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La riforma sulla legittima difesa

Armi
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Abstract:

Il tema della riforma sulla legittima difesa è un tema estremamente dibattuto in questi giorni e intorno al quale il dibattito politico è connotato da una grave disinformazione circa i contenuti. Il presente contributo si propone di fare un passo indietro, per conoscere quella che era la legge prima della riforma e la sua portata già sufficientemente garantista evidenziando su quali aspetti la riforma andrà ad impattare.

 

Indice:

1. Introduzione

2. Un passo indietro

3. I contenuti della riforma

4. Conclusioni

 

1. Introduzione

La riforma sulla legittima difesa è un tema che ad avviso di chi scrive va affrontato su due piani che vanno necessariamente tenuti distinti: il dibattito politico e il piano giuridico.

Il dibattito politico ha partorito slogan quali “Far West”, “la difesa è sempre legittima”, o “più armi per tutti”. Su quest’ultimo, la sua fallacia è in re ipsa, dal momento che l’accesso alle armi è una questione attinente al TULPS (Testo Unico Leggi di Pubblica Sicurezza) e non al Codice Penale. L’errata percezione della portata della norma, dovuta proprio ai termini del dibattito politico, non può non avere delle ripercussioni sociali quali “la corsa agli armamenti”, tanto temuta proprio dai detrattori della riforma.

Delegare al codice penale la responsabilità di veicolare la cultura sociale è estremamente pericoloso, poiché la funzione ultima del diritto penale è quella di intervenire laddove le maglie della società civile non sono state in grado di proteggere il cittadino. “Punirne uno per educarne cento” è una logica che non può in alcun modo sposarsi con i principi dello stato di diritto.

 

2. Un passo indietro

Occorre perciò esaminare la norma prima della riforma sì da comprendere la già estrema tutela riconosciuta al reo.

1. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.

2. Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

a) la propria o la altrui incolumità:

b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.

3. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

Il primo comma è già omnicomprensivo di tutte le ipotesi di difesa contro “un’offesa ingiusta” prevedendo altresì il requisito della proporzionalità. Con l’introduzione del secondo comma si assume che la difesa sia sempre proporzionata, nei casi previsti dall’art. 614 c.p. (violazione di domicilio). Il verificarsi della violazione di domicilio solleverebbe dunque il giudice dalla valutazione della proporzionalità tra offesa e difesa.

Ad avviso di chi scrive è perciò ridondante il passaggio “se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo…”, in quanto introduce una fattispecie specifica già ricompresa nella fattispecie generale del primo comma.

Inoltre la legittima detenzione dell’arma non attiene in alcun modo alla proporzionalità tra offesa e difesa. Difatti se la detenzione dell’arma sia legittima o meno è un aspetto da valutare in altra sede. Immaginiamo, per ipotesi, che l’arma utilizzata per difendersi sia rubata, è illogico ritenere la difese sproporzionata.

Sul principio di proporzione la dottrina oscilla su due “macro scuole” di pensiero:

  • da una parte si ritiene che vada valutata la proporzione tra il mezzo utilizzato per offendere e quello per minacciare (pistola-coltello; pistola-pistola etc.);
  • dall’altra invece, ed è quella verso cui propendo, è che vadano comparati i beni in gioco (vita-incolumità; vita-vita etc.).

Nessuna delle due correnti tiene in considerazione la legittimità della detenzione dell’arma che, come dicevamo, attiene a tutt’altra violazione e a buon bisogno genererà una distinta azione penale o amministrativa nei confronti del trasgressore. Immaginiamo per assurdo l’ipotesi del porto d’armi scaduto e non rinnovato. Senz’altro il trasgressore sarà meritevole di sanzione amministrativa, ma è illogico che la detenzione dell’arma possa de plano portare ad una condanna per omicidio in quanto fa venir meno il requisito della legittimità dell’arma, ergo, il rapporto di proporzione.

Quanto annoverato alla lettera a), “la propria o l’altrui incolumità” è pacifico ed è già previsto dal primo comma, creando una NON necessaria ridondanza normativa.

Quanto invece annoverato alla lettera b) “i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione” rischia di violare il principio cardine del bilanciamento degli interessi costituzionalmente garantiti, in quanto rende legittima la difesa della proprietà privata (beni propri o altrui) che non può in alcun modo esser posta alla stregua del bene vita o incolumità fisica.

Dello stesso tenore è quanto attiene al comma 3: che quanto previsto al comma 2 si applica “anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale”.

Innanzi tutto siffatta ipotesi esula dal richiamo all’art. 614 c.p. la cui ratio, è la tutela del godimento della vita domestica. L’articolo titola appunto “violazione di domicilio” e non “violazione della proprietà privata”. In secondo luogo, la classica dinamica di una rapina in una gioielleria non è caratterizzata dall’attualità di un pericolo imminente, come una rapina in casa, ancorché esercitata con la minaccia dell’uso delle armi. Difatti l’uso dell’arma da fuoco puntata contro il commerciante è condizionato al comportamento remissivo di quest’ultimo, il quale, adeguandosi alle richieste dell’aggressore, e dunque rinunciando passivamente al maltolto, eviterebbe l’uso delle armi da parte del rapinatore. Riconoscere la scriminante laddove il conflitto a fuoco sia stato generato dalla volontà di difendere la proprietà a discapito della vita dell’aggressore fa venir meno il principio del bilanciamento degli interessi costituzionali.

 

3. I contenuti della riforma

È evidente dunque che il panorama penale intorno alla legittima difesa era già estremamente garantista nei confronti di coloro i quali si sono trovati, loro malgrado, costretti all’uso di un’arma da fuoco, talvolta anche a discapito di interessi più alti quali quello della tutela della vita o dell’incolumità fisica dell’aggressore. È per queste ragioni che una riforma della legge penale è, ad avviso di chi scrive, NON necessaria.

La riforma odierna va a modificare il summenzionato art. 52 c.p., aggiungendo al secondo comma, dopo la parola: “sussiste” la parola “sempre”. Seppure la locuzione “sempre” potrebbe apparire ridondante, in verità cela il rischio di esautorare il giudice da ogni valutazione circa la proporzionalità della difesa, “scoprendo il fianco” a scenari inaccettabili in uno stato di diritto.

È stato inoltre introdotto un quarto comma, che recita: “Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”.

La violenza o la minaccia di uso delle armi sono inoltre due requisiti estremamente fumosi in quanto per violenza si intende anche la violenza nei confronti di cose, l’esempio più classico è perciò l’effrazione.

La minaccia dell’uso delle armi è abbastanza evidente che rende così NON necessario l’effettivo possesso dell’arma di colui il quale ha violato il domicilio, ma è sufficiente nella dinamica processuale che l’imputato dichiari che la vittima abbia anche solo millantato di possederla e di essere disposto ad usarla. Circostanza ovviamente inconfutabile da parte dell’accusa e sulla quale non può esservi un contraddittorio, laddove il rapinatore abbia perso la vita.

 

4. Conclusioni

Le cronache degli ultimi anni sono ricche di episodi capitolati con assoluzioni o condanne che hanno mobilitato l’opinione politica, di volta in volta, di una fazione o dell’altra. Non è questa la sede per esaminare le decisioni dei giudici che in scienza e coscienza, hanno applicato la legge, presumibilmente, anche errando.

Ciò su cui il legislatore che davvero ha a cuore la tutela del cittadino dovrebbe preoccuparsi di intervenire, vittima di aggressione e poi imputato di omicidio per aver esercitato (legittimamente o meno) l’autodifesa, è quello di garantirgli un celere processo che porti ad una condanna o una assoluzione laddove ne ricorrano, in un caso o nell’altro, i presupposti.

Oltre 15 anni di calvario giudiziario che costringa coloro i quali, non dimentichiamolo, hanno visto minacciato il godimento dello spazio più sacro in assoluto quale le proprie mura domestiche, maturando debiti per di migliaia e migliaia di euro al fine di sostenere spese legali e garantirsi la difesa in processi decennali, non è una situazione degna di uno stato di diritto.

La violazione del domicilio è sicuramente sintomo di una “falla” nel sistema giuridico volto a garantire in primis la tutela dei cittadini. Il diritto penale è l’ultima ratio di un ordinamento la cui prevenzione fallisce. È perciò un diritto democratico, nonché interesse della società nella sua totalità, che un imputato venga giudicato in tempi celeri e consoni al caso e che, laddove abbia ecceduto nella propria difesa, venga condannato in tempi quanto più prossimi all’evento. Ogni anno in attesa di giudizio è un anno che allontana l’imputato dal fine pena e dalla sua riabilitazione.

Per questa ragione la contingenza non è da ravvisarsi in una riforma del diritto sostanziale, bensì nella riforma del diritto processuale, le cui lungaggini mal si conciliano con uno dei principi fondamentali del diritto penale, la certezza della pena.