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Lucio Fontana: la firma come strumento di paternità

Io sono un santo - Lucio Fontana
Io sono un santo - Lucio Fontana

Io sono un santo è il titolo di un’opera eseguita nel 1958 da Lucio Fontana esposta di recente alla mostra “Stop Painting”, curata da Peter Fischli alla Fondazione Prada a Venezia.

È una tela grezza ferita dai suoi tagli con scritto sul fronte ad inchiostro “io sono un santo” e sul retro “io sono una carogna”, e faceva parte dell’eredità del Maestro lasciata alla moglie Teresita e dalla stessa, poi, donata alla Fondazione Lucio Fontana, che ben descrive con poche parole vergate di suo pugno chi fosse il Maestro.

È suonato il campanello”, invece, è il titolo, anche esso scritto sul retro della tela, di un’opera respinta dalla Fondazione Lucio Fontana che, però, una perizia grafologica ha ritenuto opera autentica e alla quale il Tribunale di Milano, nel procedimento n. 2725/2021 R.G, con ordinanza del 23 luglio 2020, ha negato l’accertamento giudiziale dell’autenticità, ritenendo inammissibile il ricorso per accertamento tecnico conciliativo ex art 692 bis c.p.c., non essendoci, si legge nel provvedimento, “un titolo contrattuale o extracontrattuale che possa dare fondamento alle richieste” avanzate verso la Fondazione, il cui apprezzamento in merito all’autenticità ricade nell’alveo della libertà di apprezzamento dell’esperto.

Se non fosse che, nel caso del “Concetto Spaziale. È suonato il campanello”, oltre a quella grafologica vi fosse anche una perizia chimico stratigrafica sui pigmenti che aveva anche confermato che la datazione era compatibile con la data di esecuzione dell’opera, la storia sembrerebbe quella raccontata da Giancarlo Politi nel suo Amarcord n. 5.

Politi narra, infatti, che “sempre nello studio fu allorché gli portai un suo quadro da firmare, ricevuto come pagamento della pubblicità su Flash Art, da Remo Pastori, mitico gallerista di Torino. All’epoca più famoso (in Italia) di Leo Castelli perché non c’era artista italiano appena propositivo (Schifano, Festa, Angeli, appunto Fontana ma tantissimi altri, anzi tutti) che non avessero esposto da lui. E lui talvolta pagava le opere che riusciva sempre a vendere, ma altre volte prometteva di pagarle e poi si sottraeva al pagamento con sotterfugi inenarrabili. Se riuscissi a mettere a fuoco meglio la figura di Remo Pastori, anche lui come Luciano Inga-Pin, morto povero e solo, lui sì che meriterebbe un Amarcord. Ma anche nel suo caso, vivendo io a Roma e lui a Torino, lo frequentavo saltuariamente. Pur sentendo raccontare su di lui le storie più divertenti e assurde, di cui talvolta fui anche testimone. Conoscendo Pastori, che mi aveva dato il quadro di Fontana, chiesi a Lucio se era veramente suo, perché non era firmato. Lucio guardò attentamente il quadro, lo girò e rigirò su se stesso, poi mi disse: “Ti piace questo quadro?” “Sì, è bello, molto bello come tutte le tue opere”. “Bene, se ti piace e piace anche a me, allora è mio”. E ridendo me lo firmò con dedica”.

Tra le righe di quella storia d’altri tempi, sembra potersi leggere che, forse, quell’opera data in “cambio merce” per la pubblicità non fosse “buona”, come si dice in gergo, ma che per amicizia e generosità il Maestro l’avesse fatta sua, trasformandola con la sua firma e dedica in un’opera autentica.

Un po’ meno retrò, ma sulla stessa linea, è il post dell’8 novembre 2020 di Damien Hirst sulla sua pagina Instagram, in cui dichiara di aver comprato un “suo” fake spot painting su eBay per 10 sterline e che gli era piaciuto talmente tanto che l’aveva firmato e fatto suo realizzandone una tiratura di multipli chiamata “Antibiotics”.

Tempo prima, a una cena data da un collezionista, nell’1985, Andy Warhol si era appropriato della paternità del monocromo Yellow Square del 1979 di Olivier Mosset, apponendovi al fronte la sua firma, come già prima di lui aveva fatto proprio Lucio Fontana creandoLe Jour” (1962) che è il risultato di una perforazione di una tela oro preparata e dipinta dal suo amico artista Jef Verheyen, a casa di Louis Bogaerts a Knokke, in Belgio, performance ripresa in un documentario, ritrovato negli archivi della TV Belga. Ed è per questo motivo che sul retro del dipinto ci sono le firme di entrambi.

