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La mancata valutazione circa le ragioni che hanno portato a escludere rilievo alla prove assunte dalla parte ricorrente come motivo di annullamento del provvedimento impugnato

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Sesta, Sentenza VI, 23 aprile 2012, n. 15701

La sentenza in esame è di notevole pregio scientifico perché involge la vexata quaestio inerente la mancata valutazione delle doglianze prospettate in sede di gravame.

Il nodo gordiano da dirimere in casi di questo tipo, infatti, è quello di stabilire come ed in che termini ricorra la violazione dell’obbligo di motivazione nel caso in cui una censura difensiva non venga accolta o meglio, venga semplicemente non valutata.

Com’è noto, l’art. 546, co. I, lett. e), c.p.p. prevede che, tra i requisiti costitutivi di una decisione, vi deve essere quello di enunciare le “ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”.

D’altro canto, tale norma giuridica non è l’unica che impone un dovere di questo genere posto che l’“obbligo della motivazione trova puntuale specificazione in varie disposizioni del codice di procedura penale” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

Tra tali regole, vale la pena di segnalare l’art. 125, co. II, c.p.p. il quale stabilisce che “le sentenze, le ordinanze e, nei casi previsti dalla legge, i decreti devono essere motivati, a pena di nullità” nonché l’art. 292 c.p.p. che, a sua volta, prevede che, nella motivazione del provvedimento genetico delle misure cautelari, devono essere esposte rispettivamente le “specifiche esigenze cautelari”, gli “indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato” (art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.), i “motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa” (art. 292 comma 2 lett. c-bis, c.p.p.), nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, le “concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure” (art. 292 comma 2 lett. c- bis, c.p.p.) (fermo restando quanto statuito dall’art. 275, co. III, c.p.p.).

Inoltre, alle disposizioni esaminate è strettamente correlata quella di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. che, “comprendendo tra i motivi di ricorso per Cassazione la «mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato», ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il giudice quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

D’altronde anche altra dottrina, a sua volta, evidenzia che “se è certo che l’obbligo della motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi princìpi, onde è senz’altro giustificata l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo di motivazione è considerata come corollario del principio di legalità sancito dall’art. 101 comma 2, e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa dall’art. 111” Cost. (DENTI, La magistratura. Norme sulla giurisdizione, sub art. 111, in Commentario della Costituzione a cura di Branca, 1987, p. 5 s.).

Dopo siffatta doverosa premessa, corre l’obbligo di precisare che la Corte di Cassazione, in numerose pronunce, ha dato un’interpretazione piuttosto lata sull’estensione applicativa di tale obbligo.

Infatti, l’orientamento prevalente in subiecta materia è quello secondo cui non sarebbe fondata la denuncia di carenza della motivazione della sentenza argomentata se il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, disattendo per contro implicitamente quelle contrarie perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate (tra le più recenti: Cass. pen., sez. IV, 23 giugno 2011, n. 27741).

In altri termini, secondo questo indirizzo interpretativo, il giudice di merito non sarebbe tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali “essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. pen., sez. IV, 23 giugno 2011, n. 27741).

Ciò premesso, tale filone nomofilattico sembra disattendere quel principio fondamentale espresso nel nostro ordinamento costituzionale dall’art. 111, co. VI, Cost. secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

Peraltro, il fatto che il giudicante abbia l’obbligo di motivare dando contezza delle ragioni per le quali non stima condivisibili le considerazioni prospettate da una delle parti (e quindi da non accogliere) sembra trapelare anche dalla giurisprudenza comunitaria.

In effetti, in diverse decisioni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, affinchè possano reputarsi celebrato un giusto processo, occorre che vi sia una motivazione reale e non apparente (Alija c. Grecia, 7 aprile 2005; Gorou c. Grecia, 11 gennaio 2007; Markoulaki c. Grecia, 26 luglio 2007) posto che, laddove per legge sia previsto l’obbligo di motivare, è onere dell’organo giurisdizionale (che ha emesso il provvedimento) “spiegare dettagliatamente le ragioni della sua scelta” (argomentando a contrario: Corte EDU, 20/03/09, Gorou c. Grecia).

