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Le confische nel diritto penale d'impresa

3. Il profitto del reato: la consistenza della nozione

Il profitto è considerato il frutto moderno della nuova collocazione della confisca in un diritto penale che pone al suo centro il rapporto intercorrente tra il singolo individuo e il fatto[48]. Invero, solo nella modernità il profitto acquista un ruolo centrale, non solo per qualificare un intero settore dell’attività criminale[49], ma soprattutto assumendo il compito di orientare la struttura e l’incidenza di una gamma sanzionatoria, che spazia dalla pena pecuniaria, alla confisca, alle misure ante-delictum[50].

A testimonianza della sua centralità contribuisce anche il passaggio da oggetto della confisca facoltativa così come previsto dall’art. 240 c.p. a scopo dell’applicazione obbligatoria dell’istituto in caso di condanna o sentenza di patteggiamento in virtù delle leggi speciali che disciplinano le nuove ipotesi di confisca.

Pertanto, il profitto costituisce il perno su cui ruotano importanti strumenti punitivi, la cui operatività è condizionata dall’ampiezza che si ritiene dover attribuire alla relativa nozione. Negli ultimi anni la giurisprudenza di legittimità è infatti intervenuta spesso per precisare i confini della relativa nozione. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul grado di collegamento esistente tra reato e vantaggio economico necessario per poter qualificare quest’ultimo come profitto del primo.

In particolare, la Corte di Cassazione definisce il profitto confiscabile come «il vantaggio di natura economica che deriva dall’illecito, quale beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, di diretta derivazione causale dall’attività del reo[51]».Le Sezioni Unite riconoscono il principale criterio selettivo del profitto confiscabile nella sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, vale a dire che «occorre una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito[52]». Pertanto il parametro della pertinenzialità al reato del profitto costituisce un elemento basilare che permette di individuare, effettivamente, ciò che può essere confiscato a tale titolo.

A tale criterio di selezione si ispira anche la pronuncia delle Sezioni Unite 6 marzo 2008, n. 10280, che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, ha privilegiato una nozione di profitto in senso estensivo, ricomprendendovi anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato che tale reimpiego è comunque causalmente ricollegabile al reato e al profitto immediato dello stesso[53]. In tale decisione si nega che il reo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all’escamotage di trasformare l’identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque individuabile nel frutto del reimpiego, anch’esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla base di chiari elementi indiziari evincibili dalla concreta fattispecie, all’attività criminosa posta in essere dall’agente[54].

Un ulteriore problema interpretativo riguarda il metodo da impiegare ai fini della individuazione e della quantificazione in termini concreti del profitto. In mancanza di una definizione normativa, uno dei criteri, presi in considerazione dalla giurisprudenza[55] e dalla dottrina maggioritaria, per circoscrivere l’area del profitto, risulta essere quello dettato dalla distinzione tra «netto» e «lordo»[56]. Nello specifico, si discute se deve accogliersi una nozione più ristretta, più vicina alla sua accezione economica, come margine di guadagno del reo, senza tenere conto delle spese sostenute e connesse alla commissione del reato (profitto netto), oppure in senso più ampio, come insieme di valori che affluiscono al reo, comprendendo così il ricavo complessivo tratto dal reato (profitto lordo). La questione si pone soprattutto con riferimento alla criminalità d’impresa ed alla illecita aggiudicazione, a seguito dei reati di truffa o corruzione, di contratti di forniture di enti pubblici. Occorre verificare se nel profitto del reato rientri l’importo complessivo dell’appalto aggiudicato in virtù dell’accordo corruttivo o viziato dalla frode oppure vadano comunque detratte le spese affrontate dalla società in esecuzione del contratto. Secondo la dottrina prevalente, «la nozione di profitto non può che essere ragionevolmente interpretata in termini di utile, di netto, mediante l’effettivo accertamento del risultato economico complessivo derivato dal reato.

Solo laddove un simile accertamento non risulti concretamente esperibile per mancanza dei dati necessari, potrà eventualmente ipotizzarsi il ricorso a criteri di natura presuntiva[57]». Invero, è l’utile stesso, e non il ricavo, a costituire il beneficio aggiunto, dall’altro perché la confisca disciplinata dall’art. 19 in esame ha, a tutti gli effetti, una natura sanzionatoria che richiede la determinatezza del suo oggetto. Infatti, nel caso specifico, lo scopo dell’ente collettivo è quello di ottenere dall’illecito un vantaggio che non consiste nel mero conseguimento di un ricavo, ma nella realizzazione di un utile[58].

Una considerazione tanto più vera con riferimento all’attività d’impresa, in cui il reato è normalmente frutto di una scelta razionale, che tiene conto del rapporto costi/benefici e dove l’impulso a reiterare il reato può emergere dal grado di convenienza dell’iniziativa criminosa, e quindi dal saldo attivo, e non dalla dimensione complessiva dell’affare. Sul punto, però, è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite del 27 marzo 2008, n. 26654[59], che ha affermato il seguente principio di diritto: «Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto – ai sensi degli artt. 19 e 53 D. Lgs. 231/2001 – nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente». Dunque, può costituire profitto solo un risultato che sia suscettibile di valutazione positiva dal punto di vista economico, nonostante il concetto di “vantaggio economico” non possa coincidere con l’utile netto aziendalistico-contabile[60], bensì con il beneficio economico complessivamente affluito per effetto del reato.

E’ imputabile a profitto solo un ricavo concretamente conseguito e non un’utilità futura o potenziale, anche nel caso in cui si tratti di credito certo, liquido ed esigibile[61]. Tuttavia, la Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza n. 8740 del 22 febbraio 2013, non condividendo il suddetto orientamento delle Sezioni Unite, ha statuito che: «Nemmeno, infine, può negarsi aprioristicamente, ai fini dell’applicazione della misura cautelare reale, che un credito che sia certo, liquido ed esigibile possa costituire un’“utilità” ex artt. 19, comma secondo, e 53 D.Lgs. n. 231/2001, in quanto l’ente creditore ben potrebbe comunque cederlo a titolo oneroso e acquisire in tal modo un effettivo incremento patrimoniale.»

Si avverte, quindi, come, nel linguaggio penalistico, l’espressione “vantaggio economico” assuma un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello aziendalistico[62]. In particolare la decisione delle Sezioni Unite ha introdotto un rilevante elemento di novità, affermando la necessità di distinguere – nel valutare il nesso di diretta derivazione causale dal reato – tra la condotta dell’agente che si sia inserita in un contesto di «attività totalmente illecita» e la condotta inserita in un’attività lecita «nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato».

In base a tale distinzione si ritiene che nella prima ipotesi l’intero vantaggio economico costituisce immediata e diretta conseguenza del reato e, di conseguenza, può essere interamente assoggettato a confisca (c.d. reati contratto); nella seconda ipotesi (situazione in cui l’illiceità non connota l’intera fase del rapporto, cd. reati in contratto) il profitto tratto dall’agente dall’attività lecita non è confiscabile/sequestrabile in quanto «la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento.»

In conclusione, si evidenzia come in un appalto pubblico di opere o di servizi, pur acquisito a seguito di aggiudicazione viziata da illiceità, l’appaltatore, che nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita.

Tale interpretazione troverebbe conferma nella disposizione di cui all’art. 19 del D. Lgs. n. 231/2001 quando prevede che la confisca del profitto del reato non va disposta per quella «parte che può essere restituita al danneggiato». Dunque, l’utilitas deducibile sarebbe l’effettivo vantaggio che il danneggiato ottiene dall’esecuzione, ancorché parziale, delle pattuizioni contrattuali; i costi, invece, costituiscono gli esborsi sostenuti dal reo, i quali non si traducono automaticamente in utilità per il soggetto danneggiato. Pertanto, in presenza di un contratto illecitamente acquisito, secondo questa impostazione, occorre verificare, in concreto, se le somme investite nel corso della sua attuazione abbiano, in modo tangibile, giovato al danneggiato, consentendogli di ottenere, almeno in parte, il risultato atteso.

Una parte della giurisprudenza successiva[63] ed alcuni autori in dottrina[64] si sono allineati alla decisione delle Sezioni Unite in esame. Tuttavia, in merito al quantum del profitto confiscabile in un contesto di regolare esecuzione di un contratto pur viziato, nella genesi, da un illecito penale, si presta a letture eccessivamente indulgenti per i responsabili di un illecito “amministrativo” ex D. Lgs. n. 231/2001 o di un illecito penale individuale, la seguente affermazione delle Sezioni Unite: «il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure».

Infatti, anche la societas o l’imprenditore individuale, responsabili di un reato di corruzione, che abbiano interamente adempiuto alle obbligazioni contrattuali, avranno, in condizioni di ordinaria redditività, incamerato un guadagno. Si tratta proprio dell’utile aziendalistico, vale a dire i ricavi meno i costi di gestione del contratto, ripudiato dalla sentenza Impregilo come base di calcolo del profitto confiscabile. A tal proposito, è opportuno analizzare il caso oggetto della sentenza n. 11808/2012 della Corte di Cassazione (“sentenza Angelucci”): attraverso una corruzione propria aggravata, un’azienda sanitaria otteneva un appalto di gestione delle residenze sanitarie assistenziali della regione Puglia. L’appalto durava sette anni e veniva regolarmente eseguito dall’aggiudicatario corruttore, facendo maturare un utile netto di gestione di circa 7 milioni di euro e tale importo veniva sequestrato sia alla società che al suo amministratore. Pertanto, nella specie, all’aggiudicazione illecita del contratto aveva fatto seguito la corretta attuazione del programma negoziale. Secondo il ragionamento della II Sezione, «se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica … Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività d’impresa»[65].

Il suddetto principio appare condivisibile nella parte in cui evita di sottrarre in toto al raggio operativo della misura ablatoria le operazioni economiche viziate da un reato, ma connotate da una corretta esecuzione negoziale. Il criterio del netto – unitamente all’elaborazione di una approfondita teoria dei costi deducibili – sembra quello preferibile e maggiormente conforme ai principi garantistici che devono assistere le sanzioni; consente infatti di rimuovere ciò che costituisce impulso alla commissione del reato, soprattutto nell’ambito della criminalità d’impresa (l’utile netto), ma al tempo stesso rispetta con maggior puntualità il principio di proporzione. Si può dire, in conclusione, che nella recente legislazione l’istituto della confisca, nelle sue varie possibilità morfologiche, compare costantemente ogni volta che venga in considerazione un’attività criminosa nella quale il profitto, inteso come arricchimento economico, svolga un ruolo significativo.

Si tratta di una nozione astratta che allude alla sfera dell’agire economico in senso ampio che va dall’attività imprenditoriale all’acquisizione indebita di utilità economiche altrui, rispetto alla quale la confisca del profitto assume il ruolo di ammonimento punitivo[66].

4. La confisca per equivalente: focus sul concorso di persone e sui reati tributari

Il principale limite operativo della confisca ordinaria ex art. 240 c.p. consiste nell’imporre indefettibilmente l’accertamento di un nesso di diretta derivazione causale tra i proventi confiscabili ed il reato-presupposto, impedendo pertanto di procedere all’ablazione nel caso in cui i frutti ricavati dal reato siano stati distrutti, nascosti, o ceduti ad acquirenti in buona fede o comunque rimessi nel circuito dell’economia legale, sì da far perdere traccia dell’origine illecita[67].

Esistono, altresì, casi in cui la confisca diretta del profitto appare ontologicamente inapplicabile[68], ossia quando l’illecito vantaggio economico derivante dal reato sia costituito dai c.d. “risparmi di spese dovute”, rispetto ai quali non solo risulta difficile parlare di una “provenienza” dal reato, dal momento che trattasi di utilità già presenti nel patrimonio del reo, ma che non possono essere puntualmente individuati, consistendo in una quota patrimoniale ideale, e dovendosi, perciò, intendere non tanto alla stregua di un accrescimento delle disponibilità economiche del reo, quanto di un mancato depauperamento delle stesse. Siffatti impedimenti sono stati superati grazie all’introduzione di uno strumento ablativo particolarmente duttile ed elastico, che sposta il “fuoco” della confisca dai beni costituenti provento del reato-presupposto ad altre cose, nella disponibilità dell’indagato/imputato, di valore economico equivalente.

Pertanto, la capacità afflittiva della confisca e, di conseguenza, delle misure di sicurezza, trova la sua massima espressione nella figura della confisca per equivalente o di valore, vale a dire la possibilità di estendere la misura a «beni di valore corrispondente» a quelli che, secondo la disposizione normativa, costituiscono oggetto della figura ablativa[69].

