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Luci e ombre del Sunshine Act italiano

Venezia
Ph. Marta Stranges / Venezia

Indice:

1. La p.d.l. “Baroni”

2. I precedenti regolatori e l’incentivo reputazionale

3. Due questioni problematiche

4. Conclusioni

 

1. La p.d.l. “Baroni”

È in corso di approvazione la p.d.l. “Baroni” (dal nome del suo primo firmatario, l’on. Baroni [M5S]) che vuole essere, per l’Italia, ciò che, per gli Stati Uniti, è stato il Sunshine Act. Pertanto, essa vuole garantire il «diritto alla conoscenza» dei rapporti, aventi rilevanza economica, intercorrenti tra le imprese e i soggetti che operano nel settore della salute e tra le imprese di questo settore e le organizzazioni sanitarie, al fine di garantire maggiore trasparenza, e, di conseguenza, una più efficace prevenzione della corruzione e del degrado dell’azione amministrativa.

Il legislatore della proposta in esame ha voluto affrontare il problema dei conflitti di interessi nel campo sanitario attraverso lo strumento della trasparenza, concretizzato (ex articolo 3 comma 1) nell’introduzione di un obbligo di pubblicità, all’interno di un registro telematico, delle convenzioni e erogazioni in denaro, beni, servizi e altre utilità effettuate da un’impresa produttrice (farmaceutica) in favore:

i) di un «soggetto che opera nel settore della salute», quando abbiano un valore unitario maggiore di 50 euro o un valore complessivo annuo maggiore di 500 euro;

ii) di un’organizzazione sanitaria, quando abbiano un valore unitario maggiore di 500 euro o un valore complessivo annuo maggiore di 2.500 euro. Inoltre, sono soggetti al medesimo obbligo pubblicitario (ex articolo 3 comma 2) gli accordi tra le imprese produttrici e i soggetti che operano nel settore della salute o le organizzazioni sanitarie, che producono vantaggi diretti o indiretti, consistenti nella partecipazione a convegni, eventi formativi, comitati, commissioni, organi consultivi o comitati scientifici ovvero nella costituzione di rapporti di consulenza, docenza o ricerca.

Come abbiamo altrove rilevato, vista l’ampiezza delle definizioni soggettive tanto di “imprese produttrici”, quanto di “soggetti che operano nel settore della salute” e “organizzazioni sanitarie”, è evidente che questo obbligo di pubblicità si connota per un carattere di notevole pervasività (vd., per maggiori dettagli, il nostro L’automedicazione della trasparenza, IBL Focus n. 310, 02.09.2019).

 

2. I precedenti regolatori e l’incentivo reputazionale

La p.d.l. Baroni non giunge per prima a disciplinare la questione. Da una parte, il Codice dei medicinali (d.lgs. n. 219/2006) vieta in toto qualsiasi trasferimento di valore dalle imprese farmaceutiche ai medici e ai farmacisti in un importante ventaglio di casi (ex artt. 113, 123 e 147 comma 5), così riducendo il numero e la qualità dei trasferimenti rispetto ai quali può ritenersi sussistente la previsione di obbligo di trasparenza; dall’altra, a partire dal 2016, l’industria farmaceutica ha già auto-regolamentato, per mezzo del proprio Codice deontologico (di seguito: Codice Farmindustria) e senza dover attendere l’intervento del legislatore, l’ambito della trasparenza rispetto alle relazioni “rilevanti” (e lecite) tra aziende e operatori sanitari (non solo medici e farmacisti).

In particolare, il Codice Farmindustria ha previsto un obbligo di trasparenza in caso di trasferimenti di valore tra le industrie farmaceutiche, gli operatori sanitari e le organizzazioni sanitarie: ogni azienda farmaceutica è tenuta a documentare e rendere pubblici ogni anno questo genere di trasferimenti, sia diretti che indiretti, attraverso la pubblicazione dei dati in questione sul proprio sito internet aziendale, previo ottenimento del consenso dell’operatore alla pubblicazione (qualora l’operatore non presti il proprio consenso, le aziende dovranno comunque provvedere alla pubblicazione dei dati su base aggregata).