Ebbene, anche in riferimento a questa ermeneutica sovranazionale, va da sé che, come già esposto in precedenza, una interpretazione che ignori quanto esposto all’interno di un gravame sembra tramutarsi in una motivazione apparente dato che, la precipua spiegazione sui motivi di una opzione decisoria implica, a rigor di logica, una previa valutazione di quanto prospettato da entrambi le parti.

Ed allora, a fronte di tale orientamento interpretativo, è maggiormente condivisibile, in quanto aderente al dettato costituzionale ed a quello comunitario, quel diverso filone ermeneutico, utilizzato anche nella decisione in commento, secondo cui, al contrario, il giudice ha l’obbligo di enunciare concretamente quali sono le ragioni che l’hanno indotto a disattendere le censure prospettate da una delle parti (ma reputate non accoglibili).

Infatti, nella sentenza in esame ovvero la decisione n. 15701 del 23/04/12, la sezione VI della Suprema Corte di Cassazione, partendo dal presupposto secondo la quale dalla “presentazione di elementi di prova raccolti dal difensore a favore del proprio assistito deriva al giudice l’obbligo non solo della loro acquisizione, ma anche della loro valutazione” perviene alla conclusione per cui, qualora tali dati probatori siano disattesi, “è comunque richiesta una motivazione circa le ragioni che hanno portato ad escludere il rilievo alle prove assunte dalla difesa”.

Nel caso di specie, la doglianza difensiva si condensava in buona sostanza nell’argomentazione secondo la quale, nonostante il mancato ascolto dei file audio oggetto dell’operazione captativa, il giudice manifestò un giudizio su di essi solo attraverso la lettura della versione contenuta nel brogliaccio.

Ebbene, tale iter argomentativo è stato reputato dai Giudici di “Piazza Cavour” apparente e contraddittorio posto che era stato pretermesso l’“onere di sviluppare un adeguato apparato argomentativo, per verificare i ragionevoli dubbi avanzati dall’indagato” e dunque idoneo, in quanto tale, a causare l’annullamento del provvedimento ivi gravato.

Tale pronuncia, pertanto, così strutturata, è sicuramente condivisibile in punto di diritto poichè particolarmente sensibile non solo al diritto di difesa ma, più in generale, al principio del “giusto processo”.

Invero, solo una motivazione che tenga conto esplicitamente delle ragioni fornite dalle parti garantirebbe una concreta parità tra di loro.

Infatti, non sembra essere un caso che la sez. II del Supremo Consesso, affermando nella sentenza n. 13552 del 30/01/02, un principio di diritto di analogo tenore, sia partito, come presupposto giuridico, dalla premessa secondo cui la disciplina oggetto del petitum [ossia le indagini difensive (così come introdotta dalla legge 397/00)] nel prevedere “un’amplissima possibilità per i difensori delle parti private di assumere prove” “delinea per le stesse una equiparazione - quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelle raccolte dalla pubblica accusa, sia nella fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare” e quindi, doveva essere necessariamente osservata proprio perchè riconducibile al “principio costituzionale di parità fra le parti processuali fatto proprio dall’art. 111 Cost.”.

In effetti, solo in tal guisa, come suesposto in precedenza, viene garantito alla difesa di essere messa in condizione di poter far esaminare al giudice gli elementi di prova in favore del proprio assistito e quindi, a rigor di logica, di poter essere posta in una situazione di pariteticità rispetto alla pubblica accusa.

Sulla stessa linea interpretativa, peraltro, si colloca la sentenza n. 201268 emessa dalla Corte di Cassazione, sez. II, in data 21/12/94 secondo cui “si ha mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., non soltanto quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l’esame dei motivi di appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di cassazione la disamina della specificità o meno delle censure formulate con l’atto d’appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte”.