Le norme in materia di confisca di valore stabiliscono che devono essere presi in considerazione non solo beni, ma anche somme di denaro, purché di valore equivalente a quello dei beni aggredibili. Questo istituto, infatti, consente l’apprensione di qualunque bene, anche di provenienza lecita, che si trovi nella disponibilità del soggetto, a prescindere dalla sua connessione con il reato[70] nel caso in cui risulti impossibile individuare i beni effettivamente coinvolti nella dinamica delittuosa[71]. L’estensione della confisca per equivalente ai beni e alle somme di denaro non coinvolte originariamente nel reato rende palese la sua funzione sanzionatoria[72], trattandosi di una misura sostanzialmente afflittiva[73].

E’ da escludersi la possibilità che tale figura possa essere applicata nelle ipotesi in cui l’utilità derivante dall’attività criminosa non abbia natura patrimoniale, in quanto ricorrerebbe il rischio di rimettere la valutazione della stessa alla totale discrezione del giudice[74]. Lo scopo dell'istituto è quello di impedire che l'impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso.

L’ampliamento dell'ambito oggettivo delle cose confiscabili anche a quelle non originariamente coinvolte nella dinamica criminosa è il motivo per cui, nonostante la definizione codicistica dell'istituto come misura di sicurezza patrimoniale, la dottrina ritiene che l'effettiva ratio dello stesso abbia finalità sanzionatorie, accompagnate dal valore rieducativo e afflittivo proprio della pena[75]. La riconduzione della confisca per equivalente o di valore alla categoria delle pene è stata sottolineata anche dalla Corte Costituzionale in una ordinanza (n. 97 del 2009), che, in riferimento ai reati tributari, non solo riconosce a tale misura ablativa il valore di pena, ma anche il carattere dell’irretroattività tipico del nostro sistema penale.

Nello specifico, la Consulta, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 200, 322-ter c.p. e 1, comma 143 L. n. 244 del 2007 sollevata per violazione degli artt. 7 CEDU[76] e 117 Cost., ha ritenuto erronea l’interpretazione fornita dal giudice a quo poiché l'art. 1, comma 143, della L. n. 244/07 (con il quale la disciplina della confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p. è stata estesa ai reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter e 11 del D. Lgs. n. 74 del 2000) non opera retroattivamente[77].

Appare opportuno evidenziare, altresì, che l’estensione ai reati tributari della confisca per equivalente è stata attuata senza tener presente alcune problematiche applicative, considerando, ad esempio, l’art. 13 del D. Lgs. n. 74/2000[78], che prevede il pagamento delle imposte come circostanza attenuante e non come causa di estinzione del reato. Di conseguenza, la confisca sarebbe irrogabile anche in presenza di avvenuto pagamento del debito d’imposta, determinando un indebito arricchimento dell’Erario ai danni del contribuente[79]. Qualora ciò si verificasse, il giudice, sulla base dell’inciso «in quanto compatibili» contenuto nell’art. 1, comma 143, L. n. 244/2007, potrebbe non disporre l’applicazione della confisca dato l’intervenuto pagamento delle imposte, che soddisfa ugualmente il credito erariale[80].

Inoltre, a causa dell’autonomia dei due processi, amministrativo e penale, si potrebbero ottenere due sentenze differenti che prevedono l’una l’assoluzione e l’altra la condanna comportando effetti incongrui nell’ipotesi di condanna in sede penale[81]. È con la riforma del reato di usura che la confisca per equivalente ha acquisito una fisionomia tipica anche nel diritto penale italiano[82]. Infatti, con l’art. 644 c.p., novellato dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, è stata introdotta, in relazione al reato di usura, l’obbligatorietà, sia in caso di condanna sia in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, della confisca del prezzo o del profitto, ovvero delle somme di denaro, beni o utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona, corrispondenti al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.

Successivamente, l’art. 3 della L. 19 settembre 2000, n. 300, con cui sono state ratificate alcune Convenzioni internazionali, tra le quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri del 17 settembre 1997, ha inserito nel codice penale gli articoli 322-ter e 640-quater, estendendo la confisca per equivalente a gran parte dei delitti contro la Pubblica Amministrazione (artt. 314-320 c.p.), nonché ai delitti di truffa aggravata e frode informatica (artt. 640, comma 2, n. 1; 640-bis e 640-ter c.p.).

La confisca per equivalente è stata introdotta, altresì, a carico dell'ente collettivo, ai sensi dell'art. 19, comma 2, del D. Lgs. n. 231/2001, nel caso di reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, quando la confisca obbligatoriamente disposta non possa essere eseguita sui beni costituenti prezzo o profitto dell'illecito.[83] Passando all'analisi specifica dell'art. 322-ter c.p., tale disposizione dispone, nella prima parte del primo comma, «nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessa dai soggetti indicati nell'articolo 322-bis, primo comma», l’obbligatorietà della confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo.

L’ultimo periodo del primo comma, invece, disciplina la confisca per equivalente nei confronti dei beni di cui il reo dispone per un valore equivalente al solo prezzo del reato, fatti salvi, in ogni caso, i beni che appartengono a persona estranea al reato. La previsione della confisca di valore solo rispetto al prezzo del reato e non anche al profitto, contenuta nell’articolo in questione, ha dato luogo a due diversi orientamenti giurisprudenziali[84].

Il primo ammette l’applicazione di questo istituto anche in relazione al profitto del reato operando un’interpretazione estensiva della formulazione letterale della disposizione[85]; il secondo, invece, invocando il tenore testuale della norma, esclude la possibilità di interpretazioni estensive e ritiene che sia applicabile solo in relazione al prezzo del reato[86]. Le Sezioni unite, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dall’interpretazione giudiziale, sentenziano che non sussiste « … alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell’art. 322-ter, comma 1, c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato», sicchè, con «riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto» (Cass. pen., Sez. un., 25 giugno 2009, n. 38691; conf. Cass. pen., Sez. VI, 18 marzo 2011, n. 22502).

Da ultimo, l'art. 1, comma 75, della L. 6 novembre 2012 n. 190 ha novellato l'ultima parte del primo comma dell'art. 322-ter c.p., inserendo dopo le parole «a tale prezzo» l'inciso «o profitto». Dall'analisi dell'art. 322-ter c.p. si evince che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente e l'assenza di un rapporto di pertinenzialità (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni impediscono l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'art. 200 c.p. Anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2005[87] hanno affermato che pur a fronte di un’evoluzione normativa dell’istituto, il quale ha assunto una fisionomia ibrida e polivalente, la confisca aderisce ad una logica sanzionatoria, in chiave di prevenzione e di strumento strategico di politica criminale, volto a contrastare fenomeni sistemici di criminalità economica e di criminalità organizzata. Nel fissarne l’essenza, le Sezioni Unite hanno poi aggiunto che «costituendo una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, la confisca per equivalente assume preminente carattere sanzionatorio».

Autorevole dottrina[88] ritiene di poter rilevare un’«esasperazione dei profili punitivi» della confisca del profitto (anche per equivalente), tale da snaturarne la funzione prevalentemente compensativa e di riequilibrio economico, nella previsione dell’art. 322-ter c.p., in relazione alla confiscabilità delle somme di denaro solo promesse ma non effettivamente erogate al pubblico ufficiale concussore o corrotto e, nel caso della corruzione attiva, circa la possibilità di aggredire somme o beni di valore superiore a quanto realmente percepito dal corruttore. Sotto il primo profilo, in materia di concussione e corruzione passiva, si è ritenuto assoggettabile a confisca ex art. 322-ter, comma 1, c.p., quale prezzo del reato, l’utilità materialmente corrisposta al corrotto o, alternativamente, quella soltanto promessa, se la dazione non ha luogo.[89]

Così d’altra parte, l’art. 322-ter, comma 2, c.p., in tema di corruzione attiva ex art. 321 c.p., prevede che il valore dei beni confiscati per equivalente al corruttore non può essere «inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio […]». Laddove tale disposizione venisse interpretata nel senso di consentire la confisca di beni di valore equivalente alla “tangente” versata anche nel caso in cui il corruttore non abbia ottenuto alcun profitto dalla condotta corruttiva, si attribuirebbe alla misura de qua una connotazione spiccatamente afflittiva, assimilandola «alla previsione di una pena pecuniaria aggiuntiva alla pena detentiva».

Sembrerebbe orientarsi nella direzione segnalata la recente sentenza della Cassazione penale, sez. VI, 4 giugno 2010, n. 21027, secondo cui: «La confisca per equivalente, relativa al reato di corruzione non presuppone necessariamente il conseguimento, da parte del corruttore, di un profitto, stante la natura sanzionatoria della misura». Simile impostazione condurrebbe a configurare la confisca di valore alla stregua di una pena patrimoniale di dubbia legittimità costituzionale, ponendosi in tensione con i principi di proporzione e colpevolezza, nella misura in cui la sua commisurazione dipende esclusivamente dall’entità della tangente, indipendentemente dalla gravità del reato e dalla colpevolezza del reo.

Peraltro, l'istituto in esame dovrebbe trovare il suo unico criterio di legittimazione e limite quantitativo nell’esatto arricchimento provocato dall’illecito. Una delle principali questioni che si sono poste con riferimento all’istituto de quo ha riguardato l’applicabilità della confisca e del provvedimento cautelare di sequestro preventivo nel caso di concorso di persone nel reato e in generale nei casi in cui ricorre la responsabilità di più soggetti, comprese le persone giuridiche. Come sottolineato in precedenza, nella confisca per equivalente non assume rilevanza il nesso di pertinenza tra il reato e la cosa da confiscare e pertanto, dovendo reperirsi una qualunque somma di denaro nella disponibilità degli indagati, si deve stabilire se ed in che misura il provvedimento possa colpire indifferentemente uno o tutti gli indagati.

Seguendo l'orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, atteso il carattere eminentemente sanzionatorio della confisca per equivalente, in caso di pluralità di persone fisiche nella commissione dell’illecito, si applica il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intero fatto di reato e delle conseguenze sanzionatorie relative in capo a ciascun concorrente.

Da tale peculiare forma di solidarietà passiva deriverebbe che la confisca per equivalente possa interessare ciascun concorrente per l’intera entità del profitto, salvo l’eventuale riparto del relativo onere tra i concorrenti che – in quanto questione interna ai loro rapporti – non interesserebbe il diritto penale. Quindi, in caso di concorso nel reato, la confisca di valore può essere applicata per l’intero nei confronti anche di uno solo dei concorrenti, a prescindere dall’effettivo profitto che questi abbia tratto dal reato[90].

La ragione di tale “scelta” ermeneutica sembra essere quella di utilizzare lo strumento della confisca nel modo più ampio possibile, proprio con finalità afflittive, tendenza che, più che derivare dall’elevata considerazione che viene riconosciuta alla confisca di valore quale efficace strumento di repressione del crimine economico, è determinata dai gravi problemi che affliggono il sistema penale in relazione alla carenza della certezza della pena[91].

Siffatto modus operandi della confisca per equivalente e del prodromico sequestro preventivo è stato bersaglio di unanime censura in dottrina, sotto un triplice ordine di profili[92]. In primo luogo, si applicherebbero impropriamente al settore penale categorie mutuate dall’ambito civilistico, confondendo le obbligazioni solidali di contenuto restitutorio e risarcitorio ex artt. 185 e 187 c.p., che incombono sull’autore del fatto, nonché sui responsabili civili, tenuti a rispondere delle conseguenze dannose del reato stesso, con la misura ablativa della confisca, mirata a neutralizzare il vantaggio economico di derivazione illecita.

Inoltre, verrebbe negato radicalmente il principio di proporzionalità della pena, che impone, riguardo alla pena sui generis rappresentata dalla confisca de qua, l’esatta equivalenza tra il valore confiscato ed il provento conseguito dal reo e, parimenti, dal singolo concorrente, per effetto del reato. Infine, la dottrina più autorevole ha notato come l’applicazione del sequestro preventivo per equivalente e della corrispondente misura ablativa definitiva nei confronti di uno solo dei concorrenti, a prescindere dalla porzione del profitto effettivamente incamerata, possa condurre ad esiti di palese iniquità ed irragionevolezza sotto molteplici punti di vista, come, ad esempio, un’ingiustificata disparità di trattamento tra chi ha tratto un minimo profitto o non ne ha tratto affatto e chi ne ha ricavato il massimo o l’intero.

Appare, invece, apprezzabile l’alternativo indirizzo della Cassazione, seppur minoritario, secondo il quale, in caso di concorso nel reato, la confisca per equivalente non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura del profitto a lui attribuibile, con la precisazione che «solo laddove non sia possibile, anche in ragione dei non ancora definiti rapporti economici esistenti tra i concorrenti, accertare l’esatto ammontare del profitto riferibile all’imputato, l’entità da sottoporre a sequestro potrà essere stabilita secondo canoni presuntivi, salvo il necessario accertamento in sede di confisca»[93].