Secondo i dati resi disponibili da Farmindustria, oltre il 70% degli operatori sanitari ha fornito il proprio consenso alla pubblicazione dei dati che li riguardano, e rispetto alla restante parte che invece tale consenso abbia negato, vige comunque l’obbligo, per le varie aziende, di pubblicare i relativi dati in forma aggregata.

Come accade per ogni tipo di incentivo reputazionale (cfr. D. Kreps e R. Wilson, “Reputation and Imperfect Information”, in Journal of Economic Theory, 27, 1982, pp. 253-279), quando, all’interno di un dato mercato, si comincia a tenere in conto un particolare valore nell’orientare le proprie scelte di consumo, le imprese ricevono una decisa spinta ad adeguare, in modo consequenziale, le proprie pratiche e i propri standard, senza necessità di una coazione esterna diversa dalla pressione degli incentivi reputazionali.

In questo modo, la competizione si dispiega non solo rispetto alle qualità intrinseche del bene o del servizio prodotto o al prezzo di immissione di questi ultimi sul mercato, ma anche attraverso la promessa di una particolare qualità dei processi di produzione, a cui le imprese si vincolano volontariamente. Il costo di regole aggiuntive, spontaneamente e intenzionalmente prodotte, verrebbe così bilanciato dai guadagni in termini di “reputazione” nel mercato, destinati a tradursi in guadagni economici: come è stato notato, «si tratta della situazione win-win, cioè di doppio vantaggio sia per l’impresa che per la società» (così S. Sileoni, Autori delle proprie regole. I codici di condotta per il trattamento dei dati personali e il sistema delle fonti, Padova, CEDAM, 2011, pp. 45-46). In questi casi, una successiva regolamentazione può apparire tardiva rispetto a impegni presi già spontaneamente dagli interessati, sollecitati, più e prima che dall’obbligo di legge, dal meccanismo “reputazionale”.

Come dimostra l’esempio di autoregolamentazione considerato, le industrie farmaceutiche, chiamate a fare i conti con il tema della “trasparenza” nelle relazioni con gli operatori del settore, hanno avvertito il peso del relativo incentivo reputazionale e hanno scelto, pertanto, di vincolarsi al rispetto di precisi standard comportamentali, così da salvaguardare la propria credibilità sul mercato e mantenere la fiducia del pubblico. Questi standard appaiono del tutto coerenti con quelli delineati dalla p.d.l. Baroni (ciò spiega il giudizio positivo con cui quest’ultima è stata accolta dall’industria farmaceutica): cionondimeno, viene da chiedersi quale utilità ulteriore essa potrà apportare a un quadro normativo già stabilizzatosi per effetto di scelte volontariamente adottate dalle parti interessate.

 

3. Due questioni problematiche

Ci sono due aspetti della p.d.l. Baroni che suscitano qualche particolare preoccupazione e che, pertanto, meriterebbero di essere adeguatamente ponderate prima della definitiva conversione in legge (per un’analisi più approfondita, vd. il nostro L’automedicazione, cit., pp. 6-8).

Il primo è un raggio d’azione della legge apparentemente troppo esteso. A norma dell’articolo 1 comma 2, le disposizioni della p.d.l. Baroni si applicano ai rapporti, aventi rilevanza economica, intercorrenti tra le imprese produttrici di farmaci, strumenti, apparecchiature, beni e servizi, anche non sanitari, e i soggetti che operano nel settore della salute o le organizzazioni sanitarie.

Nell’estensione della disciplina anche a profili “non sanitari” sembra annidarsi una questione di violazione del principio di ragionevolezza (da intendersi come coerenza interna dell’ordinamento) cui deve soggiacere l’esercizio della potestà legislativa: difatti, non si comprende perché una relazione che afferisca all’appalto del servizio in questione, solo perché realizzato in un ospedale, debba essere soggetta ai particolari e stringenti obblighi di comunicazione, mentre quella che riguardi l’identico servizio, destinato però (in ipotesi) a un istituto scolastico, andrebbe soggetto a un differente (e meno gravoso) regime giuridico pubblicitario.