Di talchè ne consegue come non possa non condividersi quanto sostenuto da autorevole dottrina ossia di come competa “alla Corte l’esame non solo dei motivi d’appello, ma anche di tutte le richieste dalle quali derivava per il giudice del merito l’obbligo di una pronuncia che si assume omessa” (Aniello Nappi, IL CONTROLLO DELLA CORTE DI CASSAZIONE SUL RAGIONAMENTO PROBATORIO DEL GIUDICE DEL MERITO, Cass. pen., 1998, 04, 1260).

Difatti, alla luce di tale principio fondamentale, non può che discenderne, come logico corollario, l’ulteriore principio secondo il quale “allorché al giudice del riesame vengano dalla difesa dello indagato offerti elementi di prova in favore del proprio assistito, il Tribunale non può limitarsi ad acquisirli ma al fine di garantire l’effettività della difesa, ha l’obbligo di valutarle unitamente a tutte le altre risultante del procedimento, spiegando con argomentazioni logico-giuridiche adeguatamente corrette se le stesse debbano o meno ritenersi del tutto svalutate - quanto al loro contenuto ed alla loro forza probante, da altri assorbenti elementi riscontrabili in atti” (Cass. pen., sez. II, 30/01/02, n. 13552).

Del resto, “il rinvio meramente adesivo alla sentenza appellata è stato giudicato violazione dell’obbligo della motivazione quando con l’appello sia stata sollecitata una valutazione critica della decisione con specifiche censure o siano intervenute nel giudizio di secondo grado nuove acquisizioni probatorie (cfr. Sez. un., 4 febbraio 1992, Ballan ed altri, in questa rivista, 1992, p. 2663, n. 1406; Sez. IV, 22 dicembre 1995, in C.E.D. Cass., n. 204175; Sez. IV, 25 febbraio 1999, Zodi ivi, n. 213135)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

Tuttavia, tale criterio ermeneutico, in caso di motivi manifestatamente infondati, non può considerarsi applicabile sempre e comunque.

Infatti, la Suprema Corte di Cassazione, sez. II, nella sentenza n. 43349 del 17/10/07, ha affermato che, in sede di legittimità, laddove la motivazione oggetto del scrutinio di legittimità sia decisamente articolata e solida, un impianto motivazionale di tal tipo non può essere inficiato “sulla base di una difforme ricostruzione dei fatti”.

Del resto, “la deduzione del vizio logico in sede di legittimità deve tendere a dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e non può risolversi, invece, nell’opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, in C.E.D. Cass., n. 205617)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653) né le contestazioni del ricorrente “possono risolversi in una non ammessa rilettura degli acquisiti elementi di prova, perché la Corte non può procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del processo, e che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non sono idonee ad accedere al giudizio di legittimità, poiché, in presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, né la possibilità di scrutinare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali” (G. Canzio, “LE DUE RIFORME PROCESSUALI DEL 2006 A CONFRONTO: VIZIO DI MOTIVAZIONE, AUTOSUFFICIENZA DEL RICORSO E ACCESSO AGLI ATTI NEI GIUDIZI CIVILI E PENALI DI LEGITTIMITÀ”, Riv. It. dir. e proc. pen., 2007, 01, 135).

In conclusione, il percorso ermeneutico adottato nella sentenza in commento e nelle altre richiamate in questo breve libello, è sicuramente condivisibile in quanto frutto di una lettura costituzionalmente orientata delle regole processualcodicistiche che regolano l’obbligo di motivazione.

Da ultimo, detto criterio interpretativo non deve reputarsi applicabile laddove i temi di indagine, posti a sostegno dell’atto di impugnazione, siano “dedotti con motivi che rendono inammissibile il ricorso perché generici o manifestamente infondati (Sez. V, 18 febbraio 1992, Cremonini)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653) considerato che, in tale caso, opererebbe il limite preclusivo di ordine procedurale ricavabile dal combinato disposto ex artt. 581, co. I, lett. c) e 591, co. I, lett. c), c.p.p..