Da ultimo, occorre dare atto di un ulteriore orientamento giurisprudenziale[94], che pare voler conciliare il principio solidaristico con l’apparentemente opposto criterio del riparto pro quota tra i concorrenti. Pur non revocando in dubbio l’impostazione prevalente, secondo cui, perduta l'individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, in ragione della corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito, la nuova tesi pare subordinare l’estensibilità dell’ambito operativo del sequestro e della futura confisca, oltre al limite di quanto effettivamente percepito dal singolo correo, all’impossibilità di determinare l’entità della quota di spettanza, fermo restando il tetto invalicabile costituito dall’ammontare complessivo del provento illecito.

La Corte precisa che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei correi anche per l’intero – beninteso, senza eccessi né duplicazioni – soltanto «ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione».

Neppure l’indirizzo intermedio sfugge alle perplessità già esposte ed, in particolare, al dubbio che, per questa via, si pervenga alla surrettizia introduzione di una pena patrimoniale, contrastante sia con il principio di legalità, trattandosi di sanzione penale non prevista dalla legge, sia con i principi di colpevolezza e di proporzione[95], laddove la misura de qua, disancorata dalla corrispondenza quantitativa con il profitto percepito, non risulta commisurabile né al disvalore del fatto né alla colpevolezza del reo. Anche con riferimento alla criminalità d’impresa, la giurisprudenza di legittimità ha seguito il medesimo indirizzo.

In particolare, posto che la responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche e che il criterio d’imputazione del fatto all'ente è la commissione del reato “a vantaggio” o “nell'interesse” del medesimo da parte di determinate categorie di soggetti, vi sarebbe «una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale»[96].

Qualora ricorrano i presupposti della responsabilità della persona fisica e della responsabilità amministrativa dell’ente, si verte in ipotesi di «responsabilità cumulativa dell’individuo e dell’ente collettivo, sussistendo un nesso tra le due forme di responsabilità che, pur non identificandosi con la figura tecnica del concorso, a essa è equiparabile, in quanto da un’unica azione criminosa scaturiscono una pluralità di responsabilità».[97]

Pertanto, si deduce la conseguenza che «deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale, in forza del quale il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei soggetti indagati anche per l’intera entità del profitto accertato, con l’unico limite che il vincolo cautelare d'indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il valore del profitto, e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità del reato non può che derivare l’unicità del profitto[98]».

Tale indirizzo interpretativo non appare condivisibile, dato che, in primo luogo, risulta tutt’altro che incontroversa la ricostruzione in termini concorsuali del nesso intercorrente tra la responsabilità individuale e quella societaria[99].

Invero, la struttura composita dell’illecito dell’ente, imperniata su criteri di ascrizione della responsabilità di cui agli artt. 5, 6 e 7 D. Lgs. n. 231 del 2001, rende ontologicamente impossibile il concorso del singolo nell’illecito della societas, per la semplice ragione che la persona fisica non può rispondere a titolo di responsabilità amministrativa da reato[100].

Dunque, la persona fisica autrice del reato presupposto e l'ente imputabile per l’illecito collegato rispondono ciascuno in forza di un autonomo titolo e dovranno pertanto subire ciascuno le rispettive sanzioni.

Peraltro, anche qualora si invocasse una responsabilità concorsuale tra persona fisica ed ente di appartenenza oppure tra più persone giuridiche, l’interprete si dovrebbe in ogni caso attenere, nella commisurazione della misura ablativa, alla quota di profitto personalmente acquisita da ciascun concorrente.

Infine, appare opportuno evidenziare un ulteriore orientamento giurisprudenziale che ha come effetto proprio l’ampliamento del raggio d’azione della confisca di valore, ammettendone l’applicazione a carico dell’ente, pur riguardo a reati per cui non è prevista alcuna responsabilità della persona giuridica.

La Corte di cassazione[101], sostenendo che le conseguenze patrimoniali dell’illecito commesso nell’interesse dell’ente ricadono comunque su quest’ultimo, salvo che si dimostri l’intervenuta rottura del rapporto organico, e che la società “beneficiata” non possa considerarsi terza estranea al reato (perché partecipa alla utilizzazione degli incrementi economici che ne sono derivati), il tutto a prescindere dalla configurabilità di una responsabilità dell’ente ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001, ha affermato la sequestrabilità/confiscabilità di beni appartenenti alla persona giuridica per reati tributari commessi nel suo interesse, pur trattandosi di ipotesi escluse dal novero degli illeciti ex D. Lgs. n. 231 del 2001.

Anche la dottrina[102] propende per l’applicazione della confisca per equivalente ai beni della società beneficiata dall’evasione fiscale, qualora il reato tributario sia commesso nell’interesse e a vantaggio dell’ente collettivo dal suo amministratore, atteso che di tali beni il reo ha comunque la disponibilità proprio in quanto amministratore della società-contribuente, evidenziandosi, inoltre, la difficoltà di considerare l’ente collettivo quale soggetto estraneo al reato, tenuto conto che il reato tributario verrebbe commesso nell’interesse della società beneficiaria dell’evasione.

Tuttavia, la scelta precisa e consapevole del legislatore di escludere i reati tributari dal catalogo delle delle fattispecie incriminatrici che possono fondare la responsabilità dell’ente non può essere superata ammettendosi l’applicabilità della confisca-sanzione anche nei confronti dei beni della persona giuridica in quanto si procederebbe ad un’autentica analogia legis, con evidenti risultati in malam partem, contrari, quindi, al principio di legalità.

Da ultimo, la Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 1256 del 10 gennaio 2013 ha sancito che i reati tributari non rientrano tra quei reati-presupposto che, commessi da soggetti apicali o subordinati della persona giuridica, nell’interesse o a vantaggio della stessa, danno luogo a responsabilità dell’ente da reato in base al D. Lgs. n. 231/2001, circostanza che consentirebbe di ricorrere alla misura cautelare della confisca. Pertanto, i beni aziendali sfuggono a tale misura, anche nella forma per equivalente, a meno che la stessa società non sia stata utilizzata solo quale “paravento” per lasciare agire i vertici nelle manovre di evasione fiscale personale.[103]

«In conclusione, nel caso di specie, ove è indiscussa la piena autonomia della struttura societaria di Unicredit spa rispetto agli indagati, è pacifico che sussistono gravi indizi che gli indagati, alcuni di essi in rappresentanza dell'ente, abbiano posto in essere la complessa trama fraudolenta in danno dell'Erario, a vantaggio e nell'interesse delle società bancarie poi confluite in Unicredit spa.

D'altra parte la società suddetta, pur non risultando affatto estranea ai reati tributari, non può essere chiamata, a legislazione vigente, a rispondere per tali reati, in quanto, come detto, nessuna fonte di legislazione primaria prevede tale titolo di responsabilità: di conseguenza la società Unicredit ed i suoi beni non possono essere destinatari di provvedimenti cautelari di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca del profitto dei reati tributari per cui si indaga, pur commessi a suo vantaggio, reati ascritti ed allo stato ascrivibili solo agli indagati-persone fisiche.»

Dunque, se, da un lato, la scelta politico-criminale del legislatore è sicuramente criticabile in quanto è fisiologico che gli adempimenti tributari di maggiore spessore e consistenza concretizzano ben precise scelte di politiche di impresa cui conseguono vantaggi indebiti per l’ente, il protagonista principale del rapporto tributario, dall’altro, tuttavia, tale vuoto normativo non può che essere superato attraverso un auspicabile intervento di riforma del D. Lgs. n. 231/2001.

A tal proposito, si segnala il recente ddl S.19 presentato in data 15 marzo 2013 dal senatore Grasso ed altri firmatari, che propone di  «estendere la responsabilità da reato degli enti ai reati tributari, colmando così una lacuna ingiustificabile sul terreno politico-criminale (si evidenzia, tra l'altro, che i reati tributari si atteggiano spesso come strumentali alla consumazione del reato di corruzione: si pensi al reato di false fatturazioni, funzionale alla creazione di provvista extracontabile destinata ad integrare una «tangente»). Sul piano della dosimetria sanzionatoria, sono state previste le sanzioni pecuniarie più gravi, unitamente alle sanzioni interdittive, per i delitti che presentano l'elemento costitutivo della «fraudolenza» o dell'«occultamento o della distruzione»: dunque, gli illeciti di cui agli articoli 2, 3, 8, 10 e 11 del decreto legislativo n. 74 del 2000». (cfr. Relazione di accompagnamento al ddl S.19)

In particolare, l'art. 8 rubricato "Modificazioni al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica" prevede l'inserimento dell'art. 25-quaterdecies (Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto), così formulato:

"1. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i delitti di cui agli articoli 4, 5, comma 1, 10-bis e 10-ter, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;

b) per i delitti di cui agli articoli 10 e 11, comma 2, la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote;

c) per i delitti di cui agli articoli 2, comma 1, 3, 8 e 11, comma 1, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a settecento quote.

2. Nei casi di condanna per i delitti indicati nel comma 1, lettere b) e c), si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore ad un anno."

[48] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2107, ALESSANDRI, Commento dell’art. 27 comma 1 Cost., in BRANCA-PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1991.

[49] FORNARI L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto Penale “moderno”, Padova 1997, 275.

[50] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2108.

[51] Cass. pen., Sez. Un., 9-7-2004, n. 29951; Cass. pen., sez. II, 14-6-2006, n. 31988.

[52] Cass. pen., Sez. Un., 9-7-2004, n. 29951; Cass. pen., Sez. Un., 24-5-2004, n. 29952; Cass. pen., Sez. II, 14-6-2006, n. 31988; Cass. pen., Sez. VI, 4-11-2003, n. 46780.

[53] Cass. pen., Sez. Un., 6-3-2008, n. 10280, in Ventiquattrore Avvocato, n. 9, 2008, 101.

[54] CHIARAVIGLIO, op. cit., 963-964.

[55] Cass. pen., sez. II, 6-7-2006, n. 30729; Tribunale di Milano, Sez. riesame, 22-10-2007, in Corr. mer., 2008, 84:«Al fine di individuare il profitto del reato di manipolazione del mercato oggetto del sequestro prodromico alla confisca per equivalente, non sono detraibili dal beneficio economico conseguito i costi che siano sostenuti a fronte di attività illecite e penalmente rilevanti, ovvero di attività di per sé lecite che, in concreto, siano state dispiegate e finalizzate alla realizzazione del reato: sono invece scomputabili gli oneri fiscali relativi a tale profitto, in quanto la loro confisca si tradurrebbe in una doppia ablazione».

[56] FONDAROLI, op. cit., 58, MAUGERI, op. cit., 564 ss.

[57] COMPAGNA, L’interpretazione della nozione di profitto nella confisca per equivalente, nota a ord. Trib. Napoli sez. riesame 6-10-2007, in Diritto penale e processo, 2007, 1645; in senso conforme EPIDENDIO, La nozione di profitto oggetto di confisca a carico degli enti, in Dir. pen. proc., 2008, 1273; LUNGHINI, Profitto del reato: problematica individuazione delle spese deducibili, in Corr. mer., 2008, 90.

[58] COMPAGNA, op. cit., 1644.

[59] La sentenza è relativa al noto procedimento penale ex D. Lgs. n. 231/2001 per truffa ai danni dello Stato contro l’ATI Impregilo-Fibe-Fisia Italimpianti in relazione all’aggiudicazione del servizio smaltimento rifiuti in Campania.

[60] Secondo il linguaggio aziendalistico o economico, il vantaggio economico deve essere inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito. EPIDENDIO, Manipolazione del mercato e sequestro preventivo delle azioni, in Corr. Mer., 2006, 644.

[61] MONGILLO, op. cit., 1765.

[62] MONGILLO, La confisca del profitto nei confronti dell’ente in cerca d’identità: luci e ombre della recente pronuncia delle sezioni unite, nota a Cass. sez. un. pen. 2-7-2008, n. 26654, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2008, 1764-1765.

[63] Cass. pen., sent. n. 46215/2009; Cass. pen., S.U., sent. n. 38691/2009; Cass. pen., sent. n. 7718/2009; Cass. pen., sent. n. 27746/2010; Cass. pen., sent. n. 35748/2010; Tribunale di Milano, 3-11-2010/3-1-2011, (caso Banca Italease).

[64] PISTORELLI, Confisca del profitto del reato e responsabilità degli enti nell’interpretazione delle sezioni unite, in Cass. pen., 2008, 12, p. 4562 ss.; FURFARO, La confisca per equivalente tra norma e prassi, in Giur.it., 2009, p. 2082.

[65] Cfr. in senso conforme Cass. pen., Sez. II, 22-2 2012, n. 20976.

[66] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2130.

[67] MAUGERI, La confisca per equivalente – ex art. 322-ter – tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di razionalizzazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, p. 792.

[68] LUNGHINI, MUSSO, La confisca nel diritto penale, in Corr. mer., Le Rassegne, 2, 2009, p. 29.

[69] FONDAROLI, op. cit., 249 ss., SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 135, MUSCO, op. cit., 22, FORNARI, op. cit., 105 ss, ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, II ed., Milano 2006, 253-254.

[70] SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 135.

[71] MUSCO, op. cit., 22-23.

[72] SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 136, MUSCO, op. cit., 23, ROMANO, op. cit., 254.

[73] FONDAROLI, op. cit., 249.

[74] PELISSERO, Commento alla L. 29 settembre 2000, in L.P., 2001, 1027.

[75] BARAZZETTA, La confisca nei reati societari (art. 2641), in I nuovi reati societari, a cura di GIARDA e SEMINARA, Padova 2002, 191.

[76] Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 9 febbraio 1995, “Welch c. Regno Unito”, serie A, n. 307-A. In questa pronuncia la Corte ha affermato che l’applicazione retroattiva di un provvedimento di confisca viola l’art. 7, comma 1, seconda parte, CEDU. Nella fattispecie, il ricorrente Welch, arrestato il 3 novembre 1986, era stato condannato il 24 agosto 1988 a 22 anni di reclusione per traffico di stupefacenti. Insieme alla pena della reclusione, il giudice di primo grado aveva disposto la confisca di 66.914 sterline inglesi in applicazione di una legge del 1986 in materia di stupefacenti, che era entrata in vigore il 12 gennaio 1987, quindi in data successiva al momento del fatto. Nella motivazione della sentenza, i giudici della Corte di Strasburgo si sono soffermati nell’indicare i caratteri che una misura di sicurezza deve possedere affinché essa, alla luce del dettato dell’art. 7 CEDU, possa essere considerata una pena, trovando piena applicazione, in questa seconda ipotesi, il principio di irretroattività. Dal testo del citato art. 7 CEDU si deduce che «il punto di partenza di ogni valutazione sull’esistenza di una pena consiste nello stabilire se la misura in questione sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato». Altri elementi utili per effettuare tale valutazione possono essere «la natura e lo scopo della misura in contestazione, la sua qualificazione nel diritto interno, i procedimenti connessi alla sua adozione ed esecuzione, nonché la sua gravità». In questo modo la Corte ha sostenuto che «per rendere efficace la tutela dell’art. 7 CEDU, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare essa stessa se un determinato provvedimento si sostanzi in una pena ai sensi della predetta disposizione», prescindendo dalla veste formale attribuita dal legislatore interno alla confisca. Nel caso del sig. Welch rimane il fatto che il ricorrente ha subito un pregiudizio più grave in conseguenza del provvedimento di quello che avrebbe subito al momento della commissione dei reati per i quali era stato condannato. Da ciò si desume, quindi, che ogni volta che sarà possibile qualificare una misura di sicurezza in termini di pena, il principio di irretroattività ex art. 7, comma 1, seconda parte, CEDU, non potrà che trovare applicazione anche per le misure di sicurezza e, nella specie, per la confisca di beni. L’interpretazione della giurisprudenza italiana, basata sul consentire la retroattività delle leggi di applicazione delle misure di sicurezza appare, pertanto, in contrasto con l’art. 7 CEDU, disposizione che conferisce al cittadino «una garanzia più ampia di quella fornitagli dalla Costituzione italiana».

[77] Cfr. in senso conforme Cass. pen., sentenza n. 42462 del 30 novembre 2010, secondo la quale «per effetto del rinvio contenuto nel citato art. 1, comma 143, le disposizioni di cui all’art. 322-ter c.p. si applicano nella loro interezza ai reati tributari e non solo il primo comma, che limita la confisca per equivalente al prezzo del reato e questo è dovuto al fatto che la disciplina dettata dal primo e secondo comma dello stesso articolo tiene conto della specifica natura dei reati e dei soggetti che ne sono autori, ai quali deve applicarsi la misura di ablazione non solo al prezzo del reato, bensì al profitto». Pertanto, la Corte ha ristretto l’applicazione della confisca per equivalente, escludendo la possibilità di attuarla nei casi di reati tributari commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 143, della Legge Finanziaria in esame.

[78] L’art. 13 del D. Lgs. n. 74/2000 recita: «1. Le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. 2. A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’art. 19, comma 1. 3. Della diminuzione di pena prevista dal comma 1 non si tiene conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria a norma dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689».

[79] MUSCO – ARDITO, Diritto penale tributario, 2010, 74.

[80] ROMEO, La confisca per equivalente in ambito tributario, in Fiscalitax, 2009, 395.

[81] MUSCO – ARDITO, op. cit., 75.

[82] DEL SOLE, E’ costituzionalmente compatibile l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente?, nota a ord. Trib. Trento 12-2-2008, in Corriere tributario, 2008, 2601.

[83] Continuando in scansione cronologica, si ricordano: l’art. 2641 c.c., che dispone la confisca di denaro o beni di valore equivalente rispetto al prodotto, al profitto e agli instrumenta del reato, qualora non sia possibile l’individuazione e l’apprensione diretta di questi ultimi; l’art. 600-septies c.p., riformulato dall’art. 15, comma 5, L. 11 agosto 2003, n. 228, con riferimento alla confisca dell’equivalente del profitto di delitti di pedopornografia (e altri contro la libertà personale); l’art. 187-sexies D. Lgs. n. 58 del 1998, che prevede la confisca dell’equivalente del profitto e del prodotto dei reati di insider trading e di manipolazione del mercato; l’art. 11 L. 16 marzo 2006, n. 146, che contempla la confisca di valore in relazione al prodotto, prezzo e profitto di determinati reati posti in essere dal crimine organizzato internazionale; l’art. 648-quater c.p., introdotto dall’art. 63, comma 4, D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, relativo alle somme di denaro, ai beni o alle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo dei reati di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.); l’art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244, che ha esteso la confisca (anche per equivalente) ex art. 322-ter c.p. ai reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74; l’art. 474-bis c.p., inserito dall’art. 15, comma 1, lett. c), L. 23 luglio 2009, n. 99, che prevede la confiscabilità per equivalente del profitto dei reati di contraffazione (artt. 473 e 474 c.p.).

[84] ROMANELLI, Confisca per equivalente e concorso di persone nel reato, nota a Cass. sez. VI pen. 2-8-2007, n. 31690, Cass. sez. VI pen. 14-9-2007, n. 34878, Cass. sez. VI pen. 20-9-2007, n. 35120, in Diritto penale e processo, 2008, 870.

[85] Cass. Sez. VI, 27 gennaio 2005, in Rep. Foro it., 2005, 57, PELISSERO, op. cit., 1029.

[86] Cass. Sez. VI, 13 marzo 2006, n. 12852, in Riv. Pen., 2006, 939.

[87] Cass. pen., SS.UU., sent. n. 41396/2005, Muci.

[88] PELISSERO, Commento all'art. 3 l. 29 febbraio 2000, n. 300, in Leg. pen., 2001, p. 1030.

[89] Cass. pen., sez. VI, 14 giugno 2007, n. 30966, in Cass. pen., 2008, p. 963.

[90] Cfr., tra le molte, Cass. pen., sez. II, 14 giugno 2006, Chetta, in Giur. it., 2009, p. 966; Cass. pen., sez. II, 6 luglio 2006, Carere, in Guida. al dir., 2006, 40, p. 117; Cass. pen., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 5401, in CED Cass. pen., n. 242777; Cass. pen., sez. fer., 8 luglio 2009, Alloum, in Cass. pen., 2010, p. 3102. Conf. Cass. pen., sez. II, 22 giugno 2011, n. 25994.

[91] ROMANELLI, op. cit., 874.

[92] Cfr., tra gli altri, FONDAROLI, op. ult. cit., p. 259 ss.; SANTORIELLO, In tema di sequestro e confisca per equivalente, in Giur. it., 2007, p. 968; ROMANELLI, Confisca per equivalente e concorso di persone nel reato, in Dir. pen. proc., 2008, p. 868; VERGINE, Confisca e sequestro per equivalente, cit., p. 239 ss.; BALDUCCI, Confisca "per equivalente" e concorso di persone nel reato, in Cass. pen., 2010, p. 3104; LORENZETTO, Sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore nei rapporti tra persona fisica ed ente, in Cass. pen., 2010, p. 4276.

[93] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 giugno 2007, n. 31690, in CED Cass. pen., n. 236900; Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 25877, ivi, n. 234850; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10690, ivi, n. 243189.

[94] Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), Fisia Italimpianti e altri, decisione già diffusamente trattata in precedenza.

[95] FIANDACA-MUSCO, op. cit., 638-639.

[96] Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), Fisia Italimpianti e altri, decisione già diffusamente trattata in precedenza.

[97] Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611.

[98] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 27 settembre 2006, Troso, in Le Società, 2008, p. 241;Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 19764, in Guida al dir., 2009, 26, p. 82; Cass. pen., Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611, in Cass. pen., 2010, p. 4274; Cass. pen., Sez. I, 27 ottobre 2009, n. 42894, in Guida al dir., 2010, Dossier 2, p. 93.

[99] DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, II ed., Milano, 2010, p. 136 ss., la quale sostiene che «le analogie con il diritto antropomorfico non siano così forti da legittimare l’inquadramento teorico all’interno dell’istituto concorsuale», essendo più coerente interpretare il congegno normativo de quo «in modo da ritenere che la responsabilità dell’ente, seppure appoggiata su quella delle persone fisiche autrici del reato, sia differente da questa (in quanto caratterizzata da una diversa tipicità soggettiva) ed emancipata dalla medesima: in fondo […] l’illecito dell’ente non si esaurisce nel reato, ma presuppone a monte una condotta (colposa) di omessa organizzazione, che è opportuno massimamente valorizzare per controbilanciare l’evanescenza di un impianto fondato tutto ed esclusivamente su elementi normativi».

[100] TUTINELLI, Solidarietà tra ente e persona fisica in tema di sequestro per equivalente, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2009, 4, p. 91 ss.

[101] Cfr. Cass. pen., sez. III, 07 giugno 2011 (dep. 19 luglio 2011), n. 28731.

[102] G. SALCUNI, I reati tributari. Parte generale, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 493; A. PERINI, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen.,Torino, 2008, 943 ss.

[103] I tentativi di aggressione da parte della magistratura inquirente dei patrimoni societari, per la commissione di reati tributari, non si esauriscono nell’appena riferito orientamento giurisprudenziale. Cfr. Cass. pen., sez. II, sent. 29 settembre-28 ottobre 2009, n. 41488: «Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo cui non è configurabile il concorso fra il delitto di frode fiscale ex art. 2 D. Lgs. n. 74/2000 e quello di truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640, cpv., n. 1, c.p., dovendosi ritenere il secondo consumato nel (ovvero in rapporto di specialità con il) primo, con la conseguenza che, verificandosi l'assorbimento nel delitto di frode fiscale di quello di truffa aggravata, è impedita l'applicazione della confisca per equivalente, non prevista dalla legge anche per i reati tributari, se non per i fatti - qui pacificamente non ricorrenti - successivi all'entrata in vigore della legge finanziaria 2008, n. 244/2007. Le conclusioni di siffatto univoco indirizzo giurisprudenziale valgono sia per la responsabilità penale delle persone fisiche che per quella c.d. “amministrativa” delle persone giuridiche. Il principio di legalità, cui è ispirato l'intero sistema penale nonché l'ordinamento settoriale della responsabilità degli enti, impedisce infatti che possa “scomporsi” il reato complesso - ovvero qualsiasi altra figura criminosa che ne assorba un'altra, esaurendo in sé l'intero disvalore del fatto - al fine di far derivare, da una parte artificialmente separata della condotta posta in essere ed isolatamente riguardata, quelle conseguenze sanzionatorie che solo da essa, e non invece da quella globalmente considerata dalla legge, conseguirebbero. Il tribunale ha dunque violato il principio di stretta legalità, ritenendo applicabile all'ente una sanzione (quale deve essere considerata la confisca per equivalente) in ordine ad un'ipotesi criminosa (la contestata frode fiscale) che non la contempla; e ciò ha compiuto sia mediante la descritta, ardita in direzione - ai fini elusivi della legge - consistente nel valorizzare esclusivamente gli elementi della truffa aggravata contenuti nel delitto tributario, del quale - è bene precisarlo - il legislatore ha escluso finora la natura di reato presupposto della responsabilità degli enti, non avendolo mai inserito nel catalogo contenuto nella sezione III, capo I, d.lgs. n. 231/2001; sia ritenendo irragionevolmente (dunque con manifesta illogicità) “scomponibile” il delitto di frode fiscale - al fine di apprezzarne penalmente una sua parte - solo con riguardo alla responsabilità della persona giuridica, avendo viceversa esattamente escluso siffatta creativa operazione ermeneutica ne

3. Il profitto del reato: la consistenza della nozione

Il profitto è considerato il frutto moderno della nuova collocazione della confisca in un diritto penale che pone al suo centro il rapporto intercorrente tra il singolo individuo e il fatto[48]. Invero, solo nella modernità il profitto acquista un ruolo centrale, non solo per qualificare un intero settore dell’attività criminale[49], ma soprattutto assumendo il compito di orientare la struttura e l’incidenza di una gamma sanzionatoria, che spazia dalla pena pecuniaria, alla confisca, alle misure ante-delictum[50].

A testimonianza della sua centralità contribuisce anche il passaggio da oggetto della confisca facoltativa così come previsto dall’art. 240 c.p. a scopo dell’applicazione obbligatoria dell’istituto in caso di condanna o sentenza di patteggiamento in virtù delle leggi speciali che disciplinano le nuove ipotesi di confisca.

Pertanto, il profitto costituisce il perno su cui ruotano importanti strumenti punitivi, la cui operatività è condizionata dall’ampiezza che si ritiene dover attribuire alla relativa nozione. Negli ultimi anni la giurisprudenza di legittimità è infatti intervenuta spesso per precisare i confini della relativa nozione. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul grado di collegamento esistente tra reato e vantaggio economico necessario per poter qualificare quest’ultimo come profitto del primo.

In particolare, la Corte di Cassazione definisce il profitto confiscabile come «il vantaggio di natura economica che deriva dall’illecito, quale beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, di diretta derivazione causale dall’attività del reo[51]».Le Sezioni Unite riconoscono il principale criterio selettivo del profitto confiscabile nella sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, vale a dire che «occorre una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito[52]». Pertanto il parametro della pertinenzialità al reato del profitto costituisce un elemento basilare che permette di individuare, effettivamente, ciò che può essere confiscato a tale titolo.

A tale criterio di selezione si ispira anche la pronuncia delle Sezioni Unite 6 marzo 2008, n. 10280, che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, ha privilegiato una nozione di profitto in senso estensivo, ricomprendendovi anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato che tale reimpiego è comunque causalmente ricollegabile al reato e al profitto immediato dello stesso[53]. In tale decisione si nega che il reo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all’escamotage di trasformare l’identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque individuabile nel frutto del reimpiego, anch’esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla base di chiari elementi indiziari evincibili dalla concreta fattispecie, all’attività criminosa posta in essere dall’agente[54].

Un ulteriore problema interpretativo riguarda il metodo da impiegare ai fini della individuazione e della quantificazione in termini concreti del profitto. In mancanza di una definizione normativa, uno dei criteri, presi in considerazione dalla giurisprudenza[55] e dalla dottrina maggioritaria, per circoscrivere l’area del profitto, risulta essere quello dettato dalla distinzione tra «netto» e «lordo»[56]. Nello specifico, si discute se deve accogliersi una nozione più ristretta, più vicina alla sua accezione economica, come margine di guadagno del reo, senza tenere conto delle spese sostenute e connesse alla commissione del reato (profitto netto), oppure in senso più ampio, come insieme di valori che affluiscono al reo, comprendendo così il ricavo complessivo tratto dal reato (profitto lordo). La questione si pone soprattutto con riferimento alla criminalità d’impresa ed alla illecita aggiudicazione, a seguito dei reati di truffa o corruzione, di contratti di forniture di enti pubblici. Occorre verificare se nel profitto del reato rientri l’importo complessivo dell’appalto aggiudicato in virtù dell’accordo corruttivo o viziato dalla frode oppure vadano comunque detratte le spese affrontate dalla società in esecuzione del contratto. Secondo la dottrina prevalente, «la nozione di profitto non può che essere ragionevolmente interpretata in termini di utile, di netto, mediante l’effettivo accertamento del risultato economico complessivo derivato dal reato.

Solo laddove un simile accertamento non risulti concretamente esperibile per mancanza dei dati necessari, potrà eventualmente ipotizzarsi il ricorso a criteri di natura presuntiva[57]». Invero, è l’utile stesso, e non il ricavo, a costituire il beneficio aggiunto, dall’altro perché la confisca disciplinata dall’art. 19 in esame ha, a tutti gli effetti, una natura sanzionatoria che richiede la determinatezza del suo oggetto. Infatti, nel caso specifico, lo scopo dell’ente collettivo è quello di ottenere dall’illecito un vantaggio che non consiste nel mero conseguimento di un ricavo, ma nella realizzazione di un utile[58].

Una considerazione tanto più vera con riferimento all’attività d’impresa, in cui il reato è normalmente frutto di una scelta razionale, che tiene conto del rapporto costi/benefici e dove l’impulso a reiterare il reato può emergere dal grado di convenienza dell’iniziativa criminosa, e quindi dal saldo attivo, e non dalla dimensione complessiva dell’affare. Sul punto, però, è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite del 27 marzo 2008, n. 26654[59], che ha affermato il seguente principio di diritto: «Il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto – ai sensi degli artt. 19 e 53 D. Lgs. 231/2001 – nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente». Dunque, può costituire profitto solo un risultato che sia suscettibile di valutazione positiva dal punto di vista economico, nonostante il concetto di “vantaggio economico” non possa coincidere con l’utile netto aziendalistico-contabile[60], bensì con il beneficio economico complessivamente affluito per effetto del reato.

E’ imputabile a profitto solo un ricavo concretamente conseguito e non un’utilità futura o potenziale, anche nel caso in cui si tratti di credito certo, liquido ed esigibile[61]. Tuttavia, la Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza n. 8740 del 22 febbraio 2013, non condividendo il suddetto orientamento delle Sezioni Unite, ha statuito che: «Nemmeno, infine, può negarsi aprioristicamente, ai fini dell’applicazione della misura cautelare reale, che un credito che sia certo, liquido ed esigibile possa costituire un’“utilità” ex artt. 19, comma secondo, e 53 D.Lgs. n. 231/2001, in quanto l’ente creditore ben potrebbe comunque cederlo a titolo oneroso e acquisire in tal modo un effettivo incremento patrimoniale.»

Si avverte, quindi, come, nel linguaggio penalistico, l’espressione “vantaggio economico” assuma un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello aziendalistico[62]. In particolare la decisione delle Sezioni Unite ha introdotto un rilevante elemento di novità, affermando la necessità di distinguere – nel valutare il nesso di diretta derivazione causale dal reato – tra la condotta dell’agente che si sia inserita in un contesto di «attività totalmente illecita» e la condotta inserita in un’attività lecita «nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato».

In base a tale distinzione si ritiene che nella prima ipotesi l’intero vantaggio economico costituisce immediata e diretta conseguenza del reato e, di conseguenza, può essere interamente assoggettato a confisca (c.d. reati contratto); nella seconda ipotesi (situazione in cui l’illiceità non connota l’intera fase del rapporto, cd. reati in contratto) il profitto tratto dall’agente dall’attività lecita non è confiscabile/sequestrabile in quanto «la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento.»

In conclusione, si evidenzia come in un appalto pubblico di opere o di servizi, pur acquisito a seguito di aggiudicazione viziata da illiceità, l’appaltatore, che nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita.

Tale interpretazione troverebbe conferma nella disposizione di cui all’art. 19 del D. Lgs. n. 231/2001 quando prevede che la confisca del profitto del reato non va disposta per quella «parte che può essere restituita al danneggiato». Dunque, l’utilitas deducibile sarebbe l’effettivo vantaggio che il danneggiato ottiene dall’esecuzione, ancorché parziale, delle pattuizioni contrattuali; i costi, invece, costituiscono gli esborsi sostenuti dal reo, i quali non si traducono automaticamente in utilità per il soggetto danneggiato. Pertanto, in presenza di un contratto illecitamente acquisito, secondo questa impostazione, occorre verificare, in concreto, se le somme investite nel corso della sua attuazione abbiano, in modo tangibile, giovato al danneggiato, consentendogli di ottenere, almeno in parte, il risultato atteso.

Una parte della giurisprudenza successiva[63] ed alcuni autori in dottrina[64] si sono allineati alla decisione delle Sezioni Unite in esame. Tuttavia, in merito al quantum del profitto confiscabile in un contesto di regolare esecuzione di un contratto pur viziato, nella genesi, da un illecito penale, si presta a letture eccessivamente indulgenti per i responsabili di un illecito “amministrativo” ex D. Lgs. n. 231/2001 o di un illecito penale individuale, la seguente affermazione delle Sezioni Unite: «il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure».

Infatti, anche la societas o l’imprenditore individuale, responsabili di un reato di corruzione, che abbiano interamente adempiuto alle obbligazioni contrattuali, avranno, in condizioni di ordinaria redditività, incamerato un guadagno. Si tratta proprio dell’utile aziendalistico, vale a dire i ricavi meno i costi di gestione del contratto, ripudiato dalla sentenza Impregilo come base di calcolo del profitto confiscabile. A tal proposito, è opportuno analizzare il caso oggetto della sentenza n. 11808/2012 della Corte di Cassazione (“sentenza Angelucci”): attraverso una corruzione propria aggravata, un’azienda sanitaria otteneva un appalto di gestione delle residenze sanitarie assistenziali della regione Puglia. L’appalto durava sette anni e veniva regolarmente eseguito dall’aggiudicatario corruttore, facendo maturare un utile netto di gestione di circa 7 milioni di euro e tale importo veniva sequestrato sia alla società che al suo amministratore. Pertanto, nella specie, all’aggiudicazione illecita del contratto aveva fatto seguito la corretta attuazione del programma negoziale. Secondo il ragionamento della II Sezione, «se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica … Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività d’impresa»[65].

Il suddetto principio appare condivisibile nella parte in cui evita di sottrarre in toto al raggio operativo della misura ablatoria le operazioni economiche viziate da un reato, ma connotate da una corretta esecuzione negoziale. Il criterio del netto – unitamente all’elaborazione di una approfondita teoria dei costi deducibili – sembra quello preferibile e maggiormente conforme ai principi garantistici che devono assistere le sanzioni; consente infatti di rimuovere ciò che costituisce impulso alla commissione del reato, soprattutto nell’ambito della criminalità d’impresa (l’utile netto), ma al tempo stesso rispetta con maggior puntualità il principio di proporzione. Si può dire, in conclusione, che nella recente legislazione l’istituto della confisca, nelle sue varie possibilità morfologiche, compare costantemente ogni volta che venga in considerazione un’attività criminosa nella quale il profitto, inteso come arricchimento economico, svolga un ruolo significativo.

Si tratta di una nozione astratta che allude alla sfera dell’agire economico in senso ampio che va dall’attività imprenditoriale all’acquisizione indebita di utilità economiche altrui, rispetto alla quale la confisca del profitto assume il ruolo di ammonimento punitivo[66].

4. La confisca per equivalente: focus sul concorso di persone e sui reati tributari

Il principale limite operativo della confisca ordinaria ex art. 240 c.p. consiste nell’imporre indefettibilmente l’accertamento di un nesso di diretta derivazione causale tra i proventi confiscabili ed il reato-presupposto, impedendo pertanto di procedere all’ablazione nel caso in cui i frutti ricavati dal reato siano stati distrutti, nascosti, o ceduti ad acquirenti in buona fede o comunque rimessi nel circuito dell’economia legale, sì da far perdere traccia dell’origine illecita[67].

Esistono, altresì, casi in cui la confisca diretta del profitto appare ontologicamente inapplicabile[68], ossia quando l’illecito vantaggio economico derivante dal reato sia costituito dai c.d. “risparmi di spese dovute”, rispetto ai quali non solo risulta difficile parlare di una “provenienza” dal reato, dal momento che trattasi di utilità già presenti nel patrimonio del reo, ma che non possono essere puntualmente individuati, consistendo in una quota patrimoniale ideale, e dovendosi, perciò, intendere non tanto alla stregua di un accrescimento delle disponibilità economiche del reo, quanto di un mancato depauperamento delle stesse. Siffatti impedimenti sono stati superati grazie all’introduzione di uno strumento ablativo particolarmente duttile ed elastico, che sposta il “fuoco” della confisca dai beni costituenti provento del reato-presupposto ad altre cose, nella disponibilità dell’indagato/imputato, di valore economico equivalente.

Pertanto, la capacità afflittiva della confisca e, di conseguenza, delle misure di sicurezza, trova la sua massima espressione nella figura della confisca per equivalente o di valore, vale a dire la possibilità di estendere la misura a «beni di valore corrispondente» a quelli che, secondo la disposizione normativa, costituiscono oggetto della figura ablativa[69].

Le norme in materia di confisca di valore stabiliscono che devono essere presi in considerazione non solo beni, ma anche somme di denaro, purché di valore equivalente a quello dei beni aggredibili. Questo istituto, infatti, consente l’apprensione di qualunque bene, anche di provenienza lecita, che si trovi nella disponibilità del soggetto, a prescindere dalla sua connessione con il reato[70] nel caso in cui risulti impossibile individuare i beni effettivamente coinvolti nella dinamica delittuosa[71]. L’estensione della confisca per equivalente ai beni e alle somme di denaro non coinvolte originariamente nel reato rende palese la sua funzione sanzionatoria[72], trattandosi di una misura sostanzialmente afflittiva[73].

E’ da escludersi la possibilità che tale figura possa essere applicata nelle ipotesi in cui l’utilità derivante dall’attività criminosa non abbia natura patrimoniale, in quanto ricorrerebbe il rischio di rimettere la valutazione della stessa alla totale discrezione del giudice[74]. Lo scopo dell'istituto è quello di impedire che l'impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso.

L’ampliamento dell'ambito oggettivo delle cose confiscabili anche a quelle non originariamente coinvolte nella dinamica criminosa è il motivo per cui, nonostante la definizione codicistica dell'istituto come misura di sicurezza patrimoniale, la dottrina ritiene che l'effettiva ratio dello stesso abbia finalità sanzionatorie, accompagnate dal valore rieducativo e afflittivo proprio della pena[75]. La riconduzione della confisca per equivalente o di valore alla categoria delle pene è stata sottolineata anche dalla Corte Costituzionale in una ordinanza (n. 97 del 2009), che, in riferimento ai reati tributari, non solo riconosce a tale misura ablativa il valore di pena, ma anche il carattere dell’irretroattività tipico del nostro sistema penale.

Nello specifico, la Consulta, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 200, 322-ter c.p. e 1, comma 143 L. n. 244 del 2007 sollevata per violazione degli artt. 7 CEDU[76] e 117 Cost., ha ritenuto erronea l’interpretazione fornita dal giudice a quo poiché l'art. 1, comma 143, della L. n. 244/07 (con il quale la disciplina della confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p. è stata estesa ai reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter e 11 del D. Lgs. n. 74 del 2000) non opera retroattivamente[77].

Appare opportuno evidenziare, altresì, che l’estensione ai reati tributari della confisca per equivalente è stata attuata senza tener presente alcune problematiche applicative, considerando, ad esempio, l’art. 13 del D. Lgs. n. 74/2000[78], che prevede il pagamento delle imposte come circostanza attenuante e non come causa di estinzione del reato. Di conseguenza, la confisca sarebbe irrogabile anche in presenza di avvenuto pagamento del debito d’imposta, determinando un indebito arricchimento dell’Erario ai danni del contribuente[79]. Qualora ciò si verificasse, il giudice, sulla base dell’inciso «in quanto compatibili» contenuto nell’art. 1, comma 143, L. n. 244/2007, potrebbe non disporre l’applicazione della confisca dato l’intervenuto pagamento delle imposte, che soddisfa ugualmente il credito erariale[80].

Inoltre, a causa dell’autonomia dei due processi, amministrativo e penale, si potrebbero ottenere due sentenze differenti che prevedono l’una l’assoluzione e l’altra la condanna comportando effetti incongrui nell’ipotesi di condanna in sede penale[81]. È con la riforma del reato di usura che la confisca per equivalente ha acquisito una fisionomia tipica anche nel diritto penale italiano[82]. Infatti, con l’art. 644 c.p., novellato dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, è stata introdotta, in relazione al reato di usura, l’obbligatorietà, sia in caso di condanna sia in caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, della confisca del prezzo o del profitto, ovvero delle somme di denaro, beni o utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona, corrispondenti al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.

Successivamente, l’art. 3 della L. 19 settembre 2000, n. 300, con cui sono state ratificate alcune Convenzioni internazionali, tra le quali la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri del 17 settembre 1997, ha inserito nel codice penale gli articoli 322-ter e 640-quater, estendendo la confisca per equivalente a gran parte dei delitti contro la Pubblica Amministrazione (artt. 314-320 c.p.), nonché ai delitti di truffa aggravata e frode informatica (artt. 640, comma 2, n. 1; 640-bis e 640-ter c.p.).

La confisca per equivalente è stata introdotta, altresì, a carico dell'ente collettivo, ai sensi dell'art. 19, comma 2, del D. Lgs. n. 231/2001, nel caso di reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, quando la confisca obbligatoriamente disposta non possa essere eseguita sui beni costituenti prezzo o profitto dell'illecito.[83] Passando all'analisi specifica dell'art. 322-ter c.p., tale disposizione dispone, nella prima parte del primo comma, «nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessa dai soggetti indicati nell'articolo 322-bis, primo comma», l’obbligatorietà della confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo.

L’ultimo periodo del primo comma, invece, disciplina la confisca per equivalente nei confronti dei beni di cui il reo dispone per un valore equivalente al solo prezzo del reato, fatti salvi, in ogni caso, i beni che appartengono a persona estranea al reato. La previsione della confisca di valore solo rispetto al prezzo del reato e non anche al profitto, contenuta nell’articolo in questione, ha dato luogo a due diversi orientamenti giurisprudenziali[84].

Il primo ammette l’applicazione di questo istituto anche in relazione al profitto del reato operando un’interpretazione estensiva della formulazione letterale della disposizione[85]; il secondo, invece, invocando il tenore testuale della norma, esclude la possibilità di interpretazioni estensive e ritiene che sia applicabile solo in relazione al prezzo del reato[86]. Le Sezioni unite, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dall’interpretazione giudiziale, sentenziano che non sussiste « … alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell’art. 322-ter, comma 1, c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato», sicchè, con «riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall’art. 322-ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto» (Cass. pen., Sez. un., 25 giugno 2009, n. 38691; conf. Cass. pen., Sez. VI, 18 marzo 2011, n. 22502).

Da ultimo, l'art. 1, comma 75, della L. 6 novembre 2012 n. 190 ha novellato l'ultima parte del primo comma dell'art. 322-ter c.p., inserendo dopo le parole «a tale prezzo» l'inciso «o profitto». Dall'analisi dell'art. 322-ter c.p. si evince che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente e l'assenza di un rapporto di pertinenzialità (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni impediscono l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'art. 200 c.p. Anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2005[87] hanno affermato che pur a fronte di un’evoluzione normativa dell’istituto, il quale ha assunto una fisionomia ibrida e polivalente, la confisca aderisce ad una logica sanzionatoria, in chiave di prevenzione e di strumento strategico di politica criminale, volto a contrastare fenomeni sistemici di criminalità economica e di criminalità organizzata. Nel fissarne l’essenza, le Sezioni Unite hanno poi aggiunto che «costituendo una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, la confisca per equivalente assume preminente carattere sanzionatorio».

Autorevole dottrina[88] ritiene di poter rilevare un’«esasperazione dei profili punitivi» della confisca del profitto (anche per equivalente), tale da snaturarne la funzione prevalentemente compensativa e di riequilibrio economico, nella previsione dell’art. 322-ter c.p., in relazione alla confiscabilità delle somme di denaro solo promesse ma non effettivamente erogate al pubblico ufficiale concussore o corrotto e, nel caso della corruzione attiva, circa la possibilità di aggredire somme o beni di valore superiore a quanto realmente percepito dal corruttore. Sotto il primo profilo, in materia di concussione e corruzione passiva, si è ritenuto assoggettabile a confisca ex art. 322-ter, comma 1, c.p., quale prezzo del reato, l’utilità materialmente corrisposta al corrotto o, alternativamente, quella soltanto promessa, se la dazione non ha luogo.[89]

Così d’altra parte, l’art. 322-ter, comma 2, c.p., in tema di corruzione attiva ex art. 321 c.p., prevede che il valore dei beni confiscati per equivalente al corruttore non può essere «inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio […]». Laddove tale disposizione venisse interpretata nel senso di consentire la confisca di beni di valore equivalente alla “tangente” versata anche nel caso in cui il corruttore non abbia ottenuto alcun profitto dalla condotta corruttiva, si attribuirebbe alla misura de qua una connotazione spiccatamente afflittiva, assimilandola «alla previsione di una pena pecuniaria aggiuntiva alla pena detentiva».

Sembrerebbe orientarsi nella direzione segnalata la recente sentenza della Cassazione penale, sez. VI, 4 giugno 2010, n. 21027, secondo cui: «La confisca per equivalente, relativa al reato di corruzione non presuppone necessariamente il conseguimento, da parte del corruttore, di un profitto, stante la natura sanzionatoria della misura». Simile impostazione condurrebbe a configurare la confisca di valore alla stregua di una pena patrimoniale di dubbia legittimità costituzionale, ponendosi in tensione con i principi di proporzione e colpevolezza, nella misura in cui la sua commisurazione dipende esclusivamente dall’entità della tangente, indipendentemente dalla gravità del reato e dalla colpevolezza del reo.

Peraltro, l'istituto in esame dovrebbe trovare il suo unico criterio di legittimazione e limite quantitativo nell’esatto arricchimento provocato dall’illecito. Una delle principali questioni che si sono poste con riferimento all’istituto de quo ha riguardato l’applicabilità della confisca e del provvedimento cautelare di sequestro preventivo nel caso di concorso di persone nel reato e in generale nei casi in cui ricorre la responsabilità di più soggetti, comprese le persone giuridiche. Come sottolineato in precedenza, nella confisca per equivalente non assume rilevanza il nesso di pertinenza tra il reato e la cosa da confiscare e pertanto, dovendo reperirsi una qualunque somma di denaro nella disponibilità degli indagati, si deve stabilire se ed in che misura il provvedimento possa colpire indifferentemente uno o tutti gli indagati.

Seguendo l'orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, atteso il carattere eminentemente sanzionatorio della confisca per equivalente, in caso di pluralità di persone fisiche nella commissione dell’illecito, si applica il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intero fatto di reato e delle conseguenze sanzionatorie relative in capo a ciascun concorrente.

Da tale peculiare forma di solidarietà passiva deriverebbe che la confisca per equivalente possa interessare ciascun concorrente per l’intera entità del profitto, salvo l’eventuale riparto del relativo onere tra i concorrenti che – in quanto questione interna ai loro rapporti – non interesserebbe il diritto penale. Quindi, in caso di concorso nel reato, la confisca di valore può essere applicata per l’intero nei confronti anche di uno solo dei concorrenti, a prescindere dall’effettivo profitto che questi abbia tratto dal reato[90].

La ragione di tale “scelta” ermeneutica sembra essere quella di utilizzare lo strumento della confisca nel modo più ampio possibile, proprio con finalità afflittive, tendenza che, più che derivare dall’elevata considerazione che viene riconosciuta alla confisca di valore quale efficace strumento di repressione del crimine economico, è determinata dai gravi problemi che affliggono il sistema penale in relazione alla carenza della certezza della pena[91].

Siffatto modus operandi della confisca per equivalente e del prodromico sequestro preventivo è stato bersaglio di unanime censura in dottrina, sotto un triplice ordine di profili[92]. In primo luogo, si applicherebbero impropriamente al settore penale categorie mutuate dall’ambito civilistico, confondendo le obbligazioni solidali di contenuto restitutorio e risarcitorio ex artt. 185 e 187 c.p., che incombono sull’autore del fatto, nonché sui responsabili civili, tenuti a rispondere delle conseguenze dannose del reato stesso, con la misura ablativa della confisca, mirata a neutralizzare il vantaggio economico di derivazione illecita.

Inoltre, verrebbe negato radicalmente il principio di proporzionalità della pena, che impone, riguardo alla pena sui generis rappresentata dalla confisca de qua, l’esatta equivalenza tra il valore confiscato ed il provento conseguito dal reo e, parimenti, dal singolo concorrente, per effetto del reato. Infine, la dottrina più autorevole ha notato come l’applicazione del sequestro preventivo per equivalente e della corrispondente misura ablativa definitiva nei confronti di uno solo dei concorrenti, a prescindere dalla porzione del profitto effettivamente incamerata, possa condurre ad esiti di palese iniquità ed irragionevolezza sotto molteplici punti di vista, come, ad esempio, un’ingiustificata disparità di trattamento tra chi ha tratto un minimo profitto o non ne ha tratto affatto e chi ne ha ricavato il massimo o l’intero.

Appare, invece, apprezzabile l’alternativo indirizzo della Cassazione, seppur minoritario, secondo il quale, in caso di concorso nel reato, la confisca per equivalente non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura del profitto a lui attribuibile, con la precisazione che «solo laddove non sia possibile, anche in ragione dei non ancora definiti rapporti economici esistenti tra i concorrenti, accertare l’esatto ammontare del profitto riferibile all’imputato, l’entità da sottoporre a sequestro potrà essere stabilita secondo canoni presuntivi, salvo il necessario accertamento in sede di confisca»[93].

Da ultimo, occorre dare atto di un ulteriore orientamento giurisprudenziale[94], che pare voler conciliare il principio solidaristico con l’apparentemente opposto criterio del riparto pro quota tra i concorrenti. Pur non revocando in dubbio l’impostazione prevalente, secondo cui, perduta l'individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, in ragione della corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito, la nuova tesi pare subordinare l’estensibilità dell’ambito operativo del sequestro e della futura confisca, oltre al limite di quanto effettivamente percepito dal singolo correo, all’impossibilità di determinare l’entità della quota di spettanza, fermo restando il tetto invalicabile costituito dall’ammontare complessivo del provento illecito.

La Corte precisa che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei correi anche per l’intero – beninteso, senza eccessi né duplicazioni – soltanto «ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione».

Neppure l’indirizzo intermedio sfugge alle perplessità già esposte ed, in particolare, al dubbio che, per questa via, si pervenga alla surrettizia introduzione di una pena patrimoniale, contrastante sia con il principio di legalità, trattandosi di sanzione penale non prevista dalla legge, sia con i principi di colpevolezza e di proporzione[95], laddove la misura de qua, disancorata dalla corrispondenza quantitativa con il profitto percepito, non risulta commisurabile né al disvalore del fatto né alla colpevolezza del reo. Anche con riferimento alla criminalità d’impresa, la giurisprudenza di legittimità ha seguito il medesimo indirizzo.

In particolare, posto che la responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche e che il criterio d’imputazione del fatto all'ente è la commissione del reato “a vantaggio” o “nell'interesse” del medesimo da parte di determinate categorie di soggetti, vi sarebbe «una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale»[96].

Qualora ricorrano i presupposti della responsabilità della persona fisica e della responsabilità amministrativa dell’ente, si verte in ipotesi di «responsabilità cumulativa dell’individuo e dell’ente collettivo, sussistendo un nesso tra le due forme di responsabilità che, pur non identificandosi con la figura tecnica del concorso, a essa è equiparabile, in quanto da un’unica azione criminosa scaturiscono una pluralità di responsabilità».[97]

Pertanto, si deduce la conseguenza che «deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale, in forza del quale il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei soggetti indagati anche per l’intera entità del profitto accertato, con l’unico limite che il vincolo cautelare d'indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il valore del profitto, e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità del reato non può che derivare l’unicità del profitto[98]».

Tale indirizzo interpretativo non appare condivisibile, dato che, in primo luogo, risulta tutt’altro che incontroversa la ricostruzione in termini concorsuali del nesso intercorrente tra la responsabilità individuale e quella societaria[99].

Invero, la struttura composita dell’illecito dell’ente, imperniata su criteri di ascrizione della responsabilità di cui agli artt. 5, 6 e 7 D. Lgs. n. 231 del 2001, rende ontologicamente impossibile il concorso del singolo nell’illecito della societas, per la semplice ragione che la persona fisica non può rispondere a titolo di responsabilità amministrativa da reato[100].

Dunque, la persona fisica autrice del reato presupposto e l'ente imputabile per l’illecito collegato rispondono ciascuno in forza di un autonomo titolo e dovranno pertanto subire ciascuno le rispettive sanzioni.

Peraltro, anche qualora si invocasse una responsabilità concorsuale tra persona fisica ed ente di appartenenza oppure tra più persone giuridiche, l’interprete si dovrebbe in ogni caso attenere, nella commisurazione della misura ablativa, alla quota di profitto personalmente acquisita da ciascun concorrente.

Infine, appare opportuno evidenziare un ulteriore orientamento giurisprudenziale che ha come effetto proprio l’ampliamento del raggio d’azione della confisca di valore, ammettendone l’applicazione a carico dell’ente, pur riguardo a reati per cui non è prevista alcuna responsabilità della persona giuridica.

La Corte di cassazione[101], sostenendo che le conseguenze patrimoniali dell’illecito commesso nell’interesse dell’ente ricadono comunque su quest’ultimo, salvo che si dimostri l’intervenuta rottura del rapporto organico, e che la società “beneficiata” non possa considerarsi terza estranea al reato (perché partecipa alla utilizzazione degli incrementi economici che ne sono derivati), il tutto a prescindere dalla configurabilità di una responsabilità dell’ente ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001, ha affermato la sequestrabilità/confiscabilità di beni appartenenti alla persona giuridica per reati tributari commessi nel suo interesse, pur trattandosi di ipotesi escluse dal novero degli illeciti ex D. Lgs. n. 231 del 2001.

Anche la dottrina[102] propende per l’applicazione della confisca per equivalente ai beni della società beneficiata dall’evasione fiscale, qualora il reato tributario sia commesso nell’interesse e a vantaggio dell’ente collettivo dal suo amministratore, atteso che di tali beni il reo ha comunque la disponibilità proprio in quanto amministratore della società-contribuente, evidenziandosi, inoltre, la difficoltà di considerare l’ente collettivo quale soggetto estraneo al reato, tenuto conto che il reato tributario verrebbe commesso nell’interesse della società beneficiaria dell’evasione.

Tuttavia, la scelta precisa e consapevole del legislatore di escludere i reati tributari dal catalogo delle delle fattispecie incriminatrici che possono fondare la responsabilità dell’ente non può essere superata ammettendosi l’applicabilità della confisca-sanzione anche nei confronti dei beni della persona giuridica in quanto si procederebbe ad un’autentica analogia legis, con evidenti risultati in malam partem, contrari, quindi, al principio di legalità.

Da ultimo, la Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 1256 del 10 gennaio 2013 ha sancito che i reati tributari non rientrano tra quei reati-presupposto che, commessi da soggetti apicali o subordinati della persona giuridica, nell’interesse o a vantaggio della stessa, danno luogo a responsabilità dell’ente da reato in base al D. Lgs. n. 231/2001, circostanza che consentirebbe di ricorrere alla misura cautelare della confisca. Pertanto, i beni aziendali sfuggono a tale misura, anche nella forma per equivalente, a meno che la stessa società non sia stata utilizzata solo quale “paravento” per lasciare agire i vertici nelle manovre di evasione fiscale personale.[103]

«In conclusione, nel caso di specie, ove è indiscussa la piena autonomia della struttura societaria di Unicredit spa rispetto agli indagati, è pacifico che sussistono gravi indizi che gli indagati, alcuni di essi in rappresentanza dell'ente, abbiano posto in essere la complessa trama fraudolenta in danno dell'Erario, a vantaggio e nell'interesse delle società bancarie poi confluite in Unicredit spa.

D'altra parte la società suddetta, pur non risultando affatto estranea ai reati tributari, non può essere chiamata, a legislazione vigente, a rispondere per tali reati, in quanto, come detto, nessuna fonte di legislazione primaria prevede tale titolo di responsabilità: di conseguenza la società Unicredit ed i suoi beni non possono essere destinatari di provvedimenti cautelari di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca del profitto dei reati tributari per cui si indaga, pur commessi a suo vantaggio, reati ascritti ed allo stato ascrivibili solo agli indagati-persone fisiche.»

Dunque, se, da un lato, la scelta politico-criminale del legislatore è sicuramente criticabile in quanto è fisiologico che gli adempimenti tributari di maggiore spessore e consistenza concretizzano ben precise scelte di politiche di impresa cui conseguono vantaggi indebiti per l’ente, il protagonista principale del rapporto tributario, dall’altro, tuttavia, tale vuoto normativo non può che essere superato attraverso un auspicabile intervento di riforma del D. Lgs. n. 231/2001.

A tal proposito, si segnala il recente ddl S.19 presentato in data 15 marzo 2013 dal senatore Grasso ed altri firmatari, che propone di  «estendere la responsabilità da reato degli enti ai reati tributari, colmando così una lacuna ingiustificabile sul terreno politico-criminale (si evidenzia, tra l'altro, che i reati tributari si atteggiano spesso come strumentali alla consumazione del reato di corruzione: si pensi al reato di false fatturazioni, funzionale alla creazione di provvista extracontabile destinata ad integrare una «tangente»). Sul piano della dosimetria sanzionatoria, sono state previste le sanzioni pecuniarie più gravi, unitamente alle sanzioni interdittive, per i delitti che presentano l'elemento costitutivo della «fraudolenza» o dell'«occultamento o della distruzione»: dunque, gli illeciti di cui agli articoli 2, 3, 8, 10 e 11 del decreto legislativo n. 74 del 2000». (cfr. Relazione di accompagnamento al ddl S.19)

In particolare, l'art. 8 rubricato "Modificazioni al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in tema di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica" prevede l'inserimento dell'art. 25-quaterdecies (Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto), così formulato:

"1. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i delitti di cui agli articoli 4, 5, comma 1, 10-bis e 10-ter, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;

b) per i delitti di cui agli articoli 10 e 11, comma 2, la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote;

c) per i delitti di cui agli articoli 2, comma 1, 3, 8 e 11, comma 1, la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a settecento quote.

2. Nei casi di condanna per i delitti indicati nel comma 1, lettere b) e c), si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non superiore ad un anno."

[48] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2107, ALESSANDRI, Commento dell’art. 27 comma 1 Cost., in BRANCA-PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1991.

[49] FORNARI L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto Penale “moderno”, Padova 1997, 275.

[50] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2108.

[51] Cass. pen., Sez. Un., 9-7-2004, n. 29951; Cass. pen., sez. II, 14-6-2006, n. 31988.

[52] Cass. pen., Sez. Un., 9-7-2004, n. 29951; Cass. pen., Sez. Un., 24-5-2004, n. 29952; Cass. pen., Sez. II, 14-6-2006, n. 31988; Cass. pen., Sez. VI, 4-11-2003, n. 46780.

[53] Cass. pen., Sez. Un., 6-3-2008, n. 10280, in Ventiquattrore Avvocato, n. 9, 2008, 101.

[54] CHIARAVIGLIO, op. cit., 963-964.

[55] Cass. pen., sez. II, 6-7-2006, n. 30729; Tribunale di Milano, Sez. riesame, 22-10-2007, in Corr. mer., 2008, 84:«Al fine di individuare il profitto del reato di manipolazione del mercato oggetto del sequestro prodromico alla confisca per equivalente, non sono detraibili dal beneficio economico conseguito i costi che siano sostenuti a fronte di attività illecite e penalmente rilevanti, ovvero di attività di per sé lecite che, in concreto, siano state dispiegate e finalizzate alla realizzazione del reato: sono invece scomputabili gli oneri fiscali relativi a tale profitto, in quanto la loro confisca si tradurrebbe in una doppia ablazione».

[56] FONDAROLI, op. cit., 58, MAUGERI, op. cit., 564 ss.

[57] COMPAGNA, L’interpretazione della nozione di profitto nella confisca per equivalente, nota a ord. Trib. Napoli sez. riesame 6-10-2007, in Diritto penale e processo, 2007, 1645; in senso conforme EPIDENDIO, La nozione di profitto oggetto di confisca a carico degli enti, in Dir. pen. proc., 2008, 1273; LUNGHINI, Profitto del reato: problematica individuazione delle spese deducibili, in Corr. mer., 2008, 90.

[58] COMPAGNA, op. cit., 1644.

[59] La sentenza è relativa al noto procedimento penale ex D. Lgs. n. 231/2001 per truffa ai danni dello Stato contro l’ATI Impregilo-Fibe-Fisia Italimpianti in relazione all’aggiudicazione del servizio smaltimento rifiuti in Campania.

[60] Secondo il linguaggio aziendalistico o economico, il vantaggio economico deve essere inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito. EPIDENDIO, Manipolazione del mercato e sequestro preventivo delle azioni, in Corr. Mer., 2006, 644.

[61] MONGILLO, op. cit., 1765.

[62] MONGILLO, La confisca del profitto nei confronti dell’ente in cerca d’identità: luci e ombre della recente pronuncia delle sezioni unite, nota a Cass. sez. un. pen. 2-7-2008, n. 26654, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2008, 1764-1765.

[63] Cass. pen., sent. n. 46215/2009; Cass. pen., S.U., sent. n. 38691/2009; Cass. pen., sent. n. 7718/2009; Cass. pen., sent. n. 27746/2010; Cass. pen., sent. n. 35748/2010; Tribunale di Milano, 3-11-2010/3-1-2011, (caso Banca Italease).

[64] PISTORELLI, Confisca del profitto del reato e responsabilità degli enti nell’interpretazione delle sezioni unite, in Cass. pen., 2008, 12, p. 4562 ss.; FURFARO, La confisca per equivalente tra norma e prassi, in Giur.it., 2009, p. 2082.

[65] Cfr. in senso conforme Cass. pen., Sez. II, 22-2 2012, n. 20976.

[66] ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, op. cit., 2130.

[67] MAUGERI, La confisca per equivalente – ex art. 322-ter – tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di razionalizzazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, p. 792.

[68] LUNGHINI, MUSSO, La confisca nel diritto penale, in Corr. mer., Le Rassegne, 2, 2009, p. 29.

[69] FONDAROLI, op. cit., 249 ss., SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 135, MUSCO, op. cit., 22, FORNARI, op. cit., 105 ss, ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, II ed., Milano 2006, 253-254.

[70] SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 135.

[71] MUSCO, op. cit., 22-23.

[72] SGUBBI-FONDAROLI-TRIPODI, op. cit., 136, MUSCO, op. cit., 23, ROMANO, op. cit., 254.

[73] FONDAROLI, op. cit., 249.

[74] PELISSERO, Commento alla L. 29 settembre 2000, in L.P., 2001, 1027.

[75] BARAZZETTA, La confisca nei reati societari (art. 2641), in I nuovi reati societari, a cura di GIARDA e SEMINARA, Padova 2002, 191.

[76] Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 9 febbraio 1995, “Welch c. Regno Unito”, serie A, n. 307-A. In questa pronuncia la Corte ha affermato che l’applicazione retroattiva di un provvedimento di confisca viola l’art. 7, comma 1, seconda parte, CEDU. Nella fattispecie, il ricorrente Welch, arrestato il 3 novembre 1986, era stato condannato il 24 agosto 1988 a 22 anni di reclusione per traffico di stupefacenti. Insieme alla pena della reclusione, il giudice di primo grado aveva disposto la confisca di 66.914 sterline inglesi in applicazione di una legge del 1986 in materia di stupefacenti, che era entrata in vigore il 12 gennaio 1987, quindi in data successiva al momento del fatto. Nella motivazione della sentenza, i giudici della Corte di Strasburgo si sono soffermati nell’indicare i caratteri che una misura di sicurezza deve possedere affinché essa, alla luce del dettato dell’art. 7 CEDU, possa essere considerata una pena, trovando piena applicazione, in questa seconda ipotesi, il principio di irretroattività. Dal testo del citato art. 7 CEDU si deduce che «il punto di partenza di ogni valutazione sull’esistenza di una pena consiste nello stabilire se la misura in questione sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato». Altri elementi utili per effettuare tale valutazione possono essere «la natura e lo scopo della misura in contestazione, la sua qualificazione nel diritto interno, i procedimenti connessi alla sua adozione ed esecuzione, nonché la sua gravità». In questo modo la Corte ha sostenuto che «per rendere efficace la tutela dell’art. 7 CEDU, la Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e valutare essa stessa se un determinato provvedimento si sostanzi in una pena ai sensi della predetta disposizione», prescindendo dalla veste formale attribuita dal legislatore interno alla confisca. Nel caso del sig. Welch rimane il fatto che il ricorrente ha subito un pregiudizio più grave in conseguenza del provvedimento di quello che avrebbe subito al momento della commissione dei reati per i quali era stato condannato. Da ciò si desume, quindi, che ogni volta che sarà possibile qualificare una misura di sicurezza in termini di pena, il principio di irretroattività ex art. 7, comma 1, seconda parte, CEDU, non potrà che trovare applicazione anche per le misure di sicurezza e, nella specie, per la confisca di beni. L’interpretazione della giurisprudenza italiana, basata sul consentire la retroattività delle leggi di applicazione delle misure di sicurezza appare, pertanto, in contrasto con l’art. 7 CEDU, disposizione che conferisce al cittadino «una garanzia più ampia di quella fornitagli dalla Costituzione italiana».

[77] Cfr. in senso conforme Cass. pen., sentenza n. 42462 del 30 novembre 2010, secondo la quale «per effetto del rinvio contenuto nel citato art. 1, comma 143, le disposizioni di cui all’art. 322-ter c.p. si applicano nella loro interezza ai reati tributari e non solo il primo comma, che limita la confisca per equivalente al prezzo del reato e questo è dovuto al fatto che la disciplina dettata dal primo e secondo comma dello stesso articolo tiene conto della specifica natura dei reati e dei soggetti che ne sono autori, ai quali deve applicarsi la misura di ablazione non solo al prezzo del reato, bensì al profitto». Pertanto, la Corte ha ristretto l’applicazione della confisca per equivalente, escludendo la possibilità di attuarla nei casi di reati tributari commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 143, della Legge Finanziaria in esame.

[78] L’art. 13 del D. Lgs. n. 74/2000 recita: «1. Le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. 2. A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’art. 19, comma 1. 3. Della diminuzione di pena prevista dal comma 1 non si tiene conto ai fini della sostituzione della pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria a norma dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689».

[79] MUSCO – ARDITO, Diritto penale tributario, 2010, 74.

[80] ROMEO, La confisca per equivalente in ambito tributario, in Fiscalitax, 2009, 395.

[81] MUSCO – ARDITO, op. cit., 75.

[82] DEL SOLE, E’ costituzionalmente compatibile l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente?, nota a ord. Trib. Trento 12-2-2008, in Corriere tributario, 2008, 2601.

[83] Continuando in scansione cronologica, si ricordano: l’art. 2641 c.c., che dispone la confisca di denaro o beni di valore equivalente rispetto al prodotto, al profitto e agli instrumenta del reato, qualora non sia possibile l’individuazione e l’apprensione diretta di questi ultimi; l’art. 600-septies c.p., riformulato dall’art. 15, comma 5, L. 11 agosto 2003, n. 228, con riferimento alla confisca dell’equivalente del profitto di delitti di pedopornografia (e altri contro la libertà personale); l’art. 187-sexies D. Lgs. n. 58 del 1998, che prevede la confisca dell’equivalente del profitto e del prodotto dei reati di insider trading e di manipolazione del mercato; l’art. 11 L. 16 marzo 2006, n. 146, che contempla la confisca di valore in relazione al prodotto, prezzo e profitto di determinati reati posti in essere dal crimine organizzato internazionale; l’art. 648-quater c.p., introdotto dall’art. 63, comma 4, D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, relativo alle somme di denaro, ai beni o alle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo dei reati di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.); l’art. 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244, che ha esteso la confisca (anche per equivalente) ex art. 322-ter c.p. ai reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74; l’art. 474-bis c.p., inserito dall’art. 15, comma 1, lett. c), L. 23 luglio 2009, n. 99, che prevede la confiscabilità per equivalente del profitto dei reati di contraffazione (artt. 473 e 474 c.p.).

[84] ROMANELLI, Confisca per equivalente e concorso di persone nel reato, nota a Cass. sez. VI pen. 2-8-2007, n. 31690, Cass. sez. VI pen. 14-9-2007, n. 34878, Cass. sez. VI pen. 20-9-2007, n. 35120, in Diritto penale e processo, 2008, 870.

[85] Cass. Sez. VI, 27 gennaio 2005, in Rep. Foro it., 2005, 57, PELISSERO, op. cit., 1029.

[86] Cass. Sez. VI, 13 marzo 2006, n. 12852, in Riv. Pen., 2006, 939.

[87] Cass. pen., SS.UU., sent. n. 41396/2005, Muci.

[88] PELISSERO, Commento all'art. 3 l. 29 febbraio 2000, n. 300, in Leg. pen., 2001, p. 1030.

[89] Cass. pen., sez. VI, 14 giugno 2007, n. 30966, in Cass. pen., 2008, p. 963.

[90] Cfr., tra le molte, Cass. pen., sez. II, 14 giugno 2006, Chetta, in Giur. it., 2009, p. 966; Cass. pen., sez. II, 6 luglio 2006, Carere, in Guida. al dir., 2006, 40, p. 117; Cass. pen., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 5401, in CED Cass. pen., n. 242777; Cass. pen., sez. fer., 8 luglio 2009, Alloum, in Cass. pen., 2010, p. 3102. Conf. Cass. pen., sez. II, 22 giugno 2011, n. 25994.

[91] ROMANELLI, op. cit., 874.

[92] Cfr., tra gli altri, FONDAROLI, op. ult. cit., p. 259 ss.; SANTORIELLO, In tema di sequestro e confisca per equivalente, in Giur. it., 2007, p. 968; ROMANELLI, Confisca per equivalente e concorso di persone nel reato, in Dir. pen. proc., 2008, p. 868; VERGINE, Confisca e sequestro per equivalente, cit., p. 239 ss.; BALDUCCI, Confisca "per equivalente" e concorso di persone nel reato, in Cass. pen., 2010, p. 3104; LORENZETTO, Sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore nei rapporti tra persona fisica ed ente, in Cass. pen., 2010, p. 4276.

[93] Cfr. Cass. pen., sez. VI, 5 giugno 2007, n. 31690, in CED Cass. pen., n. 236900; Cass. pen., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 25877, ivi, n. 234850; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10690, ivi, n. 243189.

[94] Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), Fisia Italimpianti e altri, decisione già diffusamente trattata in precedenza.

[95] FIANDACA-MUSCO, op. cit., 638-639.

[96] Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), Fisia Italimpianti e altri, decisione già diffusamente trattata in precedenza.

[97] Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611.

[98] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 27 settembre 2006, Troso, in Le Società, 2008, p. 241;Cass. pen., Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 19764, in Guida al dir., 2009, 26, p. 82; Cass. pen., Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611, in Cass. pen., 2010, p. 4274; Cass. pen., Sez. I, 27 ottobre 2009, n. 42894, in Guida al dir., 2010, Dossier 2, p. 93.

[99] DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in LATTANZI (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, II ed., Milano, 2010, p. 136 ss., la quale sostiene che «le analogie con il diritto antropomorfico non siano così forti da legittimare l’inquadramento teorico all’interno dell’istituto concorsuale», essendo più coerente interpretare il congegno normativo de quo «in modo da ritenere che la responsabilità dell’ente, seppure appoggiata su quella delle persone fisiche autrici del reato, sia differente da questa (in quanto caratterizzata da una diversa tipicità soggettiva) ed emancipata dalla medesima: in fondo […] l’illecito dell’ente non si esaurisce nel reato, ma presuppone a monte una condotta (colposa) di omessa organizzazione, che è opportuno massimamente valorizzare per controbilanciare l’evanescenza di un impianto fondato tutto ed esclusivamente su elementi normativi».

[100] TUTINELLI, Solidarietà tra ente e persona fisica in tema di sequestro per equivalente, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2009, 4, p. 91 ss.

[101] Cfr. Cass. pen., sez. III, 07 giugno 2011 (dep. 19 luglio 2011), n. 28731.

[102] G. SALCUNI, I reati tributari. Parte generale, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 493; A. PERINI, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen.,Torino, 2008, 943 ss.

[103] I tentativi di aggressione da parte della magistratura inquirente dei patrimoni societari, per la commissione di reati tributari, non si esauriscono nell’appena riferito orientamento giurisprudenziale. Cfr. Cass. pen., sez. II, sent. 29 settembre-28 ottobre 2009, n. 41488: «Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo cui non è configurabile il concorso fra il delitto di frode fiscale ex art. 2 D. Lgs. n. 74/2000 e quello di truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640, cpv., n. 1, c.p., dovendosi ritenere il secondo consumato nel (ovvero in rapporto di specialità con il) primo, con la conseguenza che, verificandosi l'assorbimento nel delitto di frode fiscale di quello di truffa aggravata, è impedita l'applicazione della confisca per equivalente, non prevista dalla legge anche per i reati tributari, se non per i fatti - qui pacificamente non ricorrenti - successivi all'entrata in vigore della legge finanziaria 2008, n. 244/2007. Le conclusioni di siffatto univoco indirizzo giurisprudenziale valgono sia per la responsabilità penale delle persone fisiche che per quella c.d. “amministrativa” delle persone giuridiche. Il principio di legalità, cui è ispirato l'intero sistema penale nonché l'ordinamento settoriale della responsabilità degli enti, impedisce infatti che possa “scomporsi” il reato complesso - ovvero qualsiasi altra figura criminosa che ne assorba un'altra, esaurendo in sé l'intero disvalore del fatto - al fine di far derivare, da una parte artificialmente separata della condotta posta in essere ed isolatamente riguardata, quelle conseguenze sanzionatorie che solo da essa, e non invece da quella globalmente considerata dalla legge, conseguirebbero. Il tribunale ha dunque violato il principio di stretta legalità, ritenendo applicabile all'ente una sanzione (quale deve essere considerata la confisca per equivalente) in ordine ad un'ipotesi criminosa (la contestata frode fiscale) che non la contempla; e ciò ha compiuto sia mediante la descritta, ardita in direzione - ai fini elusivi della legge - consistente nel valorizzare esclusivamente gli elementi della truffa aggravata contenuti nel delitto tributario, del quale - è bene precisarlo - il legislatore ha escluso finora la natura di reato presupposto della responsabilità degli enti, non avendolo mai inserito nel catalogo contenuto nella sezione III, capo I, d.lgs. n. 231/2001; sia ritenendo irragionevolmente (dunque con manifesta illogicità) “scomponibile” il delitto di frode fiscale - al fine di apprezzarne penalmente una sua parte - solo con riguardo alla responsabilità della persona giuridica, avendo viceversa esattamente escluso siffatta creativa operazione ermeneutica ne