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La mancata reintegrazione del lavoratore licenziato nel caso di condotta antisindacale accertata in sede giudiziale: eventuali profili d’illiceità penale.

Il tema, che si intende trattare nel presente scritto, è quello di stabilire se, nel caso di mancata reintegrazione del lavoratore licenziato decisa dal Tribunale (anche solo in via provvisoria), il datore di lavoro ne possa rispondere penalmente.

                             

Tale problema si pone soprattutto ove l’azienda non abbia serbato un comportamento meramente omissivo ma abbia adottato - pur non ottemperando a quanto statuito dal provvedimento giudiziale - una serie di decisioni favorevoli al lavoratore quali:

1)garantirgli comunque il salario;

2)offrirgli una struttura separata (e distante) dalla fabbrica ove poter svolgere “attività sindacale”.

 

Orbene, in via preliminare, lo scrivente osserva come il fatto potrebbe essere in linea teorica ricondotto sotto la figura di reato prevista art. 388, co. I, c.p. perché, lo stesso Supremo Consesso, ha reputato possibile configurare, nei casi di inadempimento del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del lavoratore, l’ipotesi delittuosa succitata “sempre che sussistano gli elementi della condotta tipica”[1].

 

Dopo siffatta premessa, si fa presente innanzitutto che detta norma, così com’è stata modificata dalla legge n. 94 del 2009, stabilisce che chiunque, “per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032”.

 

L’illecito penale in esame, quindi, si connota, sotto il profilo oggettivo, per la presenza di azioni alternative poiché è richiesto che il soggetto attivo del reato, al fine di “sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa”, compia  - o uno o l’altro dei - seguenti comportamenti:

1)il compimento “sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti”;

2)la realizzazione di altri “fatti fraudolenti” diretti “allo stesso scopo”[2].

 

Lo scopo della norma, infatti, è quello di sanzionare “i comportamenti destinati a precostituire una situazione di ineseguibilità della decisione giudiziaria”[3] al fine di garantire la “effettività della tutela giurisdizionale”[4].

 

Ebbene, esaminando la ipotesi summenzionata, appare configurabile in astratto la condotta di cui al punto n. 2 giacchè il datore di lavoro, collocando il sottoposto in un locale distante dal luogo di lavoro e senza concedere a quest’ultimo di lavorare con i colleghi, impedirebbe al medesimo di poter esercitare compiutamente un’ “attività sindacale”.

 

Tuttavia, per reputare integrata la fattispecie penale de qua, è altresì necessario verificare se, il modo di comportarsi appena esposto, sia qualificabile anche in concreto tra i “fatti fraudolenti” menzionati nell’art. 388, co. I, c.p. .

 

Al fine di fornire a tale quesito una risposta esauriente, è necessario far presente sin d’ora che, dottrina e giurisprudenza, intendono il concetto di “frode” non solo nel senso di “comportamento fraudolento” ma anche di “malafede nell’esecuzione del contratto” (sempreché tale “malam fidem” sia finalizzata ad ottenere un “ingiusto profitto”).

 

Il “nodo gordiano” da dirimere nel caso di specie, di conseguenza, è quello di appurare se:

1) si possa “parlare” appunto di “malafede contrattuale”;

2) sussista un “ingiusto profitto” ottenuto dall’azienda con questi comportamenti.

 

Procedendo per gradi, per il primo punto, si osserva che la “giurisprudenza di legittimità penale”, pur trattando un reato diverso da quello in esame (ovvero il delitto previsto dall’art. 356 c.p.), ha avuto tuttavia modo di precisare che la “malafede contrattuale” richiede “la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tale da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”[5].

 

Dunque, l’azienda, pur impegnandosi a corrispondere il salario pattuito al lavoratore, non sembra adempiere, con i contegni suindicati, l’obbligo di rispettare la “libertà sindacale”.

 

Difatti, non si vede come un sindacalista, messo in condizione di non lavorare in quanto licenziato, possa svolgere pienamente siffatta attività in seno al sito ove svolgeva le mansioni per le quali era stato assunto (e nei confronti del quale gli è inibito l’accesso).

 

Considerazioni di ordine “esegetico – testuale” militano a sostegno di quest’assunto.

