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Il reale e vero obiettivo sotteso al giudicato sulle valutazioni prefettizie in tema di informative antimafia

assicurare giustizia sostanziale
_L'abbraccio tra Mediterraneo e Ionio_ - Isola delle Correnti, Portopalo di Capo Passero
Ph. Simona Loprete / _L'abbraccio tra Mediterraneo e Ionio_ - Isola delle Correnti, Portopalo di Capo Passero

Prolegomeni

La mia insofferenza verso la variegata e complessa architettura su cui suppostamente si regge l’istituto delle interdittive antimafia è ormai arcinota avendo io scritto, a più riprese ed anche su questa rivista, di  quelle che a me appaiono le non sottacibili incongruenze caratterizzanti il coacervo disordinato di norme che continuo a ritenere strutturalmente sbagliate e profondamente illiberali che non pochi e tangibili disastri hanno e stanno arrecando al tessuto economico ed imprenditoriale italiano e del sud in particolare.

Ho più volte ribadito come, a mio giudizio, la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata non possa che essere utilmente perseguita se non nel rispetto del sistema di garanzie proprie dello Stato di diritto.

La mela che San Tommaso mostrava all’inizio delle sue lezioni stava a significare la paradigmaticità tanto del senso del reale che della oggettiva realtà. Il rifiuto pregiudiziale della realtà, in ragione della necessità di adeguamento culturale al mantra del c.d. politicamente corretto, non fa altro che dar corpo al precostituito divieto, sciente o, cosa ancor più grave, inconsapevole, di disvelamento del reale.

Invero, il cieco uniformarsi al c.d.  politically correct non produce altro effetto che annientare, con l’ausilio della cancel culture, la narrazione della verità perché siffatta adesione al conformismo del pensiero prevale sul principio di realtà, e, quindi, sulla verità. Ormai è dato fattuale ed obiettivamente non contestabile che la civiltà del nostro tempo punti a coniugare, in un eadem sentire il concetto qualunquista del politicamente corretto con la ormai più che frequente isteria normativa che caratterizza tanto l’attività legislativa che quella giudiziale nonché quella di amministrazione attiva in subiecta materia.

Alla luce di queste semplici considerazioni non bisogna avere timore di asserire che la verità unisce e la menzogna divide. Il politicamente corretto, infatti non fa altro che separare la realtà (la mela di San Tommaso) dalla verità. In buona sostanza occorre avere la forza e la dignità di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa attribuire o attenuare forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione dei diritti, purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni, nonché l’introduzione di strumenti dell’emergenza, quali sono le interdittive e/o informative, possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi ed in situazioni del tutto circoscritte e per di più vanno adoperate con assoluto espresso rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie.

In relazione al ricordato fenomeno delle interdittive generiche l’attuale non illuminato legislatore ha dato vita – sia pur, ripeto, nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le infiltrazioni c.d. mafiose – ad un mostro di inciviltà giuridica, ad un obbrobrio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha determinato un vulnus, fondato sul sospetto e sull’aberrazione della presunzione di colpevolezza che mina alla radice il principio della certezza dei diritti.  

Il tetragono monolite normativo oggetto di questa analisi - purtroppo sin qui avallato da una ermeneusi giustiziale che è riuscita, salvo rare ancorché qualificate eccezioni, a delineare concettualmente un’isola che non c’è, i cui paradigmi di riferimento sono impropriamente rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene, in modo obbiettivamente non calzante, considerato quale vera e distintiva pietra angolare del sistema normativo c.d. antimafia a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato ed evanescente modello civilistico “del più probabile che non - peraltro espunto dal suo ambito naturale, riadattato alla bisogna e suppostamente fondato su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti e su dati conoscitivi astrattamente utilizzabili sia di natura tipica che atipica – sta subendo importanti incrinature che contribuiscono a rafforzare non la riaffermazione del processo di potenziamento dei valori e dei principi dello Stato di diritto sotto il profilo della legalità (che non si dimentichi essere soltanto un metodo, che, fra l’altro, va inscindibilmente correlato al principio di libertà) ma anche e soprattutto della giustizia (vero ed unico immortale valore da perseguire) una vera e concreta, e non soltanto di maniera, lotta alla criminalità organizzata.

