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Il rapporto tra vino e film: storia di una passione

Vino e cinema
Vino e cinema

Vino e film. Le mie passioni, insieme alla musica.

Se la relazione tra la musica e i film è più evidente e riconosciuta, lo è molto meno quella tra il vino e il cinema. Eppure, anche se non è altrettanto importante, la presenza del vino nei film è discreta, ma costante. Sia che si tratti di semplice messaggio subliminale, sia che si tratti di una vera contestualizzazione socioculturale.

Mi piace iniziare questo breve excursus, per nulla esaustivo, di citazioni enoiche nel cinema con “La Finestra sul Cortile”. Nei primi minuti del film, una elegantissima e raffinatissima Grace Kelly, fa servire a un per nulla impressionato, quasi infastidito, James Stewart, obbligato sulla sedia a rotelle, una cena “perfetta”, accompagnata da una bottiglia di Montrachet. Il re dei vini per il re dei registi. D’altra parte è noto che Alfred Hitchcock era un goloso di prima forza, nonché appassionato di vino e possedeva una cantina impressionante, nella quale la Romanée-Conti era una presenza costante. Ma il messaggio è chiaro: il vino è uno dei simboli dell’eleganza.

Ed è senz’altro in questa direzione che posso citare la presenza di due Champagne, Bollinger e Dom Pérignon, nei film della saga dell’agente 007. Nei momenti di relax, l’agente segreto più famoso del mondo non può fare a meno di abbinare la prediletta compagnia di donne bellissime con le bollicine francesi. Si sa che lo Champagne è il vino dei re per antonomasia. E allora quale modo migliore per pubblicizzare marchi importanti che ambiscono alla conquista del mercato di fascia alta, se non abbinando il proprio prodotto alle imprese mirabolanti del re degli agenti segreti?

Il cinema americano sembra voler attribuire un ruolo particolare di status symbol al vino, anche quando si parla di film e di registi meno glamour. È il caso diMisterioso omicidio a Manhattan” di Woody Allen, insolito film giallo del 1993 per il regista di “Io e Annie”, nell’ambito del quale la coprotagonista Diane Keaton si fa aiutare nelle investigazioni da un ex amante, Alan Alda, un altro degli attori prediletti dal Woody Allen dei tempi d’oro, e in un momento di pausa rievoca con lui i momenti iniziali della loro relazione, in cui aveva avuto parte importante una bottiglia di Château Margaux.

Siamo nell’ambito dell’upper class intellettuale newyorchese ed è allo stesso tempo un luogo comune e vero slancio stilistico questo richiamo ad uno dei più importanti Premier Cru di Bordeaux. D’altro canto Woody si ripeterà successivamente, nel suo sensuale “Vicky Cristina Barcelona”, in cui sottolinea l’erotismo del vino, in “Midnight in Paris”, leggero e delizioso musical, in cui il protagonista Gil si ritrova al tavolo con Buñuel, Murray e Dalì che ordina “du vin rouge” e si vede portare niente meno che una bottiglia di Haut Brion (probabilmente dell’annata 1928). Infine nel torbido “Match point”, dove, in un pranzo, si ordina una bottiglia di Puligny-Montrachet, il principe dei bianchi secchi borgognoni.

Ma anche il cinema americano, quando guarda all’Italia, sa cogliere aspetti diversi della relazione tra il vino e la società, come in Il Segreto di Santa Vittoria”, film del 1969 diretto da Stanley Kramer con un cast stellare tra cui spiccano Anthony Quinn, Anna Magnani e Virna Lisi. Il film racconta la vicenda, realmente accaduta, degli abitanti di un piccolo paese del centro Italia che, dopo l’armistizio del 1943 e durante l’occupazione nazista, fanno di tutto per nascondere agli occupanti il patrimonio in bottiglie di vino della cantina sociale. Segnale di un legame molto profondo tra la gente, i luoghi che vive e i prodotti che trae dal proprio lavoro.

