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La nuova responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.

L’art. 96 c.p.c. negli ultimi tempi è stato oggetto di numerosi interventi sia a livello giurisprudenziale che legislativo.

Infatti, l’istituto tradizionale della responsabilità aggravata (presente nel codice di rito sin dalla sua promulgazione), è stato prima reinterpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina alla luce dei dettami costituzionali al fine di porlo a presidio del principio della ragionevole durata del processo (come scriveva il vice presidente del C.S.M., nella prefazione al volume sulla “Durata ragionevole del processo”, a proposito del nuovo art. 111 Cost., la norma imporrà una rivisitazione del nostro sistema processuale al fine di verificare se e in quale misura i singoli istituti siano compatibili con il principio fondamentale della ragionevole durata) e, più di recente, il ddl, approvato in via definitiva dal Senato (e divenuto legge 69 del 2009), vi ha aggiunto una ulteriore disposizione.

L’articolo 45 del ddl, modificato dalla Camera dei deputati, e composto da 19 commi, apportando modifiche al Libro I del codice di procedura civile, al comma 12, ha previsto in materia di responsabilità aggravata l’aggiunta di un comma tre.

Il progetto originario prevedeva una condanna al pagamento di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari poi modificato, per evitare collegamenti al complesso meccanismo delle tariffe forensi, con la previsione di un minimo ( non inferiore a € 1.000,00) e di un massimo (non superiore a € 20.000,00). In sede di esame al Senato è stato eliminato ogni vincolo.

L’art. 96 c.p.c. attualmente dispone che se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, anche al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Analogamente, viene condannato al risarcimento dei danni, qualora vi sia una domanda in tal senso, l’attore o il creditore procedente che abbia agito senza la normale prudenza, se il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale.

Infine, il comma aggiunto prevede una valorizzazione dell’istituto in questione affermando che, in sede di pronuncia sulle spese, il giudice, anche d’ufficio, possa condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma da determinare in via equitativa.

La disposizione in questione rimanda al contenuto dell’art. 385, quarto comma, c.p.c. che prevedeva la condanna al risarcimento per lite temeraria in sede di giudizio di cassazione; la citata norma, infatti, stabiliva che quando pronunciava sulle spese, la Corte di Cassazione, anche d’ufficio, condannava, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se riteneva che essa avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito anche solo con colpa grave. In effetti, anche in relazione a questa norma si diceva che sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo rappresentava una misura di razionalizzazione indispensabile se si voleva mantenere il regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa, quale è quella del processo.

L’inserimento del nuovo comma dell’art.96, avendo valenza generale, ha reso superflua e superata la corrispondente previsione per la sola Cassazione ed è stata così abrogato il quarto comma dell’art.385 c.p.c., si è così eliminato il criterio parametrato sulle tabelle forensi per sancire la piena discrezionalità del giudice.

La novella si inserisce in un generale progetto di modifica in materia di spese processuali, in cui si è provveduto a ritoccare le norme sottese alla regolamentazione delle spese di lite ed innalzare i poteri sanzionatori del Giudice per chi, a vario titolo, rallenti la durata fisiologica e ragionevole del procedimento. Infatti, il nuovo primo comma dell’art. 91 c.p.c. prevede la condanna della parte comunque vittoriosa che aveva rifiutato senza giustificato motivo la proposta conciliativa; l’art. 92 c.p.c., invece, interviene sulla possibilità, fuori della soccombenza reciproca, della compensazione delle spese e aggiunge un altro elemento restrittivo, ovvero, che concorrano “altre gravi ed eccezionali ragioni”. Si cerca, cioè, di ridurre il sin troppo diffuso fenomeno della compensazione delle spese di lite; infine, con l’art. 96 c.p.c., il giudice può condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. Molti hanno letto la norma come l’attribuzione al giudice di uno strumento ulteriore per punire eventuali comportamenti scorretti dei litiganti nel procedimento.