Intendo qui riferirmi alla tecnicamente più che solida sentenza da qui a poco in esame del TAR dell’Emilia e Romagna n°729/2021, che mi appare sotto il profilo della lucidità ermeneutica quale vera e propria pietra angolare per il percorso di analisi che ormai, sin dal lontano anno domini 2015, ho avviato nei confronti di una impalcatura concettuale che si è sin qui evoluta in modo estremamente rigido e che, per ciò stesso, ossia per la sua stessa dichiarata non duttilità, ha prodotto innumerevoli guasti non soltanto nei confronti della singole sfere giuridiche soggetive incise ma anche nel tessuto economico del Paese.

 

La sentenza del T.A.R. dell’Emilia e Romagna, Sez. I^, 26 luglio 2021 n°729

Il giudicato in questione fa una invero puntuale e lucida analisi della non secondaria questione afferente all’assoggettamento ad interdittiva antimafia ovvero alla misura ad essa equiparata del diniego del Prefetto di Ferrara della iscrizione nella white list di quella Prefettura di una impresa.

Tale diniego è stato assunto meccanicamente dalla prefata Autorità Prefettizia territoriale in forza di un invero ingiustificato “mero automatismo” fatto acriticamente discendere dall’Autorità emanante, dalla intervenuta condanna degli amministratori e dai dirigenti di una società di capitali – operante nel settore chimico, con specializzazione nel comparto del trattamento e recupero di rifiuti provenienti   prevalentemente  da industrie farmaceutiche – per il reato sanzionato ex articolo452 quaterdecies C.P. (già articolo260 del D.Lgs. n°152/2006); fatto antigiuridico che è incluso tra i cc.dd. “reati spia” in forza dell’articolo 51, 3° comma bis C.P.P. In buona sostanza il Prefetto di Ferrara ha adottato nella circostanza in oggetto, tanto un provvedimento di interdittiva antimafia (ex articolo88, 3° comma, del D. Lgs. n°159/2011) che il diniego (ex articolo 2, 2° comma, lett. b del DPCM 18.04.2013) di iscrizione della prefata impresa nella c.d. white list tenuta presso l’U.T.G. del prefato capoluogo di Provincia.

A seguito di rituale impugnazione, la controversia è stata devoluta al sindacato giustiziale del TAR dell’Emilia e Romagna.  

Al fine di compiutamente evidenziare l’intelligente novità ermeneutica della decisione assunta dal TAR felsineo non appare inutile sottolineare come la misura interdittiva comminata in sede di amministrazione attiva nel confronti della prefata società ricorrente risulta essere motivata unicamente in ragione di una sentenza penale adottata dal G.U.P. presso il Tribunale di Bologna il quale ha disposto la condanna di alcuni amministratori e dirigenti della ricordata società irrogando loro sanzioni di natura pecuniaria, ritenendo detto Giudice penale i succitati soggetti, incisi come responsabili del reato di “concorso di persone in attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” ex articolo 452 quaterdecies C.P.,  normativamente individuato ed incluso fra i c.d. “reati spia” ai sensi dell’articolo 51, 3° comma bis C.P.P.

In realtà, giusta quanto correttamente rilevato dal G.A. di Bologna, senza che emerga sia dalla sentenza penale che dal provvedimento di interdittiva, alcun elemento che potesse lasciar presagire, anche in via indiretta, pericolo alcuno di condizionamento, da parte della criminalità organizzata, sulla più volte ricordata società ricorrente.

Di guisa che appare del tutto ultronea e certamente de jure non riferibile al caso di specie l’applicazione del combinato disposto degli artt. 67, 8° comma e 84, 2°comma del D. Lgs. n°159/2011, atteso che nella fattispecie oggetto del decisum in esame, ancorché si sia in presenza di una condanna definitiva in sede penale, non sussistono, nel modo più assoluto le condizioni per l’irrogazione, in forza di un automatismo senza ragione, dell’informazione antimafia postulata dall’articolo 88, 3° comma, del D. Lgs. n°159/2011.

Il TAR di Bologna con assoluta, grande sagacia ermeneutica ha denunciato l’irrazionalità del riferito automatismo secondo il quale la condanna penale per uno dei c.d. “reati spia” importa sempre, da parte del Prefetto, la meccanica applicazione di informazione interdittiva antimafia anche nell’ipotesi in cui non vi sia prova alcuna della riconducibilità dell’impresa ad organizzazioni criminali di sorta.

