gelosia, N.d.A.] fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale’, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale” [7].
Similmente il GUP di Genova, nel dicembre dello stesso anno, dopo aver descritto la relazione tra i coniugi come “tormentata”, evidenziando tradimenti della moglie e il di lei “atteggiamento ambiguo”, ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato ritenendo che egli “non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo, l’ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano” [8].
Da questo genere di sentenze emergono due problemi.
Il primo problema è che attribuire valore attenuante alla “tempesta emotiva” significa attribuirlo proprio all’origine del problema, in qualche modo legittimandolo, perché è proprio quella spinta identitaria di dominio del maschio che determina la violenza contro la donna, perché è proprio l’espressione di autonomia della donna ad essere inaccettabile per l’uomo violento, che quindi manifesta la sua aggressività in modo tutt’altro che irrazionale.
Ciò che si contesta di queste sentenze non è l’applicazione tecnica delle norme penali sulla valutazione delle prove assunte nel processo, tra cui la perizia psichiatrica che utilizza l’espressione “tempesta emotiva”; il problema non è la tecnica matematica di aumento o diminuzione della pena, bensì la considerazione che di questo fatto i giudici hanno avuto. Dietro ad ogni tempesta emotiva c’è un’idea del mondo, un pregiudizio sui rapporti umani, e quindi la causa dell’agire è da ricercare nella cultura, nella mentalità di quel soggetto, non nel turbamento concomitante che ne è piuttosto la conseguenza. Ma, come si osservava prima, anche chi giudica è portatore e portatrice di quel radicato pregiudizio che in qualche misura colpevolizza sempre la donna, che non si è comportata nel modo in cui ci si aspettava da lei: ha tradito, ha lasciato, non ha accondisceso, ha addirittura illuso. Se si provasse ad invertire i ruoli, il risultato valutativo sarebbe diverso.
Il secondo problema che si osserva leggendo le sentenze relative a femminicidi – anche se tale termine non compare nella nostra legislazione – è che si tende a dare molta rilevanza alle parole dell’imputato, soprattutto quando ha confessato almeno in parte il delitto.
Per forza, si dirà, se noi donne siamo morte non possiamo più parlare. Ma testimoni, prove materiali e oggi prove derivanti dalle tecnologie della comunicazione sono lì per quello: per ricostruire, per ricostruirci. Tuttavia è proprio la ricostruzione dell’uomo che spesso viene presa per buona, specie quando fornisce elementi per valutarne una minore responsabilità, per esempio escludendo la premeditazione. Nei casi sopra richiamati i sentimenti di rabbia e delusione degli uomini emergono dalle loro sole parole. Eppure le loro parole andrebbero lette alla luce delle norme processuali che consentono all’imputato di mentire nel processo, e di ridimensionare più che riesce la sua posizione. Paradossalmente è perfino accaduto che non si ritenga decisiva la confessione per poter condannare un uomo, ma che si dia piena rilevanza alle sue ricostruzioni fattuali e psicologiche per attenuarne la responsabilità e quindi il trattamento sanzionatorio. L’avvocata Giulia Bongiorno riassume dicendo che viviamo in un sistema giuridico e giudiziario così irrazionale che “crea sfiducia nelle vittime e non è un deterrente per chi delinque” [9].
4. Giustizia e progresso culturale
Le sentenze non solo giudicano fatti storicamente accaduti, ma veicolano anche messaggi culturali alla società, possono contribuire ad orientare e favorire o piuttosto ad ostacolare lo sviluppo di positivi processi culturali della nazione sui cui comportamenti sono chiamate a giudicare.
Si pensi, per esempio, a quanto la giurisprudenza ha fatto e sta facendo in tema di fine-vita: con una serie di processi – gli ultimi quelli che hanno visto come imputato Marco Cappato, ma prima quelli riguardanti Eluana Englaro e Piergiorgio Welby – la giurisprudenza ha colmato un vuoto di diritti che il legislatore si è ostinato e si ostina a non colmare – nonostante la sollecitazione della Corte costituzionale -, andando incontro al sentimento ormai ampio della nazione che non sente più come appropriata quell’artificiale forma di vita creata dalle tecniche di rianimazione.