La modifica ha ripreso un testo già proposto dal progetto di legge Mastella nel 2007 ed è conforme, altresì, a quello che da diverso tempo sostiene l’Ufficio Studi del Senato (Scheda di lettura del ddl S1082) ovvero che “l’art. 96 c.p.c. è stato spesso indicato in dottrina come uno strumento il cui impiego sistematico da parte dei giudici potrebbe costituire un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, dunque, una possibile soluzione all’eccesso di litigiosità che notoriamente affligge l’ordinamento giuridico italiano”.

Si sono volute dunque rafforzare le sanzioni processuali. Già la lettura costituzionalmente orientata operata dalle corti di merito (Trib. Bologna, 27.1.2005, Trib. Reggio Emilia 31.5.2005, Trib. Bologna, 20.9.1995, Trib. Bologna 22.11.1995; C.A. Firenze 3.3.2006, Tribunale di Genova, 12.09.2006) e dalla Cassazione, aveva messo in moto un processo di rivitalizzazione dell’art.96 c.p.c., ora il legislatore sta cercando di far sì che, minacciando una frequente applicazione dell’art. 96 c.p.c., favorita anche da una facilitazione nella prova del danno, si possa ottenere l’effetto di scoraggiare la proposizione di giudizi del tutto infondati.

In effetti, la nuova formulazione non presuppone la sussistenza di dolo o colpa grave o un diritto inesistente e, in sede di approvazione sono stati eliminati anche i vincoli originariamente previsti per il giudice. La condanna ex art. 96 c.p.c. si discosta nettamente dalle ipotesi tradizionali di responsabilità aggravata, la parte istante non è qui necessario che fornisca la prova sia dell’an che del quantum debeatur, sebbene il giudice possa far riferimento anche agli elementi desumibili dagli atti di causa. Così si è voluto ampliare le ipotesi di condanna per responsabilità aggravata sganciandone i presupposti sia dalla verificazione di un danno a carico della parte vittoriosa, sia dalla sussistenza di un illecito caratterizzato da dolo o colpa grave in capo all’altra.

Dunque, lo strumento introdotto è automatico, nel senso che è prevista una condanna al pagamento della somma di denaro, ulteriore rispetto alle spese di lite, che consegue ipso facto all’accertamento della condotta illecita, ed officioso, nel senso che si prescinde da qualsiasi istanza della controparte.

Infine, è bene aggiungere che non è prius logico della decisione ma un posterius, una condanna accessoria, quindi, non sembra doversi applicare il secondo comma del nuovo articolo 101 c.p.c. che impone al giudice di instaurare il contraddittorio quando ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio.

L’art. 96 c.p.c. negli ultimi tempi è stato oggetto di numerosi interventi sia a livello giurisprudenziale che legislativo.

Infatti, l’istituto tradizionale della responsabilità aggravata (presente nel codice di rito sin dalla sua promulgazione), è stato prima reinterpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina alla luce dei dettami costituzionali al fine di porlo a presidio del principio della ragionevole durata del processo (come scriveva il vice presidente del C.S.M., nella prefazione al volume sulla “Durata ragionevole del processo”, a proposito del nuovo art. 111 Cost., la norma imporrà una rivisitazione del nostro sistema processuale al fine di verificare se e in quale misura i singoli istituti siano compatibili con il principio fondamentale della ragionevole durata) e, più di recente, il ddl, approvato in via definitiva dal Senato (e divenuto legge 69 del 2009), vi ha aggiunto una ulteriore disposizione.

L’articolo 45 del ddl, modificato dalla Camera dei deputati, e composto da 19 commi, apportando modifiche al Libro I del codice di procedura civile, al comma 12, ha previsto in materia di responsabilità aggravata l’aggiunta di un comma tre.

Il progetto originario prevedeva una condanna al pagamento di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari poi modificato, per evitare collegamenti al complesso meccanismo delle tariffe forensi, con la previsione di un minimo ( non inferiore a € 1.000,00) e di un massimo (non superiore a € 20.000,00). In sede di esame al Senato è stato eliminato ogni vincolo.