Orbene la sentenza in commento ha avuto il pregio di recidere l’irrazionale nodo gordiano attraverso la più che saggia decisione di ritenere illegittimo il non felice automatismo postulato dagli artt. 67, 8° comma e 84, 2°comma del D. Lgs n°159/2011, laddove tale meccanica applicazione della condanna penale, per uno dei c.d. “reati spia”, non implica direttamente alcun coinvolgimento con organizzazioni criminali, viepiù che tale, ribadisce, irrazionale automatismo si determina quale momento assolutamente incompatibile con la c.d., ed anch’essa non sempre fisiologica, discrezionalità amministrativa attribuita e riconosciuta in capo all’Autorità prefettizia nell’adozione delle informazioni interdittive antimafia, viepiù, fra l’altro, che l’articolo 80, 1° comma lett. a)  del D. Lgs n°50/2016, postula il principio secondo il quale la condanna penale definitiva per uno dei c.d. “reati spia” è di per sé considerato elemento inadeguato per giungere all’esclusione del soggetto economico alla partecipazione alle gare pubbliche (nel caso di specie l’iscrizione della prefata impresa nella c.d. white list tenuta presso l’U.T.G. di Ferrara), essendo a tal fine additivamente necessaria la presenza dell’ulteriore ed essenziale elemento costitutivo dal quale sia desumibile la reale e concreta partecipazione dell’imprenditore ad una organizzazione criminale.

L’innegabile plus ermeneutico della prefata sentenza del G.A. di Bologna anche rispetto alla decisione n°178 del 30.07.2021 della Corte costituzionale  

Il connotato di novità e di più incisiva significatività ermeneutica espresso dalla sentenza del TAR dell’Emilia e Romagna, risulta, invero ancor più impreziosito dalla decisione della Corte costituzionale in rubrica specificata.

Con quest’ultima sentenza il prefato Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 24, 1° comma, lett. d) del D.L. 4.10.2018 n°113, convertito con modifiche nella L.1.12.2018 n°132, nella parte in cui la richiamata normazione ha inciso con effetto modificativo sull’articolo67, 8° comma del D. Lgs. n°159/2011, limitatamente alla dictio afferente “ai reati di cui all’articolo 640, 2° comma, n°1 del C.P.”  e cioè all’ipotesi di truffa commessa a danno dello Stato o di altro Ente pubblico.  

In buona sostanza la decisione della Corte costituzionale ha ritenuto che la fattispecie ex articolo 640-bis C.P. non abbia, come non ne ha, natura associativa alcuna, né postuli l’esistenza di una organizzazione preordinata alla commissione del reato medesimo, bensì “…. una dimensione prettamente individuale che può, senza tema di smentita, riguardare anche condotte di minore rilevo… ed è punito con pene di più lieve entità (massimo edittale sette anni) senza peraltro la previsione di ipotesi di deroghe al regime processuale ordinario”.

Di guisa che, quanto rilevato dalla Consulta rende del tutto contraria al principio di ragionevolezza la scelta di far automaticamente derivare, sia dalle fattispecie di cui all’articolo 51, 3° comma-bis che da quella p. e p. dall’articolo 640-bis, l’identica incapacità giuridica del soggetto inciso di avere rapporti con le P.A.,  viepiù in considerazione dell’obiettiva evidenza che l’applicazione irriflessa di tale automatismo determina danni ingiustificatamente elevati “alla libertà di iniziativa economica sia sul piano patrimoniale, sia della reputazione imprenditoriale”.

Va, però, a scanso di equivoci, subito e con fermezza affermata l’innegabile autonoma valenza ermeneutica della decisione del TAR felsineo, rispetto alla testé ricordata pronuncia di illegittimità costituzionale. Infatti  il non ritenere rigidamente consequenziale l’applicazione della interdittiva da parte del Prefetto, rilevata dal ricordato G.A., rimane viepiù corroborata dall’obiettiva evidenza che mentre il sindacato della Corte costituzionale che, esclude l’automatismo applicativo della misura interdittiva dalla P.A., resta confinato e circoscritto alla sola ipotesi del “reato spia” di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, il significativo decisum del  TAR di Bologna, abbraccia giustamente e del tutto legittimamente lo spettro più ampio dei reati p.p. dall’articolo 51, 3° comma-bis C.P.P., viepiù, fra l’altro, che la ormai più volte ricordata pronuncia di illegittimità costituzionale non intacca  in alcun modo e misura il complesso del testo dell’articolo 67, 8° comma del D. Lgs. n°159/2011 nella parte in cui include, tra i c.d. “reati spia” i delitti inseriti nell’elenco di quelli indicati nell’articolo 51, 3° comma C.P.P. e fra i quali è espressamente contemplato il reato analizzato dal Giudice di Bologna e cioè quello previsto dall’articolo 452 quaterdecies C.P.