In tema di violenza maschile contro le donne la strada invece è ancora lunga: purtroppo ancora non c’è stata quell’evoluzione di coscienze collettiva che giudicherà sbagliata sempre e comunque la violenza di genere, che perfino considererà violenza tutti i comportamenti violenti, e che soprattutto considererà colpevole di quei comportamenti solo chi li agisce e non chi li subisce, così come accade per tutti gli altri reati previsti dal nostro ordinamento. Ed è impensabile che questo così profondo retaggio culturale non si riversi anche nelle sentenze di quei giudici e quelle giudici che si credono immuni da pregiudizi.
Paola Di Nicola Travaglini ci dice che per riuscire ad adottare questa nuova visione del mondo è necessario indossare le “lenti di genere”, cioè guardare la vita cercando di comprendere quali ruoli hanno gli uomini e quali le donne, accettando il fatto che raggiungere la consapevolezza che esiste una differenza è un esercizio quotidiano, assai impegnativo. Eppure doveroso, aggiungo io.
Il CSM, nel 2018, ha adottato delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere [10], che prevedono la specializzazione ove possibile, il “turno violenza” in Procura, coordinazione tra le varie istituzioni che intervengono nel contesto familiare violento, adeguate informazioni alla vittima, l’ausilio di esperti, la testimonianza protetta e la valutazione del rischio. Ottime raccomandazioni che si auspica vengano seguite, ma che sottendono una necessità urgente: una formazione specifica sul tema della violenza di genere per la magistratura e le forze di polizia che di violenza di genere si occupano.
È impensabile riuscire ad adottare le lenti di genere se ci si ostina a ritenere che per capire come va il mondo e come vanno le relazioni tra uomini e donne non sia necessario uno studio specifico, o peggio che la legge basti. La legge non basta affatto, e certamente non è lo strumento per risolvere il problema.
Un problema culturale può trovare la sua soluzione esclusivamente nella cultura che quel problema ha prodotto.
La giudice Paola Ortolan ci ricorda, infine, che “una qualità che non deve mancare, a trent’anni come a cinquanta, è la capacità di accoglienza delle persone, dei loro racconti e dei loro vissuti” [11].
Certo risulta difficile mantenere quest’atteggiamento quando la propria scrivania è piena di fascicoli e il mestiere di giudice diventa sempre più legato a numeri di produzione: processi da chiudere, sentenze da depositare, efficienza a fine anno da dimostrare. È difficile, eppure necessario, ricordarsi che in ogni fascicolo non c’è solo carta, ma ci sono persone, vite, spesso vite distrutte, che attendono qualcosa che possa somigliare a giustizia.
Non posso concludere senza qui ricordare la giudice Ruth Bader Ginsburg, citando quello che possiamo definire il suo manifesto: “Non chiedo favori per il mio sesso, chiedo solo che smettano di calpestarci”.
[1] Terragni, L., Le definizioni di violenza, in Adami, C., (a cura di), Libertà femminile e violenza sulle donne. Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 32
[2] Cfr. Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
[3] Sentenza Tribunale di Ravenna, sez. penale, 01/07/2020 n. 724.
[4] Sentenza Tribunale di Ravenna, sez. civile, 18/07/2019 n. 746.
[5] Sentenza Tribunale di Ravenna, sez. penale, 31/03/2017 n. 527.
[6] Di Nicola, P., La mia parola contro la sua, HarperCollins, Milano, 2018, p. 8
[7] Sentenza Corte d’Assise d’Appello di Bologna, 14/11/2018 n. 29, poi cassata con rinvio dalla Suprema Corte.
[8] Sentenza GUP presso il Tribunale di Genova, 5/12/2018 n. 1340.
[9] Bongiorno, G., Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta, Rizzoli, Milano, 2015, p. 34
[10] CSM, Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica, Delibera 9/05/2018
[11] Ortolan, P., La toga addosso, Edizioni San Paolo, Milano, 2018, p. 112