L’art. 96 c.p.c. attualmente dispone che se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, anche al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Analogamente, viene condannato al risarcimento dei danni, qualora vi sia una domanda in tal senso, l’attore o il creditore procedente che abbia agito senza la normale prudenza, se il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale.

Infine, il comma aggiunto prevede una valorizzazione dell’istituto in questione affermando che, in sede di pronuncia sulle spese, il giudice, anche d’ufficio, possa condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma da determinare in via equitativa.

La disposizione in questione rimanda al contenuto dell’art. 385, quarto comma, c.p.c. che prevedeva la condanna al risarcimento per lite temeraria in sede di giudizio di cassazione; la citata norma, infatti, stabiliva che quando pronunciava sulle spese, la Corte di Cassazione, anche d’ufficio, condannava, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se riteneva che essa avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito anche solo con colpa grave. In effetti, anche in relazione a questa norma si diceva che sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo rappresentava una misura di razionalizzazione indispensabile se si voleva mantenere il regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa, quale è quella del processo.

L’inserimento del nuovo comma dell’art.96, avendo valenza generale, ha reso superflua e superata la corrispondente previsione per la sola Cassazione ed è stata così abrogato il quarto comma dell’art.385 c.p.c., si è così eliminato il criterio parametrato sulle tabelle forensi per sancire la piena discrezionalità del giudice. >L’art. 96 c.p.c. negli ultimi tempi è stato oggetto di numerosi interventi sia a livello giurisprudenziale che legislativo.

Infatti, l’istituto tradizionale della responsabilità aggravata (presente nel codice di rito sin dalla sua promulgazione), è stato prima reinterpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina alla luce dei dettami costituzionali al fine di porlo a presidio del principio della ragionevole durata del processo (come scriveva il vice presidente del C.S.M., nella prefazione al volume sulla “Durata ragionevole del processo”, a proposito del nuovo art. 111 Cost., la norma imporrà una rivisitazione del nostro sistema processuale al fine di verificare se e in quale misura i singoli istituti siano compatibili con il principio fondamentale della ragionevole durata) e, più di recente, il ddl, approvato in via definitiva dal Senato (e divenuto legge 69 del 2009), vi ha aggiunto una ulteriore disposizione.

L’articolo 45 del ddl, modificato dalla Camera dei deputati, e composto da 19 commi, apportando modifiche al Libro I del codice di procedura civile, al comma 12, ha previsto in materia di responsabilità aggravata l’aggiunta di un comma tre.

Il progetto originario prevedeva una condanna al pagamento di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari poi modificato, per evitare collegamenti al complesso meccanismo delle tariffe forensi, con la previsione di un minimo ( non inferiore a € 1.000,00) e di un massimo (non superiore a € 20.000,00). In sede di esame al Senato è stato eliminato ogni vincolo.

L’art. 96 c.p.c. attualmente dispone che se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, anche al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Analogamente, viene condannato al risarcimento dei danni, qualora vi sia una domanda in tal senso, l’attore o il creditore procedente che abbia agito senza la normale prudenza, se il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale.

Infine, il comma aggiunto prevede una valorizzazione dell’istituto in questione affermando che, in sede di pronuncia sulle spese, il giudice, anche d’ufficio, possa condannare il soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma da determinare in via equitativa.

La disposizione in questione rimanda al contenuto dell’art. 385, quarto comma, c.p.c. che prevedeva la condanna al risarcimento per lite temeraria in sede di giudizio di cassazione; la citata norma, infatti, stabiliva che quando pronunciava sulle spese, la Corte di Cassazione, anche d’ufficio, condannava, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se riteneva che essa avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito anche solo con colpa grave. In effetti, anche in relazione a questa norma si diceva che sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo rappresentava una misura di razionalizzazione indispensabile se si voleva mantenere il regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa, quale è quella del processo.