La sentenza del TAR dell’Emilia e Romagna, infatti, pur non mettendo in discussione l’astratta e complessiva capacità potenzialmente idonea a giustificare l’adozione delle misure interdittive – che  trova la sua ontologica giustificazione nella indiscussa pericolosità propria del fenomeno mafioso – molto opportunamente a mio avviso, si preoccupa, in un quadro normativo di riferimento più ampio rispetto a quello considerato dalla Consulta, di evitare e prevenire distorsioni applicative, inutili e fuorvianti del sistema interdittive, ed a garantire un reale, liberale e giusto equilibrio dei giustapposti interessi  correlati alla libertà (insopprimibile) di impresa ed alla salvaguardia dell’ordine pubblico nelle ipotesi in cui non sia concretamente possibile ravvisare, in sede di amministrazione attiva, indice alcuno di appartenenza ad una organizzazione criminale.

Infatti il semplice e pedissequo richiamo di maniera, come nel caso giudicato dal Giudice felsineo, non consente, né può consentire all’Autorità prefettizia di emanare la misura interdittiva atteso che, comunque ed in ogni caso, il dettaglio analitico “delle condotte …..che hanno portato alla condanna penale non sono e non possono essere indizianti di alcunché in quanto non indicanti alcun elemento atto a collegare la società ricorrente a situazioni di pericolo di condizionamento da parte di organizzazioni di tipo mafioso”.     

 

Conclusioni

L’oculata ermeneusi condotta dal TAR dell’Emilia e Romagna, con la più che logica ed in verità anche ben scritta sentenza n°729/2021, mette in risalto, con lucida e, per vero non confutabile dimostrazione, come l’aspetto dell’automatismo tout-court contrasti, per genesi ontologica, con la tanto sbandierata attribuzione al Prefetto - nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamento di tipo mafioso -  di un margine di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti e che ha consentito di avallare e di giungere, in sede di plurimi e non condivisibili sindacati giustiziali, sino al punto da considerare legittimi provvedimenti interdittivi anche in presenza di provvedimenti contrari del Giudice penale, persino nella evenienza  estrema in cui quest’ultimo, attraverso sentenze di proscioglimento o di assoluzione, abbia ritenuto e/o ritenga non superata la soglia di punibilità penale, atteso che l’interdittiva o il dinego di iscrizione dell’impresa nella white list delle varie Prefetture non possono mai essere seriamente e razionalmente considerate atti preventivi di natura cautelare in senso proprio, bensì momenti provvedimentali definitivamente conclusivi del procedimento.

Infatti a ben riflettere, e la sentenza del G.A. di Bologna ne è splendida e lampante riprova, il provvedimento interdittivo in qualunque forma e connotato, allo stato dell’arte venga assunto, non può mai essere considerato atto preventivo di natura cautelare in senso proprio, bensì momento provvedimentale definitivamente conclusivo del procedimento e dissolutorio del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A.

Ne consegue che in ogni caso, come peraltro, più volte, da me con altri scritti ricordato, deve essere garantito il contraddittorio con il soggetto destinatario del provvedimento antimafia; contraddittorio necessario e non eventuale atteso che il doveroso ascolto delle ragioni del soggetto destinatario dell’attività Prefettizia in subiecta materia assume importanza essenziale  ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomentazioni convincenti pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli. Quanto sostenuto, anche in considerazione del fatto che l’effetto del provvedimento interdittivo, così come oggi concepito ed in tantissimi casi giustizialmente non correttamente interpretato, determina la sostanziale condanna a morte dell’impresa senza che, di contro, sussistano il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso.

Ben vengano dunque decisioni come quella del TAR di Bologna, ribadisco ottimamente scritte e concettualmente valide sotto il profilo della qualità giuridica, che permettono di conseguire il solo ed unico fine a cui il Giudice deve tendere che è quello di assicurare giustizia sostanziale.