La sentenza in esame è di notevole pregio scientifico perché involge la vexata quaestio inerente la mancata valutazione delle doglianze prospettate in sede di gravame.

Il nodo gordiano da dirimere in casi di questo tipo, infatti, è quello di stabilire come ed in che termini ricorra la violazione dell’obbligo di motivazione nel caso in cui una censura difensiva non venga accolta o meglio, venga semplicemente non valutata.

Com’è noto, l’art. 546, co. I, lett. e), c.p.p. prevede che, tra i requisiti costitutivi di una decisione, vi deve essere quello di enunciare le “ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”.

D’altro canto, tale norma giuridica non è l’unica che impone un dovere di questo genere posto che l’“obbligo della motivazione trova puntuale specificazione in varie disposizioni del codice di procedura penale” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

Tra tali regole, vale la pena di segnalare l’art. 125, co. II, c.p.p. il quale stabilisce che “le sentenze, le ordinanze e, nei casi previsti dalla legge, i decreti devono essere motivati, a pena di nullità” nonché l’art. 292 c.p.p. che, a sua volta, prevede che, nella motivazione del provvedimento genetico delle misure cautelari, devono essere esposte rispettivamente le “specifiche esigenze cautelari”, gli “indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato” (art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.), i “motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa” (art. 292 comma 2 lett. c-bis, c.p.p.), nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, le “concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure” (art. 292 comma 2 lett. c- bis, c.p.p.) (fermo restando quanto statuito dall’art. 275, co. III, c.p.p.).

Inoltre, alle disposizioni esaminate è strettamente correlata quella di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. che, “comprendendo tra i motivi di ricorso per Cassazione la «mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato», ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il giudice quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

D’altronde anche altra dottrina, a sua volta, evidenzia che “se è certo che l’obbligo della motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi princìpi, onde è senz’altro giustificata l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo di motivazione è considerata come corollario del principio di legalità sancito dall’art. 101 comma 2, e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa dall’art. 111” Cost. (DENTI, La magistratura. Norme sulla giurisdizione, sub art. 111, in Commentario della Costituzione a cura di Branca, 1987, p. 5 s.).

Dopo siffatta doverosa premessa, corre l’obbligo di precisare che la Corte di Cassazione, in numerose pronunce, ha dato un’interpretazione piuttosto lata sull’estensione applicativa di tale obbligo.

Infatti, l’orientamento prevalente in subiecta materia è quello secondo cui non sarebbe fondata la denuncia di carenza della motivazione della sentenza argomentata se il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, disattendo per contro implicitamente quelle contrarie perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate (tra le più recenti: Cass. pen., sez. IV, 23 giugno 2011, n. 27741).

In altri termini, secondo questo indirizzo interpretativo, il giudice di merito non sarebbe tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali “essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. pen., sez. IV, 23 giugno 2011, n. 27741).

Ciò premesso, tale filone nomofilattico sembra disattendere quel principio fondamentale espresso nel nostro ordinamento costituzionale dall’art. 111, co. VI, Cost. secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

Peraltro, il fatto che il giudicante abbia l’obbligo di motivare dando contezza delle ragioni per le quali non stima condivisibili le considerazioni prospettate da una delle parti (e quindi da non accogliere) sembra trapelare anche dalla giurisprudenza comunitaria.

In effetti, in diverse decisioni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che, affinchè possano reputarsi celebrato un giusto processo, occorre che vi sia una motivazione reale e non apparente (Alija c. Grecia, 7 aprile 2005; Gorou c. Grecia, 11 gennaio 2007; Markoulaki c. Grecia, 26 luglio 2007) posto che, laddove per legge sia previsto l’obbligo di motivare, è onere dell’organo giurisdizionale (che ha emesso il provvedimento) “spiegare dettagliatamente le ragioni della sua scelta” (argomentando a contrario: Corte EDU, 20/03/09, Gorou c. Grecia).

Ebbene, anche in riferimento a questa ermeneutica sovranazionale, va da sé che, come già esposto in precedenza, una interpretazione che ignori quanto esposto all’interno di un gravame sembra tramutarsi in una motivazione apparente dato che, la precipua spiegazione sui motivi di una opzione decisoria implica, a rigor di logica, una previa valutazione di quanto prospettato da entrambi le parti.

Ed allora, a fronte di tale orientamento interpretativo, è maggiormente condivisibile, in quanto aderente al dettato costituzionale ed a quello comunitario, quel diverso filone ermeneutico, utilizzato anche nella decisione in commento, secondo cui, al contrario, il giudice ha l’obbligo di enunciare concretamente quali sono le ragioni che l’hanno indotto a disattendere le censure prospettate da una delle parti (ma reputate non accoglibili).

Infatti, nella sentenza in esame ovvero la decisione n. 15701 del 23/04/12, la sezione VI della Suprema Corte di Cassazione, partendo dal presupposto secondo la quale dalla “presentazione di elementi di prova raccolti dal difensore a favore del proprio assistito deriva al giudice l’obbligo non solo della loro acquisizione, ma anche della loro valutazione” perviene alla conclusione per cui, qualora tali dati probatori siano disattesi, “è comunque richiesta una motivazione circa le ragioni che hanno portato ad escludere il rilievo alle prove assunte dalla difesa”.

Nel caso di specie, la doglianza difensiva si condensava in buona sostanza nell’argomentazione secondo la quale, nonostante il mancato ascolto dei file audio oggetto dell’operazione captativa, il giudice manifestò un giudizio su di essi solo attraverso la lettura della versione contenuta nel brogliaccio.

Ebbene, tale iter argomentativo è stato reputato dai Giudici di “Piazza Cavour” apparente e contraddittorio posto che era stato pretermesso l’“onere di sviluppare un adeguato apparato argomentativo, per verificare i ragionevoli dubbi avanzati dall’indagato” e dunque idoneo, in quanto tale, a causare l’annullamento del provvedimento ivi gravato.

Tale pronuncia, pertanto, così strutturata, è sicuramente condivisibile in punto di diritto poichè particolarmente sensibile non solo al diritto di difesa ma, più in generale, al principio del “giusto processo”.

Invero, solo una motivazione che tenga conto esplicitamente delle ragioni fornite dalle parti garantirebbe una concreta parità tra di loro.

Infatti, non sembra essere un caso che la sez. II del Supremo Consesso, affermando nella sentenza n. 13552 del 30/01/02, un principio di diritto di analogo tenore, sia partito, come presupposto giuridico, dalla premessa secondo cui la disciplina oggetto del petitum [ossia le indagini difensive (così come introdotta dalla legge 397/00)] nel prevedere “un’amplissima possibilità per i difensori delle parti private di assumere prove” “delinea per le stesse una equiparazione - quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelle raccolte dalla pubblica accusa, sia nella fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare” e quindi, doveva essere necessariamente osservata proprio perchè riconducibile al “principio costituzionale di parità fra le parti processuali fatto proprio dall’art. 111 Cost.”.

In effetti, solo in tal guisa, come suesposto in precedenza, viene garantito alla difesa di essere messa in condizione di poter far esaminare al giudice gli elementi di prova in favore del proprio assistito e quindi, a rigor di logica, di poter essere posta in una situazione di pariteticità rispetto alla pubblica accusa.

Sulla stessa linea interpretativa, peraltro, si colloca la sentenza n. 201268 emessa dalla Corte di Cassazione, sez. II, in data 21/12/94 secondo cui “si ha mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., non soltanto quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l’esame dei motivi di appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di cassazione la disamina della specificità o meno delle censure formulate con l’atto d’appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte”.