L’inserimento del nuovo comma dell’art.96, avendo valenza generale, ha reso superflua e superata la corrispondente previsione per la sola Cassazione ed è stata così abrogato il quarto comma dell’art.385 c.p.c., si è così eliminato il criterio parametrato sulle tabelle forensi per sancire la piena discrezionalità del giudice.

La novella si inserisce in un generale progetto di modifica in materia di spese processuali, in cui si è provveduto a ritoccare le norme sottese alla regolamentazione delle spese di lite ed innalzare i poteri sanzionatori del Giudice per chi, a vario titolo, rallenti la durata fisiologica e ragionevole del procedimento. Infatti, il nuovo primo comma dell’art. 91 c.p.c. prevede la condanna della parte comunque vittoriosa che aveva rifiutato senza giustificato motivo la proposta conciliativa; l’art. 92 c.p.c., invece, interviene sulla possibilità, fuori della soccombenza reciproca, della compensazione delle spese e aggiunge un altro elemento restrittivo, ovvero, che concorrano “altre gravi ed eccezionali ragioni”. Si cerca, cioè, di ridurre il sin troppo diffuso fenomeno della compensazione delle spese di lite; infine, con l’art. 96 c.p.c., il giudice può condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. Molti hanno letto la norma come l’attribuzione al giudice di uno strumento ulteriore per punire eventuali comportamenti scorretti dei litiganti nel procedimento.

La modifica ha ripreso un testo già proposto dal progetto di legge Mastella nel 2007 ed è conforme, altresì, a quello che da diverso tempo sostiene l’Ufficio Studi del Senato (Scheda di lettura del ddl S1082) ovvero che “l’art. 96 c.p.c. è stato spesso indicato in dottrina come uno strumento il cui impiego sistematico da parte dei giudici potrebbe costituire un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, dunque, una possibile soluzione all’eccesso di litigiosità che notoriamente affligge l’ordinamento giuridico italiano”.

Si sono volute dunque rafforzare le sanzioni processuali. Già la lettura costituzionalmente orientata operata dalle corti di merito (Trib. Bologna, 27.1.2005, Trib. Reggio Emilia 31.5.2005, Trib. Bologna, 20.9.1995, Trib. Bologna 22.11.1995; C.A. Firenze 3.3.2006, Tribunale di Genova, 12.09.2006) e dalla Cassazione, aveva messo in moto un processo di rivitalizzazione dell’art.96 c.p.c., ora il legislatore sta cercando di far sì che, minacciando una frequente applicazione dell’art. 96 c.p.c., favorita anche da una facilitazione nella prova del danno, si possa ottenere l’effetto di scoraggiare la proposizione di giudizi del tutto infondati.

In effetti, la nuova formulazione non presuppone la sussistenza di dolo o colpa grave o un diritto inesistente e, in sede di approvazione sono stati eliminati anche i vincoli originariamente previsti per il giudice. La condanna ex art. 96 c.p.c. si discosta nettamente dalle ipotesi tradizionali di responsabilità aggravata, la parte istante non è qui necessario che fornisca la prova sia dell’an che del quantum debeatur, sebbene il giudice possa far riferimento anche agli elementi desumibili dagli atti di causa. Così si è voluto ampliare le ipotesi di condanna per responsabilità aggravata sganciandone i presupposti sia dalla verificazione di un danno a carico della parte vittoriosa, sia dalla sussistenza di un illecito caratterizzato da dolo o colpa grave in capo all’altra.

Dunque, lo strumento introdotto è automatico, nel senso che è prevista una condanna al pagamento della somma di denaro, ulteriore rispetto alle spese di lite, che consegue ipso facto all’accertamento della condotta illecita, ed officioso, nel senso che si prescinde da qualsiasi istanza della controparte.

Infine, è bene aggiungere che non è prius logico della decisione ma un posterius, una condanna accessoria, quindi, non sembra doversi applicare il secondo comma del nuovo articolo 101 c.p.c. che impone al giudice di instaurare il contraddittorio quando ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio.