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La dissonanza di un buon sermone

Le due torri, Bologna
Ph. Marta Stranges / Le due torri, Bologna

Omelie fugaci

Chi di voi, cari lettori, frequenta regolarmente la Santa Messa avrà certamente accumulato una notevole esperienza in fatto di omelie. Anche chi, tuttavia, è più distante da una regolare partecipazione ai sacramenti avrà certamente avuto modo di ascoltare qualche sermone, magari mosso all’attenzione più dalla curiosità che da un vero interesse. In ambedue i casi l’esperienza conseguita è, naturalmente, quella dell’utente, ossia di qualcuno che segue passivamente le argomentazioni proposte nella speranza che queste lo conducano ad una maggiore sapienza. Credo sia importante tenere a mente quest’ultimo concetto per distinguere i due tipi di valutazioni possibili: da un lato l’ascoltatore può considerare, sia a livello soggettivo che oggettivo, l’efficacia di ciò che ha ascoltato nel produrre in lui l’effetto desiderato; dall’altro l’omileta può esprimere un giudizio sulla qualità tecnica dell’omelia ponendosi dal punto di vista di chi la produce.

Sulla base di questa distinzione posso dirvi che il punto di vista che più c’interessa in questa sede non è quello dell’omileta, bensì quello del suo ascoltatore. Diciamoci la verità: a fronte delle tante, e spesso ottime, omelie che ascoltiamo, pochissime hanno la capacità di smuovere, anche solo sul momento, il nostro cuore, di condurci davvero di un passo più vicini a Cristo. Anche ammettendo che, molto spesso, la causa di ciò è la stessa disattenzione di noi utenti, corrotti dalla moderna ossessione per la brevitas, credo sia innegabile che una parte della responsabilità ricada anche sugli stessi predicatori. Proviamo ora, con l’aiuto di due santi molto diversi fra loro, ad evidenziare una possibile causa dell’inefficacia di molti sermoni, magari tentando anche di proporre una soluzione.

 

Chi predica in punta di piedi

Santa Teresa di Gesù, nota anche come santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, fu la grande riformatrice, assieme a san Giovanni della Croce, dell’Ordine Carmelitano nel XVI secolo. Fra i suoi numerosi scritti, uno dei più noti ed efficaci nel presentare la complessa personalità di questa monaca è certamente Storia della mia vita, una sorta di autobiografia commissionatale dai suoi direttori spirituali. Il testo, estremamente ricco e non privo di complessità, presenta anche delle sezioni capaci di riflettere la ricca e genuina meditazione personale della santa sui più vari argomenti. Il brano che vorrei proporvi, in connessione al tema sopra esposto, è proprio di questo tipo e ci permette di comprendere come la questione sia tutt’altro che legata esclusivamente alla modernità: «[…], perché il linguaggio della franchezza, oggi, non si usa più. Gli stessi predicatori compongono i loro sermoni in maniera da non urtare nessuno: l’intenzione, certo, sarà buona, e così sarà l’opera, ma in questo modo si corregge ben poca gente. Io mi chiedo: come mai non sono tanti quelli che, in seguito alle prediche, si allontanano dai vizi pubblici? Sapete che cosa penso? Perché i predicatori hanno troppa prudenza. Non ardono follemente di quel gran fuoco d’amor di Dio che ardeva gli apostoli, e così la loro fiamma dà poco calore»[1].

Santa Teresa, mal celando una certa vena polemica, fonda la sua argomentazione su di una semplice proposizione: chi parla con franchezza è capace di correggere i propri ascoltatori, di spingerli ad una vita virtuosa; ora, se l’uomo franco nel parlare è colui che arde d’amore per Dio, allora chi ammorbidisce troppo i propri sermoni può celare, dietro alla prudenza, una certa tiepidezza del cuore. Come vedete le critiche mosse dalla santa spagnola, al di là degli orpelli che cercano d’ingentilirle, sono tanto taglienti quanto gravi: finiscono infatti per affermare che chi davvero ribolle di spirituale passione per il Signore finisce inevitabilmente per porre in secondo piano la sensibilità degli uditori e non esita a diventare per loro, secondo carità, pietra d’inciampo. D’altra parte coloro che invece vivono la propria relazione con Dio con misurata tiepidezza esitano a sacrificare la serenità di chi li ascolta, magari preferendo trasformare il bruciante liquore della Verità in un blando aperitivo.

Questa, potremmo dire, è l’opinione di santa Teresa sull’argomento; appare lecito a questo punto chiedersi se sia da condividere in tutto e per tutto o solo in parte, perlomeno in riferimento al nostro presente. Personalmente credo che dal testo riportato possiamo estrapolare un’intuizione utile a comprendere la situazione attuale: per condurre qualcuno alla conversione è necessario un messaggio capace di scuoterlo. I nostri giorni pongono infatti l’uomo come in una piazza affollata e chiassosa, dove la confusione ed il brusio avvolgono ogni messaggio o avvenimento in un ambiente attutito, quasi uterino. Molte cose, anche importanti, sembra che ci raggiungano da una grande distanza e risuonano al nostro spirito flebili e confuse, incapaci di generare un vero risveglio. Credo quindi che l’uomo di oggi non desideri un Vangelo che aggiunga solo un’ulteriore nota confusa al vociare della sua vita, bensì un annuncio dissonante, capace mettere in allerta il suo cuore.

 

Sconvolti da un panorama

A questo punto tuttavia è forse necessario prevenire un possibile fraintendimento: attuare la dissonanza di cui sopra non significa sovrastare il brusio del mondo, ma produrre una singola, splendida nota discordante dal resto della sua trista melodia. Per uscire dalla metafora, credo che l’omileta non debba gareggiare con il mondo attraverso il volume degli argomenti o l’aggressività dei toni, e questo per due ragioni: primo, perché chi cerca semplicemente di gridare più forte della folla è inevitabilmente destinato alla sconfitta; secondo, perché cercare di porre la dissonanza a livello quantitativo finirà per appiattirne l’originalità in favore della veemenza. Un sermone che sia davvero in grado di ricondurre un’anima alla virtù dovrà quindi risaltare sul vociare del secolo proponendo una prospettiva che sia tanto semplice quanto radicalmente discordante.

Ma come farlo? Non so rispondere alla domanda sul piano retorico e tecnico, né posso tentare di stilare una precisa lista di tematiche e di argomenti utili allo scopo. La sola cosa che posso fare è presentare una prospettiva generale da applicare poi ai singoli casi. Per riuscirvi chiedo aiuto ad un secondo santo, san Gregorio di Nissa, teologo di lingua greca e Padre della Chiesa vissuto nel IV secolo d.C. Egli, commentando un versetto di Qoelet[2] proprio in un’omelia, scrisse: «Ma se, conosciuta la vanità delle cose di quaggiù, l’anima solleva gli occhi al proprio capo, che è il Cristo, come spiega Paolo, allora diviene beata grazie all’acutezza della sua vista, perché ha gli occhi là dove il male non li oscura. […]. Come, infatti, non è possibile che chi è nella luce veda il buio, così non è possibile che chi ha l’occhio in Cristo fissi qualcosa di vano»[3].

Questo testo si basa su di un’analogia che san Gregorio non manca di spiegare: proprio come gli occhi, ossia ciò che consente all’uomo di vedere il mondo, si trovano sul capo, ossia sulla parte più preminente come altezza ed importanza, così lo sguardo dell’anima, cioè la capacità di comprendere con sapienza la realtà, sarà acuto, e quindi capace di verità, solo se si troverà in Cristo, Capo della Chiesa[4]. Il sapiente perciò sarà colui il cui sguardo spirituale sarà posto abbastanza in alto da scorgere la prospettiva stessa di Dio sulle cose.

Questa immagine rivela tutta la sua pregnanza per il nostro discorso se consideriamo che lo stato d’immersione nel brusio del mondo, proprio di moltissimi uomini d’oggi, è accostabile allo stato in cui «[…] la facoltà di percezione e di contemplazione dell’anima è tutta occupata nelle realtà sensibili, (quando cioè, ndr) la natura degli occhi si è trasferita nei talloni e […] perciò rimane nell’incapacità di contemplare le realtà più elevate»[5].

Se consideriamo accettabile questa descrizione della situazione attuale, allora quella prospettiva generale di cui parlavo orienterà il predicatore a comporre un sermone in grado di mostrare, come il lampo di un flash, una scheggia della vista di cui gode il sapiente. Per chi ascolta, per noi poveri utenti, sarà appunto come una nota dissonante, come un raggio improvviso di sole nell’oscurità di una grotta, ossia qualcosa in grado di svegliarci dal sonno, e di soverchiare la nostra grigia realtà non con la forza, ma con la novità della proposta.

Giunti a questo punto forse vi starete chiedendo perché, alla fine, questo discorso dovrebbe interessare noi discepoli cui nessuno chiede di comporre omelie. In fondo, anche prendendo atto di questa realtà e accettandone le conseguenze, non è certo in nostro potere rinfocolare la santa passione di tanti pastori affinché la loro fiamma riesca davvero ad abbagliarci, anche solo per un istante. Ma ecco forse dove si trova l’errore più diffuso, quello cioè che coinvolge il maggior numero di fedeli: pensare che un sermone, anche se riuscito ed accecante, termini il suo viaggio nel cuore di chi direttamente lo sente. Le parole, suscitate nel predicatore dallo Spirito, che sono davvero capaci di elevare il nostro sguardo, fosse solo per un attimo, sono come un raggio di luce che noi, come specchi, riceviamo per trasmettere. Certo quello sguardo fugace che il buon predicatore ci ha fatto gettare sul panorama di Dio non lo riproponiamo nella stessa forma in cui ci è giunto, ma dobbiamo indirizzarlo ai vicini con le parole e sugli amboni che l’infinita varietà della vita ci propone predicando nascosti ma a ben più vaste folle.

In questa prospettiva il nostro sermone, pur avendo differenti parole ed una più sottile poesia, avrà il medesimo fine, e quindi i medesimi ostacoli, di quello del grande predicatore: correggere gli erranti diventando pietra d’inciampo al mondo monotono ed ovattato che credono unico.  

 

[1] Santa Teresa d’Avila, Storia della mia vita (trad. Italo Alighiero Chiusano), San Paolo, Milano 2015, p. 180.

[2] «Gli occhi del sapiente sono sul suo capo, mentre lo stolto cammina nel buio»; Qo 2, 14.

[3] San Gregorio di Nissa, Omelie su Qoelet (trad. Maria Benedetta Artioli), Omelia V, n. 3, ESD e Edizioni san Clemente, Bologna 2011, pp. 285-287.

[4] Cf ivi, n. 3, pp. 283-285.

[5] Ivi, n. 3, p. 285.

Testi consigliati

  • Santa Teresa d’Avila, Storia della mia vita (trad. Italo Alighiero Chiusano), San Paolo, Milano 2015.
  • San Gregorio di Nissa, Omelie su Qoelet (trad. Maria Benedetta Artioli), ESD e Edizioni san Clemente, Bologna 2011.