La trasposizione cinematografica commette qualche errore; in effetti l’episodio a cui è inspirato era realmente accaduto in un paese dell’albese in provincia di Cuneo, sede delle cantine Cinzano. Ma il senso non cambia. Il vino è un prodotto della terra e di chi la lavora. Non so se l’intento della produzione fosse proprio questo, ma mi sembra un messaggio molto forte e ancora validissimo. Anche nel mondo del vino, in forte e costante trasformazione.

Ma i due film italiani capolavoro della relazione con il vino sono, a mio avviso, “Miseria e Nobiltà” e “Il Compagno Don Camillo”. Nel primo, straordinario film del 1954 diretto da Mario Mattoli con un sempre esilarante Totò, il compagno di sventure, Enzo Turco, squattrinato fotografo ambulante, si lancia in una stringata, ma efficace analisi organolettica del suo vino preferito.

“...e ti fai dare due litri di Gragnano, frizzante! Assicurati che sia Gragnano; tu lo assaggi, fffhhh, se è frizzante, lo pigli, sennò, desisti...”

Questo brevissimo estratto è parte di uno degli innumerevoli sketch inseriti nel film tra i due attori, ma sembra anche indicare un rapporto stretto, profondo, anche sensoriale, tra la gente del popolo e questo prodotto, il vino.

Ma è ne “Il Compagno Don Camillo”, film del 1965 diretto da Luigi Comencini con gli indimenticabili Fernandel e Gino Cervi, che il vino sembra assumere una dimensione politica, nel momento in cui dimostra la relazione stretta, quotidiana, tra il popolo e questo suo prodotto tanto amato, quando nell’ambito dello scambio di doni tra i due paesi gemellati, Brescello e un paese dell’allora Unione Sovietica, Peppone/Gino Cervi, presenta il Lambrusco con queste parole:

“...Questo sarebbe il vino Lambrusco! Questo è un vino tipico della nostra regione, spumante, si, digestivo e diuretico...anche lui è Rosso!…” e Don Camillo/Fernandel applaude calorosamente! Non tanto per il chiaro riferimento politico, ma per il vino in se. Evidentemente, il vino mette tutti d’accordo, anche gli avversari più acerrimi.

Certo, il cinema sembra essere anche critico nei confronti degli appassionati del vino, come in “Sideways”, film del 2004 diretto da Alexander Payne con un bravissimo Paul Giamatti, quando impersona un degustatore seriale un po’ sfigato, che sembra sfogare le proprie frustrazioni esistenziali nel rapporto privilegiato con il vino. In contrasto con il suo compagno di viaggio, che sembra dimostrare un rapporto più immediato e scanzonato, ad essere benevoli, con il vino e con la vita. Il film si chiude enigmaticamente sul futuro del protagonista, che, però nel frattempo, si è bevuto in solitaria e con un bicchiere e in un contesto totalmente inadatti, una bottiglia di Cheval Blanc del 1961, perché non è importante l’evento a cui abbinare il vino, l’evento è aprire una bottiglia di questo calibro.

Ma è in “Ratatouille”, film di animazione del 2007, che i grandi vini vengono visti, da un lato come strumento di “seduzione” come quando lo chef del ristorante in cui è ambientato il film cerca di conquistare la fiducia dell’incauto Alfredo Linguini, che si presume possa vantare diritti sull’eredità del fondatore Auguste Gusteau, con una bottiglia di Château Latour 1961.

Dall’altro, quando presenta Anton Ego, critico gastronomico intransigente e frustratissimo, che conclude la propria ordinazione chiedendo una bottiglia di Cheval Blanc 1947. Il critico gastronomico si lascia poi sedurre delle capacità dei protagonisti e diventa cliente privilegiato del bistrot popolare diretto da Linguini e dal topo Rémy, abbandonando la sua esclusività. Critica pseudodemocratica del prodotto di alta qualità, sia che si tratti di un grande ristorante, sia che si tratti di un grande vino.