Da quando Duchamp ha capovolto un orinatoio e l’ha firmato con lo pseudonimo R. Mutt, il legame tra la mano dell’artista e l’opera si è spezzato, e la rottura è diventata ancora più ampia quando gli artisti hanno iniziato a progettare le loro opere e poi a farle realizzare ad altri nelle loro factories, o farle ricamare da donne afgane, come nel caso degli Arazzi di Alighiero Boetti, e in questi casi l’apposizione della firma diventata l’unico suggello di paternità e di autenticità lasciato in vita dall’artista.

Non si può più condividere l’anacronistica  tesi della Cour de Cassation francese (15 novembre 2005, no 03‐20.597) che ha condannato Daniel Spoerri quando è stato citato in giudizio da un collezionista che aveva scoperto che il tableau-piège da lui acquistato era stato in realtà realizzato da un ragazzino di undici anni, benché battuto in asta con tanto di “brevet de garantie” firmato dall’artista, sancendo il principio dell’esecuzione personale dell’autore dell’opera quale condizione determinante per la sua autenticità e che l’esecuzione da parte di un terzo “privava l’idea creativa dell’artista di ogni fondamento giuridico”.

Eppure una firma autografa sull’opera “Che bel vento di marzo”, con la scritta sul retro dell’emozione del giorno di Fontana, dietro a una tela rossa squarciata da due tagli (46x39 cm), falsa per la Fondazione Fontana, ma autentica per Tribunale di Milano (sentenza n. 7402 del 23 luglio 2019), è stata, poi, oggetto di recente “dannazione” da parte dalla Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 1238 del 28 aprile 2021, che ha negato il diritto all’accertamento giudiziale dell’autenticità.

E come questa, anche la decisione del Tribunale di Milano del 21 luglio scorso non appare condivisibile.

Il rapporto che intercorre tra collezionista e Fondazione ha natura contrattuale di prestazione d’opera a titolo oneroso. Il collezionista, infatti, sottoscrive un modulo prestampato, in cui dichiara di accettare espressamente il regolamento per l’archiviazione di opere e paga un corrispettivo, che per le opere su tela è pari di solito a € 1.525 (iva inclusa).

La giurisprudenza che aveva qualificato l’expertise come «un documento contenente il parere di un esperto, considerato competente ed autorevole, in merito all'autenticità ed all'attribuzione di un'opera d'arte, e ritenuto che tale documento può essere rilasciato da chiunque sia competente ed autorevole, non trattandosi di un diritto riservato in esclusiva agli eredi dell'artista - i quali non possono, quindi, attribuire o negare a terzi (ad es., critici d'arte o studiosi) la facoltà di rilasciare "expertises" in merito all'autenticità dell'opera del loro congiunto -, la formulazione dei giudizi sull'autenticità e sul conseguente valore di un'opera d'arte di un artista defunto costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, e, pertanto, può essere effettuata da qualunque soggetto considerato esperto, fermo restando il diritto degli eredi di rivendicare la paternità dell'opera d'arte, ove erroneamente attribuita ad altri, o, viceversa, di disconoscerne la provenienza” (Tribunale Roma 16 febbraio 2010, n. 3425), è superata con la sottoscrizione di un accordo contrattuale, che la riconduce immediatamente al contratto di prestazione d’opera e che fa sorgere un’ «obbligazione di mezzi» (Tribunale di Roma Sez. IX, Sent., 14/06/2016).

Un’obbligazione di mezzi, dunque, in cui la prestazione si identifica nello sforzo diligente, sicché la diligenza equivale a esatto adempimento e per converso fa sorgere la responsabilità per danni in caso di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c.

E, quindi, se una perizia calligrafica che attesta l’autografia è “un indizio” di autenticità (Cass. Civ. n. 30533 del 4 agosto 2021) per sfuggire alla responsabilità per colpa grave e dimostrare la diligenza dovuta nell’adempimento dell’obbligazione dovranno essere portati a controprova più indizi che attestino la falsità dell’opera.

E non si comprende neppure perché, in caso di firma autografa, il disconoscimento della paternità da parte della Fondazione non possa essere equiparato a quello fatto dall’artista in vita, quando rende l’opera incommerciabile e la priva del suo valore, che è fonte di responsabilità per fatto illecito. Anche perché sarebbe paradossale che un erede o un archivio a memoria d’artista possa godere di diritti e prerogative più ampi di quelli goduti dall’artista stesso in vita.

Infatti, quando Giorgio De Chirico appose la sua firma autenticata dal Notaio Gandolfo sul retro di Malinconia Torinese, e poi, lo stesso dichiarò l’opera falsa, il pittore venne condannato per fatto illecito per non “averne diligentemente controllato la paternità, causando un danno patrimoniale al terzo acquirente che abbia fatto affidamento sull’autenticità dell’opera” (Cass. Civ., Sez. III, 4 maggio 1982, n. 2765).

Sulla base di questi presupposti, anche l’eccezione di inammissibilità dell’accertamento cade e ne è ultronea la sua trattazione separata.