 

Infatti, la legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei diritti dei lavoratori) contempla, tra le “libertà sindacali” (titolo secondo), non solo il diritto di “associazione e di attività sindacale” (art. 14) e quello del divieto di “atti discriminatori” (art. 15) ma anche la “pretesa giuridica” di essere reintegrato “nel posto di lavoro” nel caso di licenziamento “senza giusta causa” o “senza un giustificato motivo” (art. 18).

 

Si osserva peraltro come la “giurisprudenza civile” abbia avuto modo di evidenziare il legame inscindibile tra “licenziamento” e “condotta antisindacale” giacchè il primo fatto indubbiamente si “riverbera” sul secondo.

 

La Cassazione, invero, in una specifica occasione, nel reputare le argomentazioni svolte dal giudice di merito “logiche e rispettose dei principi vigenti in materia”[6] ha “di fatto” (e quindi anche “di diritto”) recepito quanto sostenuto da quest’organo giudicante nel seguente modo: un licenziamento, adottato in assenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo”, assume “un significato probante della esistenza di una condotta volta a limitare in maniera diretta ed incisiva l’esercizio dell’attività sindacale attraverso l’atto finale del licenziamento del suo dipendente”[7].

 

Il fatto che il licenziamento ingiustificato assuma una rilevanza decisiva  ai fini dell’accertamento della “condotta antisindacale”, trova per di più conferma anche sotto il profilo “procedurale” poiché gli “ermellini” hanno posto l’accento sul fatto che il “licenziamento determinato da motivi sindacali, è idoneo a ledere l’interesse collettivo alla libertà ed all’attività sindacale, risultando perciò perseguibile dal sindacato con il procedimento previsto dall’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300” [8].

 

Da quanto appena esposto consegue la violazione del principio della “correttezza contrattuale” talché, con le azioni suesposte, si “maschera” una chiara compressione dell’esercizio della “libertà sindacale”.

 

Una volta appurata l’esistenza di una condotta non conforme ai principi di “buona fede contrattuale”, quindi, occorre verificare il secondo punto suesposto ovvero, come già enunciato, l’esistenza di un “ingiusto profitto”.

 

Una prima considerazione, che sembrerebbe propendere versa una risposta negativa alla domanda formulata nel presente scritto, deriva dal fatto che l’azienda si è comunque impegnata a pagare il lavoratore e quindi non vi sarebbe alcun “ingiusto profitto” di natura “patrimoniale”.

 

Sennonché il Supremo Consesso ha ritenuto sussistente l’ “ingiustizia del profitto” anche in assenza di benefici di ordine prettamente economico.

 

Ad esempio, in tema di “estorsione”, gli “Ermellini” hanno affermato infatti che “l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso”[9].

 

Ebbene, sicuramente impedire a taluno di esercitare, soprattutto nei periodi di forte conflitto sociale, l’ “attività sindacale” direttamente in fabbrica e non in un posto separato da essa, rappresenta indubbiamente un “vantaggio” per l’azienda qualificabile nei seguenti termini: minor rischio che possano essere indetti scioperi da parte delle organizzazioni sindacali meno propense ad accettare le scelte imprenditoriali che, in un periodo di recessione, potrebbero essere compiute.

 

Si vengono a evitare in questa maniera anche quei costi economici che possono essere provocati da frequenti e ripetute astensioni collettive dal lavoro.

 

Infine, la norma in esame, sarebbe applicabile anche laddove il provvedimento giudiziario emesso non fosse la sentenza definitiva di condanna ma solo una decisione interlocutoria come può essere, ad esempio, il decreto adottato ai sensi del comma I dell’art. 28 Stat. Lav. .

 

La legge n. 94 del 2009, difatti, ha sostituito il primo comma dell’art. 388 c.p. sostituendo l’inciso “sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da una sentenza di condanna” con la seguente locuzione: “per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria”.

 

Si è venuta in tal guisa ad ampliare il novero dei provvedimenti  la cui violazione, determina la configurazione del reato “de quo”.

 

Da ciò discende che anche il provvedimento con il quale il giudice del lavoro ordina, in via provvisoria, “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti” (ex art. 28, co. I, legge n. 300 del 1970) costituisce una decisione, la cui inosservanza, potrà essere sanzionata ai sensi dell’art. 388, co. I, c.p. .

 

In via gradata, il fatto suesposto può essere qualificato comunque nel reato contravvenzionale previsto dall’art. 650 c.p. .