Di talchè ne consegue come non possa non condividersi quanto sostenuto da autorevole dottrina ossia di come competa “alla Corte l’esame non solo dei motivi d’appello, ma anche di tutte le richieste dalle quali derivava per il giudice del merito l’obbligo di una pronuncia che si assume omessa” (Aniello Nappi, IL CONTROLLO DELLA CORTE DI CASSAZIONE SUL RAGIONAMENTO PROBATORIO DEL GIUDICE DEL MERITO, Cass. pen., 1998, 04, 1260).

Difatti, alla luce di tale principio fondamentale, non può che discenderne, come logico corollario, l’ulteriore principio secondo il quale “allorché al giudice del riesame vengano dalla difesa dello indagato offerti elementi di prova in favore del proprio assistito, il Tribunale non può limitarsi ad acquisirli ma al fine di garantire l’effettività della difesa, ha l’obbligo di valutarle unitamente a tutte le altre risultante del procedimento, spiegando con argomentazioni logico-giuridiche adeguatamente corrette se le stesse debbano o meno ritenersi del tutto svalutate - quanto al loro contenuto ed alla loro forza probante, da altri assorbenti elementi riscontrabili in atti” (Cass. pen., sez. II, 30/01/02, n. 13552).

Del resto, “il rinvio meramente adesivo alla sentenza appellata è stato giudicato violazione dell’obbligo della motivazione quando con l’appello sia stata sollecitata una valutazione critica della decisione con specifiche censure o siano intervenute nel giudizio di secondo grado nuove acquisizioni probatorie (cfr. Sez. un., 4 febbraio 1992, Ballan ed altri, in questa rivista, 1992, p. 2663, n. 1406; Sez. IV, 22 dicembre 1995, in C.E.D. Cass., n. 204175; Sez. IV, 25 febbraio 1999, Zodi ivi, n. 213135)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653).

Tuttavia, tale criterio ermeneutico, in caso di motivi manifestatamente infondati, non può considerarsi applicabile sempre e comunque.

Infatti, la Suprema Corte di Cassazione, sez. II, nella sentenza n. 43349 del 17/10/07, ha affermato che, in sede di legittimità, laddove la motivazione oggetto del scrutinio di legittimità sia decisamente articolata e solida, un impianto motivazionale di tal tipo non può essere inficiato “sulla base di una difforme ricostruzione dei fatti”.

Del resto, “la deduzione del vizio logico in sede di legittimità deve tendere a dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e non può risolversi, invece, nell’opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, in C.E.D. Cass., n. 205617)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653) né le contestazioni del ricorrente “possono risolversi in una non ammessa rilettura degli acquisiti elementi di prova, perché la Corte non può procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del processo, e che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non sono idonee ad accedere al giudizio di legittimità, poiché, in presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, né la possibilità di scrutinare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali” (G. Canzio, “LE DUE RIFORME PROCESSUALI DEL 2006 A CONFRONTO: VIZIO DI MOTIVAZIONE, AUTOSUFFICIENZA DEL RICORSO E ACCESSO AGLI ATTI NEI GIUDIZI CIVILI E PENALI DI LEGITTIMITÀ”, Riv. It. dir. e proc. pen., 2007, 01, 135).

In conclusione, il percorso ermeneutico adottato nella sentenza in commento e nelle altre richiamate in questo breve libello, è sicuramente condivisibile in quanto frutto di una lettura costituzionalmente orientata delle regole processualcodicistiche che regolano l’obbligo di motivazione.

Da ultimo, detto criterio interpretativo non deve reputarsi applicabile laddove i temi di indagine, posti a sostegno dell’atto di impugnazione, siano “dedotti con motivi che rendono inammissibile il ricorso perché generici o manifestamente infondati (Sez. V, 18 febbraio 1992, Cremonini)” (G. Silvestri, “Il controllo in cassazione del ragionamento probatorio”, Cass. pen. 2001, 05, 1653) considerato che, in tale caso, opererebbe il limite preclusivo di ordine procedurale ricavabile dal combinato disposto ex artt. 581, co. I, lett. c) e 591, co. I, lett. c), c.p.p..