Il secondo è un conflitto potenziale tra trasparenza e privacy. Rendendo implicita la prestazione del consenso da parte dell’interessato con il compimento di una delle azioni rese rilevanti dalla p.d.l. in esame (ex articolo 5 comma 6 p.d.l), il legislatore vuole, in tutta evidenza, conseguire l’obiettivo di rendere trasparenti la totalità delle relazioni ritenute “rilevanti”: ma, in questo modo, si corre il rischio di porsi in contrasto con la disciplina europea in materia di protezione dei dati sensibili.

Il GDPR, infatti, prevede che il consenso debba essere espresso mediante un «atto positivo inequivocabile con il quale l’interessato manifesta l’intenzione libera, specifica, informata e inequivocabile di accettare il trattamento dei dati personali che lo riguardano» (considerando n. 32) e che «il titolare del trattamento dovrebbe essere in grado di dimostrare che l’interessato ha acconsentito al trattamento» (considerando n. 42).

In particolare, nel contesto di una dichiarazione scritta relativa a un’altra questione (come, per l’appunto, quella riguardante le relazioni “rilevanti” ai sensi della p.d.l. Baroni) dovrebbero esistere garanzie che assicurino che l’interessato sia consapevole del fatto di esprimere un consenso: e, in conformità della direttiva 93/13/CEE, è opportuno comunque prevedere una dichiarazione di consenso predisposta dal titolare del trattamento in una forma comprensibile e facilmente accessibile, che usi un linguaggio semplice e chiaro e non contenga clausole abusive.

Peraltro, in questo caso, non sarebbe possibile invocare l’eccezione prevista in materia di sanità pubblica, visto che quest’ultima fa riferimento esclusivamente (ai sensi del regolamento (CE) n. 1338/2008) allo stato di salute, alla morbilità e disabilità incluse, alle necessità in materia di assistenza sanitaria, alle risorse destinate all’assistenza sanitaria, alla prestazione di assistenza sanitaria e all’accesso universale a essa, alla spesa sanitaria e al relativo finanziamento e alle cause di mortalità.

 

4. Conclusioni

La trasparenza è senz’altro un utile strumento di consapevolezza in democrazia: del resto, come è stato mirabilmente detto, la luce del sole è il migliore dei disinfettanti e la luce elettrica il migliore dei poliziotti (così L. D. Brandeis, Other People’s Money and How the Bankers Use It, New York, Frederick A. Stokes Company, 1914, p. 92). Per questo motivo, è indubbio che la ratio del Sunshine Act italiano sia apprezzabile: non può, però, non essere ribadito come quest’ultima presenti, insieme a varie “luci”, “ombre” più o meno oscure.

A questo proposito, sono già state messe in evidenza questioni problematiche di natura tecnica, che, auspicabilmente, richiederanno un supplemento di riflessione da parte del legislatore, in sede di approvazione definitiva della normativa: ma c’è, soprattutto, da affrontare la questione di fondo del contesto istituzionale e culturale in cui viene a dispiegarsi l’uso dello strumento della trasparenza.

Una società matura, fondata sui valori della responsabilità e dell’etica individuale e aliena da qualsiasi cultura “del sospetto”, è in grado di guardare alla trasparenza come a uno strumento utile, tra tanti, per contenere i “potenziali” effetti deleteri connessi ai conflitti di interessi, in qualunque situazione in cui questi potrebbero annidarsi.

Là dove si presentano dei conflitti di interessi, c’è il rischio di un incremento di gravi “malattie” sociali, quali corruzione e violazione dei doveri etici e professionali; in questo senso, la trasparenza può risultare un rimedio efficace: ma come ogni “farmaco”, anche questo va “assunto con cautela”, specie quando viene imposto con forza di legge.

Del resto, non si deve dimenticare che, già da tempo, le imprese farmaceutiche hanno avvertito una pressione “di mercato”, in forma di incentivo reputazionale, quanto all’opportunità di rendere trasparenti le relazioni con gli operatori del settore e vi abbiano dato seguito adottato un puntuale codice di autoregolamentazione. Sarebbe stato forse preferibile, allora, che il legislatore, rifiutando di cedere alla solita tentazione protagonistica, avesse lasciato compiersi questi positivi esperimenti, invece di superarli (e soppiantarli) con l’ennesima legge.