 

A sostegno di questa soluzione, vi è il chiaro “tenore letterale” dell’art. 28, co. IV, legge n. 300 del 1970  il quale difatti espressamente statuisce che il “datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma (ovvero il provvedimento con cui si reprime la condotta antisindacale ndr.), o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale”.

 

Per di più, anche nell’ipotesi in cui l’azienda si impegnasse a retribuire il lavoratore laddove questi non eserciti le sue mansioni, non verrebbe tuttavia meno la contravvenzione de qua perché, secondo quanto enunciato “in sede di legittimità”, nel “caso in cui il pretore abbia intimato al datore di lavoro, con decreto emesso ai sensi dell’art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), l’immediata reintegra del dipendente licenziato nel suo posto  di lavoro, commette il reato previsto dall’art. 28 cit. e punito dall’art. 650 cod. pen. il datore di lavoro medesimo che, pur corrispondendo la retribuzione, inibisca al lavoratore l’ingresso al luogo del lavoro e qualsiasi intervento nell’attività dell’impresa. Infatti, la sola retribuzione non può ritenersi equivalente alla reintegrazione, dato che i diritti dei lavoratori ed i corrispondenti obblighi del datore di lavoro non si risolvono nell’unica pretesa della retribuzione, essendo garantiti al lavoratore anche ulteriori diritti (artt. 12, 14, 20 legge citata)”[10].

 

Del resto, a conferma di quanto illustrato in questo breve libello, v’è una recente decisione con la quale la Suprema Corte di Cassazione, sez. lavoro, partendo dal presupposto secondo cui reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro “ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, significa "restituire in integro" la relazione del lavoratore col "posto di lavoro", in ogni suo profilo, anche non retributivo”[11], è pervenuta alla conclusione secondo la quale “non ottempera all’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, e deve pagare la sanzione al Fondo adeguamento pensioni ex art. 18, comma 10, stat. lav., l’imprenditore il quale, facendo leva sull’incoercibilità specifica dell’ordine medesimo, si limiti a versare al lavoratore la retribuzione e a consentirgli l’ingresso in azienda per lo svolgimento dell’attività sindacale, senza permettergli, tuttavia, di riprendere il lavoro”[12].

 

In conclusione, lo scrivente ritiene che, nel caso di sentenza emessa dal giudice del lavoro con la quale venga accertata una “condotta antisindacale”, il mancato reintegro del lavoratore licenziato indubbiamente rappresenta una violazione della suddetta decisione e quindi ciò comporta inevitabilmente delle conseguenze penali.

 

Il fatto potrà essere qualificato come “mancata esecuzione del provvedimento del giudice” o, come “inosservanza di un provvedimento emesso dalla pubblica autorità”,  a seconda di come, l’organo requirente, vorrà qualificare una fattispecie di tal tipo.

 

[1] Cass. pen., sez. VI, 20 maggio 1992, n. 6024 ( 3 aprile 1992) Ric. Termini.

 

 [2] Sul versante psicologico, invece, non è sufficiente il dolo generico essendo necessario che sussista quello specifico [Cass. pen., sez. VI, 1 dicembre 1989, n. 16817 ( 19 settembre 1989) Ric. Martino: “L’art. 388 cod. pen. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) prevede nella prima parte concernente la mancata esecuzione degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna il compimento di atti fraudolenti, diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi: occorre, cioè, un comportamento attivo e commissivo, contrassegnato dal dolo specifico; mentre solo nella seconda parte della stessa norma che contempla l’elusione del provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento dei minori o di altri incapaci, ovvero misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito la condotta del reo è libera, essendo sufficiente ad integrare il reato il semplice dolo  generico e, cioè, la coscienza e volontà di disobbedire al provvedimento del giudice”. In senso conforme Cass. pen., sez. VI, 25 agosto 1986, n. 8528 ( 27 febbraio 1986) Ric. Grippaldi: “L’art. 388 del codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) prevede, nella prima parte, il compimento di atti fraudolenti volti a non dare adempimento agli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna e, nella seconda, la elusione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori o di altri incapaci, ovvero misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito. Trattasi di due distinte ipotesi (anche se il bene tutelato comune ad entrambe è l’autorità delle decisioni giudiziarie): nella prima occorre un comportamento attivo e commissivo, contrassegnato dal dolo  specifico, mentre nella seconda la condotta del reo è libera ed è sufficiente ad integrare la previsione criminosa il semplice dolo generico, cioè la coscienza e la volontà di disobbedire al provvedimento del giudice”].

 

 [3]Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 37823 ( 27 settembre 2007). Pres. Lupo - Est. Nappi - P.M. Palombarini (diff.) - Ric. Vuocolo.

 

[4] Ibidem.

 

[5]Cass. pen., sez. VI, 26 luglio 2006, n. 26231 ( 12 aprile 2006) Ric. Cento. In senso conforme Cass. pen., sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36567 ( 9 maggio 2001) Ric. Nervoso P. ed altro: “In tema di frode nelle pubbliche forniture, il semplice inadempimento del contratto non integra il reato di cui all’art. 356 c.p., richiedendo quest’ultimo un quid pluris, cioè la malafede contrattuale e dunque la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tale da far apparire, l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”.

 

[6]Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2003, n. 1684 Pres. SPADONE Mario - Est. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio - P.M. Illeggibile - Ric. Associazione Anni Verdi - c. Federazione Funzione Pubblica CGIL.

 

[7]Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2003, n. 1684 Pres. SPADONE Mario - Est. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio - P.M. Illeggibile - Ric. Associazione Anni Verdi - c. Federazione Funzione Pubblica CGIL. In senso conforme, argomentando “a contrario”, vedasi Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2004, n. 5815 Ric. Oerlikon Contraves Spa - c. F.L.M.U. C.U.B.: “Non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, il licenziamento di rappresentanti sindacali che si ponga come reazione causale al comportamento scorretto e riprovevole di questi ultimi, consistito nell’aggressione di un altro lavoratore, poiché tale comportamento determina la violazione degli obblighi legali e contrattuali connessi al rapporto di lavoro ed alla pacifica convivenza fra lavoratori nella vita dell’azienda; né può rilevare, a tali fini, l’esistenza di un conflitto sindacale in corso, posto che l’esercizio dell’azione sindacale soggiace comunque al limite esterno della impossibilità di tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari garantiti in modo assoluto, come quello alla vita e all’incolumità personale”.

 

[8]Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2005, n. 09950 Ric. Folgore Srl - c. Uiltucs Uil.

 

[9]Cass. pen., sez. II, 22 aprile 2008, n. 16658 ( 31 marzo 2008) Ric. Colucci e altro.

 

[10]Cass. pen., sez. I, 22 febbraio 1990, n. 2514 ( 12 maggio 1989) Ric. Jacquin. In senso conforme Cass. pen., sez. III, 23 maggio 1978, n. 6216 ( 25 novembre 1977) Ric. Grazia: “Con l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori si è istituito un particolare procedimento, inquadrato nello spirito della normativa della legge che lo ha istituito, che consente al pretore di individuare e reprimere il comportamento antisindacale del datore di lavoro, rinnovandone gli effetti. Tale provvedimento, del tutto particolare, rientra nell’ambito dei provvedimenti interdittali, diretti all’immediata tutela dell’interesse che si ritiene violato. La ratio dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori che, punendo il datore di lavoro che non ottemperi al decreto del pretore che ordini la cessazione della condotta antisindacale, richiama la sanzione dell’art. 650 c.p., deve essere individuata nell’intento di sprivatizzare i rapporti di lavoro, attribuendo ad essi una dimensione pubblicistica. E siccome l’art. 650 appresta tutela ai provvedimenti dati per ragione di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico o d’igiene, e il legislatore ha voluto inquadrare il decreto pretorile in una di tali categorie, il provvedimento del pretore deve intendersi come una attività di giustizia che richiede un’immediata esecuzione, e soprattutto come una attività di interesse pubblico, rispetto alla quale cede l’interesse del singolo o dei gruppi che a tale procedura abbiano fatto ricorso. Da ciò deriva l’indisponibilità del rapporto di obbligo che il provvedimento crea nei confronti dei singoli soggetti. (Fattispecie in cui la Suprema Corte ha censurato la decisione del tribunale che, in sede d’appello, ha ritenuto che l’accordo intercorso tra le parti rendesse praticamente inefficace il provvedimento pretorile nella parte relativa alle retribuzioni non corrisposte)”.

 

[11] Cass. civ., sez. lav., 18/06/12, n. 9965.

 

[12] Ibidem.

 

 

Il tema, che si intende trattare nel presente scritto, è quello di stabilire se, nel caso di mancata reintegrazione del lavoratore licenziato decisa dal Tribunale (anche solo in via provvisoria), il datore di lavoro ne possa rispondere penalmente.

                             

Tale problema si pone soprattutto ove l’azienda non abbia serbato un comportamento meramente omissivo ma abbia adottato - pur non ottemperando a quanto statuito dal provvedimento giudiziale - una serie di decisioni favorevoli al lavoratore quali:

1)garantirgli comunque il salario;

2)offrirgli una struttura separata (e distante) dalla fabbrica ove poter svolgere “attività sindacale”.

 

Orbene, in via preliminare, lo scrivente osserva come il fatto potrebbe essere in linea teorica ricondotto sotto la figura di reato prevista art. 388, co. I, c.p. perché, lo stesso Supremo Consesso, ha reputato possibile configurare, nei casi di inadempimento del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del lavoratore, l’ipotesi delittuosa succitata “sempre che sussistano gli elementi della condotta tipica”[1].

 

Dopo siffatta premessa, si fa presente innanzitutto che detta norma, così com’è stata modificata dalla legge n. 94 del 2009, stabilisce che chiunque, “per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032”.

 

L’illecito penale in esame, quindi, si connota, sotto il profilo oggettivo, per la presenza di azioni alternative poiché è richiesto che il soggetto attivo del reato, al fine di “sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa”, compia  - o uno o l’altro dei - seguenti comportamenti:

1)il compimento “sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti”;

2)la realizzazione di altri “fatti fraudolenti” diretti “allo stesso scopo”[2].

 

Lo scopo della norma, infatti, è quello di sanzionare “i comportamenti destinati a precostituire una situazione di ineseguibilità della decisione giudiziaria”[3] al fine di garantire la “effettività della tutela giurisdizionale”[4].

 

Ebbene, esaminando la ipotesi summenzionata, appare configurabile in astratto la condotta di cui al punto n. 2 giacchè il datore di lavoro, collocando il sottoposto in un locale distante dal luogo di lavoro e senza concedere a quest’ultimo di lavorare con i colleghi, impedirebbe al medesimo di poter esercitare compiutamente un’ “attività sindacale”.

 

Tuttavia, per reputare integrata la fattispecie penale de qua, è altresì necessario verificare se, il modo di comportarsi appena esposto, sia qualificabile anche in concreto tra i “fatti fraudolenti” menzionati nell’art. 388, co. I, c.p. .

 

Al fine di fornire a tale quesito una risposta esauriente, è necessario far presente sin d’ora che, dottrina e giurisprudenza, intendono il concetto di “frode” non solo nel senso di “comportamento fraudolento” ma anche di “malafede nell’esecuzione del contratto” (sempreché tale “malam fidem” sia finalizzata ad ottenere un “ingiusto profitto”).

 

Il “nodo gordiano” da dirimere nel caso di specie, di conseguenza, è quello di appurare se:

1) si possa “parlare” appunto di “malafede contrattuale”;

2) sussista un “ingiusto profitto” ottenuto dall’azienda con questi comportamenti.

 

Procedendo per gradi, per il primo punto, si osserva che la “giurisprudenza di legittimità penale”, pur trattando un reato diverso da quello in esame (ovvero il delitto previsto dall’art. 356 c.p.), ha avuto tuttavia modo di precisare che la “malafede contrattuale” richiede “la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tale da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”[5].

 

Dunque, l’azienda, pur impegnandosi a corrispondere il salario pattuito al lavoratore, non sembra adempiere, con i contegni suindicati, l’obbligo di rispettare la “libertà sindacale”.

 

Difatti, non si vede come un sindacalista, messo in condizione di non lavorare in quanto licenziato, possa svolgere pienamente siffatta attività in seno al sito ove svolgeva le mansioni per le quali era stato assunto (e nei confronti del quale gli è inibito l’accesso).

 

Considerazioni di ordine “esegetico – testuale” militano a sostegno di quest’assunto.

 

Infatti, la legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei diritti dei lavoratori) contempla, tra le “libertà sindacali” (titolo secondo), non solo il diritto di “associazione e di attività sindacale” (art. 14) e quello del divieto di “atti discriminatori” (art. 15) ma anche la “pretesa giuridica” di essere reintegrato “nel posto di lavoro” nel caso di licenziamento “senza giusta causa” o “senza un giustificato motivo” (art. 18).

 

Si osserva peraltro come la “giurisprudenza civile” abbia avuto modo di evidenziare il legame inscindibile tra “licenziamento” e “condotta antisindacale” giacchè il primo fatto indubbiamente si “riverbera” sul secondo.

 

La Cassazione, invero, in una specifica occasione, nel reputare le argomentazioni svolte dal giudice di merito “logiche e rispettose dei principi vigenti in materia”[6] ha “di fatto” (e quindi anche “di diritto”) recepito quanto sostenuto da quest’organo giudicante nel seguente modo: un licenziamento, adottato in assenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo”, assume “un significato probante della esistenza di una condotta volta a limitare in maniera diretta ed incisiva l’esercizio dell’attività sindacale attraverso l’atto finale del licenziamento del suo dipendente”[7].

 

Il fatto che il licenziamento ingiustificato assuma una rilevanza decisiva  ai fini dell’accertamento della “condotta antisindacale”, trova per di più conferma anche sotto il profilo “procedurale” poiché gli “ermellini” hanno posto l’accento sul fatto che il “licenziamento determinato da motivi sindacali, è idoneo a ledere l’interesse collettivo alla libertà ed all’attività sindacale, risultando perciò perseguibile dal sindacato con il procedimento previsto dall’art. 28 della legge 20 maggio 1970 n. 300” [8].

 

Da quanto appena esposto consegue la violazione del principio della “correttezza contrattuale” talché, con le azioni suesposte, si “maschera” una chiara compressione dell’esercizio della “libertà sindacale”.

 

Una volta appurata l’esistenza di una condotta non conforme ai principi di “buona fede contrattuale”, quindi, occorre verificare il secondo punto suesposto ovvero, come già enunciato, l’esistenza di un “ingiusto profitto”.

 

Una prima considerazione, che sembrerebbe propendere versa una risposta negativa alla domanda formulata nel presente scritto, deriva dal fatto che l’azienda si è comunque impegnata a pagare il lavoratore e quindi non vi sarebbe alcun “ingiusto profitto” di natura “patrimoniale”.

 

Sennonché il Supremo Consesso ha ritenuto sussistente l’ “ingiustizia del profitto” anche in assenza di benefici di ordine prettamente economico.

 

Ad esempio, in tema di “estorsione”, gli “Ermellini” hanno affermato infatti che “l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso”[9].

 

Ebbene, sicuramente impedire a taluno di esercitare, soprattutto nei periodi di forte conflitto sociale, l’ “attività sindacale” direttamente in fabbrica e non in un posto separato da essa, rappresenta indubbiamente un “vantaggio” per l’azienda qualificabile nei seguenti termini: minor rischio che possano essere indetti scioperi da parte delle organizzazioni sindacali meno propense ad accettare le scelte imprenditoriali che, in un periodo di recessione, potrebbero essere compiute.

 

Si vengono a evitare in questa maniera anche quei costi economici che possono essere provocati da frequenti e ripetute astensioni collettive dal lavoro.

 

Infine, la norma in esame, sarebbe applicabile anche laddove il provvedimento giudiziario emesso non fosse la sentenza definitiva di condanna ma solo una decisione interlocutoria come può essere, ad esempio, il decreto adottato ai sensi del comma I dell’art. 28 Stat. Lav. .

 

La legge n. 94 del 2009, difatti, ha sostituito il primo comma dell’art. 388 c.p. sostituendo l’inciso “sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da una sentenza di condanna” con la seguente locuzione: “per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria”.

 

Si è venuta in tal guisa ad ampliare il novero dei provvedimenti  la cui violazione, determina la configurazione del reato “de quo”.

 

Da ciò discende che anche il provvedimento con il quale il giudice del lavoro ordina, in via provvisoria, “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti” (ex art. 28, co. I, legge n. 300 del 1970) costituisce una decisione, la cui inosservanza, potrà essere sanzionata ai sensi dell’art. 388, co. I, c.p. .

 

In via gradata, il fatto suesposto può essere qualificato comunque nel reato contravvenzionale previsto dall’art. 650 c.p. .

 

A sostegno di questa soluzione, vi è il chiaro “tenore letterale” dell’art. 28, co. IV, legge n. 300 del 1970  il quale difatti espressamente statuisce che il “datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma (ovvero il provvedimento con cui si reprime la condotta antisindacale ndr.), o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale”.

 

Per di più, anche nell’ipotesi in cui l’azienda si impegnasse a retribuire il lavoratore laddove questi non eserciti le sue mansioni, non verrebbe tuttavia meno la contravvenzione de qua perché, secondo quanto enunciato “in sede di legittimità”, nel “caso in cui il pretore abbia intimato al datore di lavoro, con decreto emesso ai sensi dell’art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), l’immediata reintegra del dipendente licenziato nel suo posto  di lavoro, commette il reato previsto dall’art. 28 cit. e punito dall’art. 650 cod. pen. il datore di lavoro medesimo che, pur corrispondendo la retribuzione, inibisca al lavoratore l’ingresso al luogo del lavoro e qualsiasi intervento nell’attività dell’impresa. Infatti, la sola retribuzione non può ritenersi equivalente alla reintegrazione, dato che i diritti dei lavoratori ed i corrispondenti obblighi del datore di lavoro non si risolvono nell’unica pretesa della retribuzione, essendo garantiti al lavoratore anche ulteriori diritti (artt. 12, 14, 20 legge citata)”[10].

 

Del resto, a conferma di quanto illustrato in questo breve libello, v’è una recente decisione con la quale la Suprema Corte di Cassazione, sez. lavoro, partendo dal presupposto secondo cui reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro “ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, significa "restituire in integro" la relazione del lavoratore col "posto di lavoro", in ogni suo profilo, anche non retributivo”[11], è pervenuta alla conclusione secondo la quale “non ottempera all’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, e deve pagare la sanzione al Fondo adeguamento pensioni ex art. 18, comma 10, stat. lav., l’imprenditore il quale, facendo leva sull’incoercibilità specifica dell’ordine medesimo, si limiti a versare al lavoratore la retribuzione e a consentirgli l’ingresso in azienda per lo svolgimento dell’attività sindacale, senza permettergli, tuttavia, di riprendere il lavoro”[12].

 

In conclusione, lo scrivente ritiene che, nel caso di sentenza emessa dal giudice del lavoro con la quale venga accertata una “condotta antisindacale”, il mancato reintegro del lavoratore licenziato indubbiamente rappresenta una violazione della suddetta decisione e quindi ciò comporta inevitabilmente delle conseguenze penali.

 

Il fatto potrà essere qualificato come “mancata esecuzione del provvedimento del giudice” o, come “inosservanza di un provvedimento emesso dalla pubblica autorità”,  a seconda di come, l’organo requirente, vorrà qualificare una fattispecie di tal tipo.

 

[1] Cass. pen., sez. VI, 20 maggio 1992, n. 6024 ( 3 aprile 1992) Ric. Termini.

 

 [2] Sul versante psicologico, invece, non è sufficiente il dolo generico essendo necessario che sussista quello specifico [Cass. pen., sez. VI, 1 dicembre 1989, n. 16817 ( 19 settembre 1989) Ric. Martino: “L’art. 388 cod. pen. (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) prevede nella prima parte concernente la mancata esecuzione degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna il compimento di atti fraudolenti, diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi: occorre, cioè, un comportamento attivo e commissivo, contrassegnato dal dolo specifico; mentre solo nella seconda parte della stessa norma che contempla l’elusione del provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento dei minori o di altri incapaci, ovvero misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito la condotta del reo è libera, essendo sufficiente ad integrare il reato il semplice dolo  generico e, cioè, la coscienza e volontà di disobbedire al provvedimento del giudice”. In senso conforme Cass. pen., sez. VI, 25 agosto 1986, n. 8528 ( 27 febbraio 1986) Ric. Grippaldi: “L’art. 388 del codice penale (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) prevede, nella prima parte, il compimento di atti fraudolenti volti a non dare adempimento agli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna e, nella seconda, la elusione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori o di altri incapaci, ovvero misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito. Trattasi di due distinte ipotesi (anche se il bene tutelato comune ad entrambe è l’autorità delle decisioni giudiziarie): nella prima occorre un comportamento attivo e commissivo, contrassegnato dal dolo  specifico, mentre nella seconda la condotta del reo è libera ed è sufficiente ad integrare la previsione criminosa il semplice dolo generico, cioè la coscienza e la volontà di disobbedire al provvedimento del giudice”].

 

 [3]Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 37823 ( 27 settembre 2007). Pres. Lupo - Est. Nappi - P.M. Palombarini (diff.) - Ric. Vuocolo.

 

[4] Ibidem.

 

[5]Cass. pen., sez. VI, 26 luglio 2006, n. 26231 ( 12 aprile 2006) Ric. Cento. In senso conforme Cass. pen., sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36567 ( 9 maggio 2001) Ric. Nervoso P. ed altro: “In tema di frode nelle pubbliche forniture, il semplice inadempimento del contratto non integra il reato di cui all’art. 356 c.p., richiedendo quest’ultimo un quid pluris, cioè la malafede contrattuale e dunque la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, tale da far apparire, l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti”.

 

[6]Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2003, n. 1684 Pres. SPADONE Mario - Est. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio - P.M. Illeggibile - Ric. Associazione Anni Verdi - c. Federazione Funzione Pubblica CGIL.

 

[7]Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2003, n. 1684 Pres. SPADONE Mario - Est. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio - P.M. Illeggibile - Ric. Associazione Anni Verdi - c. Federazione Funzione Pubblica CGIL. In senso conforme, argomentando “a contrario”, vedasi Cass. civ., sez. lav., 23 marzo 2004, n. 5815 Ric. Oerlikon Contraves Spa - c. F.L.M.U. C.U.B.: “Non è configurabile come antisindacale, ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, il licenziamento di rappresentanti sindacali che si ponga come reazione causale al comportamento scorretto e riprovevole di questi ultimi, consistito nell’aggressione di un altro lavoratore, poiché tale comportamento determina la violazione degli obblighi legali e contrattuali connessi al rapporto di lavoro ed alla pacifica convivenza fra lavoratori nella vita dell’azienda; né può rilevare, a tali fini, l’esistenza di un conflitto sindacale in corso, posto che l’esercizio dell’azione sindacale soggiace comunque al limite esterno della impossibilità di tradursi in atti pregiudizievoli di fondamentali diritti del pari garantiti in modo assoluto, come quello alla vita e all’incolumità personale”.

 

[8]Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2005, n. 09950 Ric. Folgore Srl - c. Uiltucs Uil.

 

[9]Cass. pen., sez. II, 22 aprile 2008, n. 16658 ( 31 marzo 2008) Ric. Colucci e altro.

 

[10]Cass. pen., sez. I, 22 febbraio 1990, n. 2514 ( 12 maggio 1989) Ric. Jacquin. In senso conforme Cass. pen., sez. III, 23 maggio 1978, n. 6216 ( 25 novembre 1977) Ric. Grazia: “Con l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori si è istituito un particolare procedimento, inquadrato nello spirito della normativa della legge che lo ha istituito, che consente al pretore di individuare e reprimere il comportamento antisindacale del datore di lavoro, rinnovandone gli effetti. Tale provvedimento, del tutto particolare, rientra nell’ambito dei provvedimenti interdittali, diretti all’immediata tutela dell’interesse che si ritiene violato. La ratio dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori che, punendo il datore di lavoro che non ottemperi al decreto del pretore che ordini la cessazione della condotta antisindacale, richiama la sanzione dell’art. 650 c.p., deve essere individuata nell’intento di sprivatizzare i rapporti di lavoro, attribuendo ad essi una dimensione pubblicistica. E siccome l’art. 650 appresta tutela ai provvedimenti dati per ragione di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico o d’igiene, e il legislatore ha voluto inquadrare il decreto pretorile in una di tali categorie, il provvedimento del pretore deve intendersi come una attività di giustizia che richiede un’immediata esecuzione, e soprattutto come una attività di interesse pubblico, rispetto alla quale cede l’interesse del singolo o dei gruppi che a tale procedura abbiano fatto ricorso. Da ciò deriva l’indisponibilità del rapporto di obbligo che il provvedimento crea nei confronti dei singoli soggetti. (Fattispecie in cui la Suprema Corte ha censurato la decisione del tribunale che, in sede d’appello, ha ritenuto che l’accordo intercorso tra le parti rendesse praticamente inefficace il provvedimento pretorile nella parte relativa alle retribuzioni non corrisposte)”.

 

[11] Cass. civ., sez. lav., 18/06/12, n. 9965.

 

[12] Ibidem.